La musica è finita. Il ritiro dalle scene di Ornella Vanoni.

Nel giorno del suo compleanno, uno speciale per capire perché Ornella Vanoni è stata un'icona fondamentale della musica italiana

Ornella Vanoni ai tempi dello Strehler
Ornella Vanoni ai tempi dello Strehler

È uscito il 10 settembre il disco d’addio di Ornella Vanoni, “Meticci (Io mi fermo qui)”, decisa a ritirarsi dalle scene e dalla discografia. Un lungo addio, iniziato con il tour celebrativo “Un filo di trucco un filo di tacco” e che continuerà con la ripubblicazione, domani, del cofanetto triplo “Più di me più di te più di tutto” (due dischi già editi, “Più di me” e “Più di te”, più una nuova raccolta, “Più di tutto”). È annunciato anche un memoriale in cui racconterà le sue canzoni. Tutte buone ragioni per cercare di capire perché è così importante nella musica e nel costume italiani. Oggi, il giorno del suo compleanno.

 

Dopo tre giorni di travaglio, alle 5.30 della mattina di sabato 22 settembre 1934, mamma Mariuccia dà finalmente alla luce una bella bambina: Ornella. Il papà è Nino Vanoni, industriale farmaceutico di una famiglia importante a Milano, che vanta due belle case Liberty nel capoluogo lombardo, una del 1902 in via Petrarca 16, l’altra del 1907 in via Spadari 7. Ornella, come si conviene alla rampolla di una famiglia altoborghese, studia dalle Orsoline, poi gira un po’ di collegi internazionali, in Svizzera, Francia e Inghilterra. Anche se sogna di diventare estetista. Poi, per quei vezzi d’artista così facili da concepire ed attuare quando sei benestante, si iscrive a 19 anni all'Accademia di arte drammatica del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler.

 

Il radical chic in musica

 

Lui la nota subito; lei ne diviene allieva prediletta e amante. Così esordisce sul palco, talvolta attrice, più spesso cantante: prima cantando vecchie canzoni della rivoluzione francese tra un atto e l’altro, poi con un repertorio costruito ad hoc per lei dallo stesso Strehler, Dario Fo, Fiorenzo Carpi, Gino Negri e Fausto Amodei: la canzoni della mala milanese. Trovate fortunosamente su antichi manoscritti, dicono loro. In realtà scritte da loro, che si inventano letteralmente qualcosa di mai esistito: non solo le canzoni, ma la mala milanese stessa, che tanto nel passato quanto in quegli anni ’50 era inesistente. Ricorda Giorgio Buratti, storico contrabbassista jazz: “Andavo con la mia motoretta al Santa Tecla per suonare, la lasciavo davanti al locale e dopo ore, in alcune serate parecchie ore, la ritrovavo esattamente dove l’avevo lasciata” (in “Peccato l’argomento. Biografia a più voci di Enzo Jannacci”, di Sandro Paté, LOG, 2014). Poco importa: le canzoni sono belle e lo spettacolo cucito addosso a Ornella e alla sua voce bassa, calda e irregolare, intitolato appunto “Le canzoni della malavita” e presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1959, le regala successo e notorietà.

 

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(“Hanno ammazzato il Mario”, di Dario Fo e Fiorenzo Carpi)
 

La ricetta funziona: “un pizzico di Brecht, molto film noir francese, un vago accenno di Casablanca, un po’ di dialetto ‘autentico’ qui e là”, come ha notato acutamente Gianfranco Manfredi in “Quelli che cantano dentro nei dischi”. Un coacervo di luoghi comuni che nulla ha a che fare con la realtà e molto con l’immaginazione, ma che proprio per questo colpisce un certo tipo di pubblico, specie quello di sinistra. “Ma mi” poi, canzone ambientata durante la Resistenza (i partigiani non erano forse chiamati “Banditen” dai nazisti?), sarà “cantata con grande partecipazione fin dentro il ’68 proprio per il suo carattere testardamente ideologico” (ancora Manfredi):

 

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(Giorgio Gaber presenta e accompagna Ornella Vanoni in “Ma mi”, durante lo show Rai “Milano cantata” del 1964)

 

Manfredi, pur riconoscendo il grande valore artistico di queste canzoni, parla giustamente però di “kitsch borghese”: “Trattasi di esibizionismo borghese che trova materia di pruriti intellettuali nella poetica del delinquente”. La Vanoni, accortasi che “tutto ciò ha ben poco a che fare con la canzone popolare o per il popolo” (ancora Manfredi; per inciso se ne accorgerà anche uno degli autori, cioè Fo, che andrà poi in cerca di ciò che realmente caratterizza il punto di vista popolare, e cioè il senso del carnevalesco), complice anche la fine della relazione con Strehler, cercherà ben presto un repertorio a lei più consono. Vedremo poi quale.

