Il Pan Del Diavolo - Tra l'oceano e il mar Mediterraneo

L'America, il Mediterraneo, il sud, il folk e il blues. E ancora l'amore passionale, la rabbia sociale, la gioia di lasciarsi andare e di fare la propria parte. Il Pan del Diavolo è una band sanguigna e determinata, che è arrivata all'ultimo album "Folkrockaboom" preparata a dovere. La nostra interv

Il Pan del Diavolo
Il Pan del Diavolo

L'America, il Mediterraneo, il sud, il folk e il blues. E ancora l'amore passionale, la rabbia sociale, la gioia di lasciarsi andare e di fare la propria parte. Il Pan del Diavolo è una band sanguigna e determinata, che è arrivata all'ultimo album "Folkrockaboom" preparata a dovere. La nostra intervista.

Poco fa parlavamo della vostra esperienza al SXSW di quest'anno. Pensando a quelle zone mi vengono in mente il Texas e l'Arizona, due posti che credo vi siano familiari. Ho notato, come molti, che nella vostra musica e nel vostro immaginario tornano spesso. È un'influenza che avete adottato coscientemente o che magari va a ripescare anche nel western all'italiana?
Alessandro: La nostra componente anglosassone non è più forte o spiccata di altri gruppi, per esempio quelli che suonano indie rock. Quasi tutti i modelli musicali contemporanei vengono da lì o dall’Inghilterra. I suoni per esempio, i pedali. Anche se noi non facessimo folk e facessimo noise, il pedale che abbiamo è un pedale costruito in America o in Inghilterra. La nostra componente americana si limita a quello, all’influenza rock, che da quando siamo adolescenti è sempre stata lì ed è così per un sacco di band. Per questo non abbiamo mai pensato al Texas come "simbolo di un suono da copiare". Semplicamente abbiamo iniziato e ci siamo accorti che c’erano dei percorsi simili e affini al nostro, come quello dello studio di Tucson dove siamo andati a registrare, o come quello delle band bluegrass che abbiamo ascoltato ad Austin, e di fronte le quali siamo rimasti a bocca aperta. E poi l’altra componente importante del gruppo è del tutto italiana, perché noi cantiamo in italiano. Chissà se un giorno canteremo in inglese, non credo.
Gianluca: Abbiamo preso una serie di cose dall’America: la semplicità, la scrittura delle canzoni, l’immediatezza di un ritmo, l'avere tre elementi su cui lavorare a una canzone per poi svilupparla. Elementi che sono il ritmo, lo storytelling, la melodia, senza spaziare per costruzioni barocche tipiche della bassa Europa che cercano di recuperare quello che non hanno, arricchendo la musica con degli abbellimenti che appesantiscono il vestito e ti fanno sembrare come Moira Orfei a 80 anni. Noi cerchiamo di rimanere sempre sulla semplicità, sull’immediatezza, che se vuoi è una caratteristica anglosassone. Ovviamente poi il sound che più ci piace è quello contemporaneo, ma anche quello vintage americano, inglese e italiano, dagli anni '50 ai '70.

Volevo arrivare proprio a questo punto. Trovo che nella vostra musica si percepiscano le radici di una certa tradizione italiana, quella del filone di Clem Sacco e Ghigo Agosti, che fondò il movimento degli urlatori. Alla fine voi siete un po’ degli urlatori contemporanei, in senso letterale.
Alessandro: Infatti tutto torna, perché il folk ovunque nel mondo ha uno strumento di base che è la chitarra acustica, assieme alla voce, allo storytelling. Magari in America si traduceva in qualcosa di più melodico, mentre se senti il folk italiano di inizio '900 era tutto urlato. 

Non c'entra con il folk, ma mi viene in mente anche il Celentano degli inizi... 
Sì certo, anche Buscaglione per esempio. Sono comunque dei fantastici esperimenti musicali, a risentirli oggi ci si rende conto che non abbiamo più niente del genere in Italia.

