Mellow Mood - Dove affondano le vere radici

I Mellow Mood suoneranno al MI AMI Festival sabato 7 giugno, e in questa intervista ci raccontano il nuovo album "Twinz"

I Mellow Mood suoneranno al MI AMI Festival sabato 7 giugno, e in questa intervista ci raccontano il nuovo album "Twinz"
I Mellow Mood suoneranno al MI AMI Festival sabato 7 giugno, e in questa intervista ci raccontano il nuovo album "Twinz"

Sono una delle realtà a cui si deve maggiormente la rinascita del reggae italiano, anche per la loro capacità di avvicinare un pubblico che non sia solo quello degli appassionati di musica giamaicana. Hanno girato l'Europa in lungo e in largo e si preparano a ripartire per un lungo tour di presentazione del loro nuovo album, "Twinz", che partirà sabato 7 giugno dal MI AMI festival. I Mellow Mood si raccontano, nelle parole del bassista Giulio "Jules I" Frausin, in questa intervista di Silvio Bernardi.

Questo disco nasce dopo un viaggio in Giamaica. Come ha condizionato, dal punto di vista musicale ma non solo, la scrittura di "Twinz", che se non erro è stato composto al vostro ritorno?
Diciamo che c'erano delle idee prima, è nato qualcosa durante... ma sicuramente la Giamaica è stata significativa sia prima, come motivazione, per la scrittura di alcuni pezzi, sia dopo, come fonte di ispirazione. A Kingston si è fatto un gran lavoro tecnico, nel senso che abbiamo lavorato con dei giamaicani sul versante testi, correggere il patois, limare le pronunce... Allo stesso tempo c'era la curiosità di andare a vedere che tipo di posto fosse la Giamaica, scoprire un po' il perché del genere che suoniamo. E da questo punto di vista è stata davvero un'esperienza.

Cosa ti ha colpito in particolare? Era come te l'aspettavi?
Guarda, in realtà parli con uno di quelli che purtroppo non è andato, perché nello stesso periodo ero in Finlandia a fare dei concerti da solo (come The Sleeping Tree, ndr), quindi io ho vissuto un altro tipo di esperienza all'estero, altrettanto significativa. Però diciamo che gli altri Mellow Mood sono tornati molto colpiti da come in Giamaica ci sia musica ovunque (in dieci giorni avranno incontrato 150 cantanti, 200 bassisti), e che paradossalmente a livello popolare ci sia molto più roots della dancehall, che invece è considerata un po' come il nostro mainstream... un po' come se il roots lì fosse un movimento ancora underground.

Hai accennato al patois. Spieghiamo prima cos'è, per chi non lo sapesse...
Il patois è la variante linguistica che viene parlata in Giamaica che nasce, come in tutte le lingue creole, dall'incrocio dell'inglese, quindi la lingua dei colonizzatori, con i residui di lingua africana che sono presenti nella parlata locale.



Dunque, cosa significa per voi cantare in patois, perché è importante per un gruppo reggae non giamaicano adottare questo idioma?
Noi abbiamo sempre cercato di scoprire ed esplorare le radici della nostra musica: quindi come nasce, dove nasce, con quella lingua, con quegli stilemi, e il patois è uno di questi. Invece di fare come i gruppi che cercano di contestualizzare il reggae nella propria realtà, cantando in salentino o in polacco o in tedesco o in italiano, noi cerchiamo invece di avvicinarci il più possibile alla radice della cosa.

Su questo argomento, leggevo nel comunicato di "Twinz" che siete partiti con l'idea di fare un disco che tornasse alle radici, ma a me è sembrato un lavoro molto eterogeneo, che solo in parte rimane in ambito roots.
Io penso che rispetto alle altre nostre cose sia più roots nello spirito, nel senso che le radici della musica reggae sono comunque svariate, rispetto alla canzone roots come la intendiamo noi, alla Marley o Tosh per dire. Abbiamo fatto una ricerca sulle sonorità, nel senso che ci sono dei pezzi molto più analogici, con le batterie smorzate e un suono più simile a quello che si poteva ottenere negli anni Ottanta, rispetto agli anni Duemila. Allo stesso tempo, sai, la cosa bella della Giamaica è che ha influenzato un sacco di generi diversi, uno su tutti il rap, che è comunque di matrice giamaicana. Il nostro viaggio di riscoperta delle radici passa anche attraverso questo. Possiamo dire che la nostra fedeltà alla linea sta proprio nella volontà di esplorare la musica giamaicana in tutte le sue declinazioni; penso che il roots sia proprio questo: fare una cosa il più fedele possibile al suo luogo d'origine.