L’esperienza delle canzoni della mala risulta comunque un imprimatur nella carriera della Vanoni. Rimarrà per sempre l’interprete colta per eccellenza all’interno del mondo della musica leggera, scegliendo brani d’autore (benissimo), ma tornando ancora a dare una rappresentazione edulcorata del mondo popolare quando si accosterà alla musica brasiliana. Benché avesse già interpretato nel 1967 “Tristezza per favore va' via (Tristeza)” di Edu Lobo e Niltinho, il momento decisivo si ha nel 1970, quando incide “L’appuntamento” di Erasmo e Roberto Carlos, col testo italiano di Bruno Lauzi:

 

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Sono 600.000 copie e mesi e mesi di permanenza nelle classifiche. Ornella replica nel 1973 con “Dettagli”, sempre di Roberto Carlos:

 

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Mezzo milione di copie. Il pubblico sostiene e apprezza la passione della Vanoni per il Brasile. Nel 1976 incide un album intero, “La voglia la pazzia l'incoscienza l'allegria” con Vinicius de Moraes e Toquinho:

 

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Tre esempi bastano per cogliere il filo conduttore dell’approccio di Vanoni alla musica brasiliana. Pur d’altissimo livello, si tratta sempre di un’interpretazione kitsch, da lounge bar di qualche hotel esclusivo di qualche località di lusso. Si sente l’approccio snob, di un’altoborghese che produce musica per piccolo borghesi arricchiti che passano le vacanze a Rio: non c’è traccia della nuova musica brasiliana, del Tropicalismo o del Clube Da Esquina. Per quanto raffinato e ben riuscito, si tratta pur sempre di un esotismo da cartolina, di una rappresentazione della musica popolare che vede il popolo nella parte del buon selvaggio. Un popolo astratto, per bene e di buon gusto, moderato e trattenuto, con il solo difetto di essere povero. Il che peraltro lo rende così pittoresco.
In sostanza, Ornella Vanoni introduce in musica – e se ne fa portavoce costante – il radical chic.
Non a caso sia lei che il suo mentore Strehler, rivoluzionari negli anni ’50, si accoderanno entusiasti alla Milano da bere di Craxi negli anni '80 prima e al berlusconismo, oggi dominante pure in assenza di Berlusconi, poi: ultima conferma, l’avvistamento della Vanoni alla presentazione della lista di Letizia Moratti (PDL) per le Comunali di Milano nel 2011.

 

La 'liberazione sexy' della donna come prodotto commerciale.

 

La storia con Strehler, che ho raccontato qui, lascia pesanti strascichi sull’immagine di Ornella, a livello di pubblico e di nuovi amori. Come ha raccontato lei stessa, il nuovo amore Gino Paoli la considerava “una donna di mondo” e sosteneva di aver imparato a far l’amore da lei. La sua voce, che Manfredi ha mirabilmente definito “una fascia sonora che è come un sussurro, un soffio, delle volte quasi un ululato: una sorta di cintura soffice dentro la quale si colloca la nota che è più allusa che precisata”, “un effetto flou” finisce per essere perfetta per questa immagine: “allude sempre e comunque al sesso, con una inequivocabilità del tutto nuova per la canzone italiana”. Le canzoni che Paoli scrive per lei e le fa interpretare presentano “il sesso come totalità dell’esistenza”. Il fatto che la sua storia con Paoli, a dispetto del matrimonio con Luciano Ardenzi, sia nota a tutti per opera delle riviste di gossip (anche le foto porno scattate da lui e spedite ai giornali dalla moglie gelosa), fa sì che la Vanoni non le interpreti solamente, ma tramite esse interpreti se stessa e la propria autobiografia. Il punto di non ritorno si ha nel 1965, con una canzone di Pino Donaggio e Vito Pallavicini, “Caldo”:

 

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“Caldo” non è una canzone da mattonella, non è il sottofondo a un’attività erotica: la racconta. In essa si staglia prepotente e imprescindibile la presenza di Ornella, che non può che cancellare la donna reale che gli sta accanto dalla mente dell’uomo che la ascolta. Complice la tv, che ha sostituito alle dive del cinema quelle della canzone al top dell’immaginario erotico dei maschi italiani, Ornella diventa sempre più diva sexy, anche quando incide canzoni d’amore malinconiche, come la sua versione di “Mi sono innamorato di te” di Luigi Tenco:

 

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(Ornella Vanoni interpreta nel 1969 a “Senza rete”, accompagnata al piano da Pino Calvi, “Mi sono innamorata di te”, incisa nel 1966)

 

Cantata da Tenco, la canzone parla di amori casuali e annoiati; cantata da Vanoni, prima che il femminismo facesse crollare i ruoli sessuali tradizionali, indica sufficienza nel considerare il partner, decisione e volontà nell’uscire di notte per cercare qualcuno, necessità di vita nel separarsi, perché è importante vivere anche la propria solitudine, cosa negata alla donna di quei tempi, impensabile senza un maschio accanto. Da notare anche il fatto che un’interpretazione simile, che presenta una donna adulta più di quello che i tempi consentissero, si colloca nel 1966 e cioè in piena mania collettiva per l’adolescente femmina, a volte ragazzaccio, come nel caso di Rita Pavone (che infatti interpreta un maschio nello sceneggiato tv “Gianburrasca” nel 1964), a volte santerellina vergine pura, come nel caso di Gigliola Cinquetti (“Non ho l’età”, piagnucola spaventata nel 1964), a volte Lolita tentatrice, come nel caso di Catherine Spaak (“L’esercito del surf”, 1966; ma soprattutto film come “La voglia matta” e “Il sorpasso”, entrambi del 1962).