(foto di Ilaria Magliocchetti Lombi)

Credo che in qualche modo abbiate aperto la strada per un nuovo folk/blues italiano. Vi sentite soli nel panorama del nostro paese a suonare questo tipo di musica?
Gianluca: Secondo me non abbiamo aperto la strada, però abbiamo fatto capire che non è una musica di nicchia da lasciare lì dove è nata e formata, ma che al contrario può essere anche ripresa in considerazione perché è una cosa che in Italia sappiamo fare molto bene. Abbiamo gli studi, abbiamo le persone che ci hanno lavorato, la gente che costruisce i Lombardi, i Davoli, i microfoni, gente che sa lavorare. Non siamo gli unici. Per esempio mi viene in mente tutta una scena romagnola composta dai Sacricuori e da gruppi affini che ha sempre mantenuto alta la bandiera del blues suonato in un certo modo, e non del blues delle cover band con la pentatonica fissa. Noi magari abbiamo portato un certo stile musicale nell’indie italiano, questo sì.

Quindi il fatto che siate andati a mixare il disco a Tucson non c’entra niente con tutta questa storia delle influenze. Vi piaceva il modo in cui lavorano e così avete preso un aereo.
Si, è anche una questione di orizzonti. Cercare di capire se potevamo riuscire ad andare oltre i nostri luoghi abituali, a lavorare con della gente che lavora con degli artisti che sono anche dei nostri punti di riferimento. Eravamo sicuri che il sound che esce dalle mani di Craig Schumacher sarebbe stato esattamente quello che noi avevamo in testa, ed effettivamente è stato così.

Come siete venuti in contatto con questo produttore? 
L’abbiamo conosciuto per fama, per i primi mix che aveva fatto, per le persone per cui aveva lavorato. Il contatto fra noi e lui è stato appunto Antonio (dei Sacri Cuori) che ci ha parlato di una serie di professionisti tra i quali Craig. Noi l’abbiamo ascoltato un po’, abbiamo visto lo studio, abbiamo visto le macchine, abbiamo sentito cosa usciva dalle sue mani e abbiamo pensato che fosse esattamente la persona giusta per poter mixare il disco. Un disco molto naturale senza particolari artifici o trucchi, esattamente quello che ha fatto lui prendendo Il Pan del diavolo e valorizzandolo con il sound che doveva essere "attaccato a noi".

(La band in studio. Foto di Cecilia ibañez)

Quindi rispetto ai precedenti dischi sentite di aver avuto più mestiere, più del controllo delle cose, più determinazione?
Sì esatto. Come per qualsiasi lavoro: più lo fai, più hai il polso della situazione.

Però sai non è sempre così. Ci sono un sacco di band che arrivano al terzo album, si stufano di quello che hanno suonato fino a quel momento e pensano “Va bene, adesso inseriamo un’orchestra di fiati” tanto per cambiare qualcosa. E magari sbagliano.
Sì ho capito quello che vuoi dire, è giusto. Noi invece da questo disco siamo riusciti a trarre ancora più linfa vitale, è stato un lavoro molto duro perché questa volta al contrario di "Sono all'osso" e di "Piombo polvere e carbone", abbiamo deciso di prendere in mano la situazione e di coinvolgere solo in un secondo momento una persona esterna, che fungesse da quinto e sesto occhio per tutta la produzione. Detto questo, i dischi sono come i figli, non puoi dire se uno è più bello o più brutto, sono diversi. I primi due sono Il pan del diavolo preso e messo sul tavolo, con l’altro invece abbiamo cercato di fare qualcosa con la band creando delle atmosfere completamente diverse, e anche quello è un disco a cui teniamo moltissimo. Qui siamo “tornati al duo”, ma la responsabilità è nostra.

La scelta di registrare tutto in presa diretta invece da dove è venuta?
Abbiamo fatto questa scelta perché i pezzi li abbiamo sempre registrati e provinati e suonati in due. Generalmente ci mettiamo lì, Ale mi fa sentire una canzone, ci registriamo insieme, poi facciamo un provino. I provini erano già molto potenti, trasmettevano qualcosa, e quindi non volevamo perdere questa attitudine. Non volevamo perdere assolutamente quella forza.