In effetti ascoltando i vostri dischi si percepisce questa idea di una profonda ramificazione delle radici del reggae...
Sì, prendi ad esempio anche il termine-ombrello dub: uno pensa che significhi una sola cosa poi invece fa una ricerca e capisce che copre una caterva di stili in realtà diversi, c'è lo stepper inglese e quello giamaicano, il dub dello ska...

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...per arrivare ad adesso, che uno ti dice "faccio dub" e tu ti aspetti una cosa tipo Sly & Robbie, Linton Kwesi Johnson, e poi invece viene fuori che è una cosa di elettronica che con la Giamaica non ha praticamente nulla a che vedere.
Esatto. A volte c'è un po' di confusione, ma in realtà è anche bene che ci sia, perché spesso finisce per creare un giro di gente diversa.

Questo indubbiamente. E proseguendo nel ragionamento, secondo te è importante che un genere come il reggae si contamini (con l'hip hop, o la dubstep ad esempio) o è meglio che si evolva all'interno di uno stile più codificato (ad esempio la dancehall, che è più figlioccia del reggae che una contaminazione vera e propria)?
Sicuramente entrambe sono delle belle sfide. Cercare di comprendere in una musica ciò che più si avvicina alla sua radice e nello stesso tempo il ramo più lontano è forse la cosa che troviamo più stimolante; anche nei nostri ascolti, dal furgone agli mp3, cerchiamo di metterci davvero tutto. Tant'è vero che il nostro batterista ha fatto di recente un ep a nome Ioshi con sonorità più stile Burial, poi io con The Sleeping Tree... E poi la contaminazione è davvero una cosa che anche come Mellow Mood ci ha sempre intrigato, perché ti apre uno spettro di combinazioni potenzialmente infinito.

Poi, sempre parlando di contaminazione, mi sembra anche giusto dire che "Twinz", come il precedente "Well well well", esce per La Tempesta, forse l'etichetta indipendente italiana più importante, però in ambito indie. Voi siete l'unico gruppo in levare: cosa significa per voi far parte del loro roster?
Anzitutto è un collettivo dentro il quale ci troviamo a casa. La cosa è bella è stata aver ricevuto fiducia da un'etichetta che ci ha dato la possibilità di fare quello che vogliamo, ed è una cosa per cui saremo grati a La Tempesta per sempre. Allo stesso tempo, c'è un altro fattore: è da quando abbiamo iniziato che incontriamo gente che alla fine dei concerti ci veniva a dire "oh, a me il reggae fa schifo, però il vostro concerto mi è piaciuto". E penso che far parte della Tempesta rappresenti un po' il naturale proseguimento di questa situazione.

Volevo proprio farti una domanda sul pubblico del reggae. La mia impressione è che, dagli anni Ottanta, quando i pionieri Africa Unite l'hanno portato in Italia (cantando prima in inglese, poi in italiano), agli anni Novanta-primi Duemila, in cui il genere era diventato dominio di posse e centri sociali, abbia attraversato un momento, per gran parte dei Duemila fino a poco tempo fa, di oblio pressoché totale...
Concordo pienamente. Anche se è bello vedere che ci sono ancora i fedelissimi, che sono molto appassionati e quando si innamorano di un artista poi lo sostengono qualsiasi scelta faccia. Nel bene e nel male, ovviamente, vedi ad esempio il pubblico di Barrington Levy (in cui mi metto dentro anch'io).

D'altro canto però ora il reggae sta finalmente riconquistando gli onori delle cronache...
Certo, perché si è aggiunta una fetta di pubblico molto giovane, che invece si avvicina al genere dall'altra parte, partendo dall'hip hop o dalle cose più recenti: in qualche modo in questo ambito street c'è finito pure il reggae. Quindi semplificando potremmo dire che c'è il pubblico che lo prende come world music, le persone che magari hanno 40-45 anni, e dall'altro lato le persone che invece ne hanno 15 e magari ascoltano Fedez e, per cambiare, mettono un disco reggae.