La Vanoni va controcorrente. E certamente dalla posizione di forza di chi ha già successo, impone al mercato non solamente una canzone, ma se stessa, e finisce per divenire essa stessa prodotto in virtù del fatto che canta la propria autobiografia in musica attraverso le parole di altri. A partire dagli anni ’60, per tutti i ’70 e parte degli ’80, appare come testimonial di spot pubblicitari come questo, più della rivale Mina:

 

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(“Carosello” Doria del 1967)

 

O questo:

 

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(“Carosello” Martini del 1974)

 

Negli anni, finché l’età lo permetterà, la Vanoni manterrà l’immagine di gran signora sexy, che vende la propria immagine ma, da vera altoborghese, non certo per il vile denaro. Quando nel 1977 cederà alla mania di farsi fotografare da Playboy che prende cantanti e attrici italiane nella seconda metà dei ’70, non solo realizzerà un servizio solo allusivo e in cui non si vede neppure un capezzolo (la buona educazione si vede sempre), ma per compenso non chiederà soldi ma un’opera d’arte, una sfera dello scultore Giò Pomodoro.

 

Vanoni riconfermerà così la sua alterezza di alto borghese con la ricerca di un crisma culturale e comportamenti trasgressivi che in se stessi sono molto normali: non si mostra come farebbe una semplice marchettara o una popolana porcellona, ma complica il tutto e lo mistifica per renderlo eccitante ai suoi occhi e accettabile alla sua coscienza. Ancora una volta, radical chic.

 

L’interprete colta e la prima cantautrice.

 

Essere, almeno fino a un certo punto, quello che si canta e si mette in commercio ha importanti riflessi, che ci portano al terzo motivo per cui la Vanoni ha fatto storia. Come sottolineato dai titoli di due album del 1968-1969 (“Ai miei amici cantautori”), Ornella è interprete, sodale, amica, amante del meglio della musica leggera italiana: anzi, come Mina, spesso sono le sue interpretazioni a regalare il successo ad autori che non vendono neanche lontanamente come lei. Certo, la sua interpretazione è un valore aggiunto che contribuisce a rendere delle hit dei brani altrimenti solo di culto. Ma ciò che fa sfondare quei brani presso il pubblico è proprio la sua immagine sexy, messa al servizio della qualità artistica. Basti pensare alla musica brasiliana che, interpretata da lei, vende vagonate di dischi. Altrimenti, tranne l’episodio isolato di Toquinho negli anni '80, rimane bellamente e volutamente ignorata dalle masse italiane, che sia edulcorata o grondi sudore e sangue.

Il passo successivo è inventarsi autrice dei propri brani, se non della musica, almeno del testo: forse il primo esempio di cantautrice in Italia, al di fuori del circuito folk (dove operava già Giovanna Marini, con ben altro repertorio e pubblico). Il primo brano in cui si mette alla prova è forse “Se non avessi incontrato te” del 1964, di cui scrive il testo in coppia con Alberto Testa (la musica è di Iller Pattacini). Prosegue nel 1969 con“Mi piaci mi piaci”, del 1969, musica di Pino Calvi, parole sue, insieme a Carlo Silva e Leo Chiosso:

 

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Ma il superclassico arriva nello stesso anno, scritto con Luciano Beretta e gli ancora poco conosciuti Franco Califano, per il testo, e Franco e Mino Reitano, che per una volta si scorda di essere un melenso interprete melodico e infila accordi e melodia tipicamente beat: il risultato è la bellissima “Una ragione di più”:

 

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(Ornella presenta “Una ragione di più” a “Senza rete”, 1969)

 

Padrona della sua vita, libera di andarsene, per quanto riconfermi ancora una volta la sua essenza altoborghese (quante mogli di operai e contadini, che allora erano tante, tantissime, non potevano permettersi la libertà sentimentale perché altrimenti prive di reddito?), aprirà comunque la strada a tante che, dopo di lei, replicheranno le dichiarazioni di indipendenza dal maschio e diritto a decidere della propria vita. Anche per questo, Ornella è imprescindibile.

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("La musica è finita" di Franco Califano, Nicola "Nisa" Salerno, Umberto Bindi; Sanremo 1967)

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L'articolo La musica è finita. Il ritiro dalle scene di Ornella Vanoni. di Renzo Stefanel è apparso su Rockit.it il 2014-09-22 10:26:00

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