Aggiungerei, correggimi se sbaglio, che qualcuno può esserci anche arrivato partendo dall'elettronica di un certo tipo, quella più contaminata col dub...
Senza dubbio. E' d'altronde uno dei lati migliori di fare la musica da cui sono partite tutte le altre, ad esclusione delle cose molto bianche tipo il metal o la musica corale classica... (ride)

Parlavamo di ragazzini. Immaginiamone uno che ascolta hip hop e scopre il reggae grazie a un concerto dei Mellow Mood, si appassioni e voglia saperne di più. Quali sono i dischi che dovrebbe assolutamente sentire?
Domanda difficile... penso che ci siano delle cose imprescindibili, per esempio Marley. Poi non so, mi vengono in mente King Tubby, e gli altri produttori che sono dietro le grandi svolte: Scientist, King Jammy o Prince Jammy che dir si voglia... Consiglierei l'ascolto di tutte le sfumature per capire come sia musica tutta figlia della stessa madre, quindi passare da Capleton ai Midnite è una cosa che può fare solo bene.



E agli antipodi, pensa invece di rivolgerti a uno un po' più su di età - non ti nascondo che mi chiamerei in causa anche me stesso - che mastica roots, rocksteady, dub ma che sia più in difficoltà, diciamo, col reggae moderno. Con quali dischi vinceresti questa diffidenza?
Su questo versante ha fatto davvero un grandissimo lavoro Alborosie: la sua musica è roots, senza dubbi, e per questo può essere apprezzato da un pubblico che ascolta prevalentemente world music, perché ha una produzione molto bella e molto fedele al reggae di trent'anni fa; ma allo stesso tempo è anche molto moderna. D'altro canto sarei curioso di vedere la reazione di qualcuno che ha ascoltato solo roots di fronte a un disco di Damian Marley, che invece è molto lontano da quelle sonorità... Poi personalmente consiglio sempre un disco che è molto eterogeneo, pur nella sua ortodossia roots, che è "Infinite quality" dei Midnite, una superband non giamaicana ma delle Isole Vergini. Anche loro fanno un roots molto "talebano", ma hanno varie contaminazioni con il mondo più nuovo dell'hip hop, sonorità più tribali...

Quindi i talebani ci sono anche nel reggae...
Eh, hai voglia!

Poi anche lì, ci sono i talebani del roots e i talebani della dancehall, e via così... o no?
Sì, sì, assolutamente. Ma è anche il bello della scena, che sia così diversificata... Per dire, conosco tanti ragazzi che ascoltano musica in levare 24 ore al giorno ma non andrebbero a sentire niente di diverso da un sound system. Oppure altri che ascoltano solo musica reggae però vogliono solo andare a ballare dancehall... ma sono diversi aspetti dello stesso fenomeno, secondo me.

Il vostro (ma non solo) produttore Paolo Baldini ci ha detto in una recente intervista che ritiene il nostro reggae molto competitivo, in Europa. Voi in Europa avete già girato parecchio (e state per ripartire), avete la stessa sensazione, che sia un momento in cui le nostre band hanno qualcosa da dire a livello europeo?
Sì, sì. Certo, all'inizio c'è sempre un po' di scetticismo quando gli italiani vanno all'estero perché siamo stati assenti dalla scena per tanti anni, forse anche perché il reggae qui da noi è nato ed ha avuto la maggior diffusione in italiano, e quindi c'è voluto un percorso abbastanza lungo perché si passasse all'inglese e poi i gruppi italiani che cantano in inglese - come noi - andassero in tour all'estero. Però ora c'è un fermento grandissimo, e non è limitato solo a chi canta in inglese, perché suonano in giro per l'Europa anche alcune formazioni che cantano prevalentemente in italiano, come i sardi Train To Roots.

Vorrei terminare questa chiacchierata con una domandina sul tuo progetto parallelo, acustico, The Sleeping Tree, con cui hai esordito l'anno scorso. E' un disco apparentemente folk, eppure il reggae c'entra molto, pur senza che ci sia una sola canzone in levare. Com'è stato possibile?
Guarda, ti direi che la mia madre musicale è il folk, i primi dischi che ho amato sono quelli di Crosby, Stills & Nash, ed è una musica che ho ascoltato e continuo ad ascoltare tantissimo. Però a un certo punto mi sono perdutamente innamorato della musica reggae, e quindi è come se fossi continuamente diviso in questa dialettica tra la mamma e la moglie. Non riesco a non ascoltarle entrambe.

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L'articolo Mellow Mood - Dove affondano le vere radici di Silvio Bernardi è apparso su Rockit.it il 2014-06-02 00:00:00

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