Non so se vi riconoscete in questa osservazione, ma ho trovato "Folkrockaboom" più melodico e blues, con una vena più matura rispetto alle canzoni più urlate del passato.
Non sei l’unica a dirci questa cosa, è vero, anche perché stiamo invecchiando come tutti, stiamo crescendo. E quindi crescendo succedono le cose, uno affronta la vita in un certo modo rispetto a cinque anni prima, e così affronta anche i dischi. Magari il prossimo disco lo facciamo garage, con le chitarre elettriche... potrebbe succedere qualsiasi cosa.

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A proposito di cose della vita, del crescere e affrontare le cose in modo diverso, ho trovato che questo disco affronti il tema dell’amore in maniera molto decisa e particolare. Ci sono due pezzi che mi hanno colpita più degli altri e sono “Il domani” e “I peggiori”.
In quest'ultimo cantate “forse piangerò per una donna, lo faccio sempre, così è l’amore, uomini come me ce ne sono pochi in giro, state alla larga siamo i peggiori”. "Il domani" invece parla di un attaccamento quasi mariano
 alla propria donna. Insomma volevo sapere qual è il vostro approccio a questo tipo di cose. Anche se capisco che è una domanda molto complicata.
Alessandro: Diciamo che certi approcci non erano così chiari all'inizio, le canzoni raccontavano storie diverse ma forse erano meno espressive, lasciavano meno coinvolti soprattutto dal punto di vista affettivo. Sono sempre stato un po’ poco generoso nello scrivere versi d’amore così espliciti. Poi è anche vero che nel processo creativo di questo album, stendendo le cose, abbiamo lasciato indietro meno pezzi e quindi abbiamo deciso di aprirci o scoprirci di più con dei pezzi che possono essere anche d’amore.
Gianluca: Non necessariamente sono autobiografici, magari semplicemente è una visione che si ha diversa, nuova. "Il domani" mi ricordo è un pezzo a cui tenevamo molto.
Alessandro: È il primo pezzo che abbiamo scritto di quest’album. Qui molte emozioni sono spiattellate, alcune sono più disperate tipo "Il domani", altre sono più ironiche.

Quello che ne esce fuori comunque è un approccio estremamente passionale, oserei dire siciliano.
Sì, quella secondo me è un po’ la nostra componente italiana che si fa spazio. E me ne vergogno un po’ perché di solito nella forma mentis di un rocker non rientrano le canzoni d’amore. E invece.

C'è un’altra canzone che mi ha colpito sempre per la passione, ma non di tipo sentimentale. È più una specie di furore, di rabbia sociale. Sto parlando di “Io mi do”.
Diciamo che quella canzone non racconta una storia; c’è solo una persona che descrive come si sente e dice “Io sono qui, do il massimo e dall’altra parte sento che qualcuno non lo fa”. Ogni passo che hai davanti è un ostacolo, hai le scatole piene di tutto quello che succede... e che fai? Canti. 
Gianluca: È un modo per dire “lasciatevi andare”. Le cose succedono anche quando uno si lascia andare, non bisogna essere sempre abbottonati e precisi.
Alessandro: Sì, anche in caduta libera.
Gianluca: Le cose belle possono succedere anche così. È come dire “stasera non voglio tornare a casa, stasera urlo quello che succede”. E non solo stasera, in qualsiasi situazione.

Un’altra cosa che non si può non menzionare di "Folkrockaboom" è l'idea di sud, che c’è da sempre nella vostra musica. È un concetto che esce fuori forte. Cantate "perché fondamentalmente tutti vogliono una fetta di sud." È da interpretare come un'affermazione critica? Quel tipo di risentimento nei confronti di quanti vengono a godersi l'isola una settimana d'estate e poi se la dimenticano per tutto l'anno?  
Alessandro: Prima hai citato la passione, che è uno degli elementi di influenza di "Folkrockaboom". C'è la passione, il romanticismo, ci sono tantissime altre cose prese dal viaggio. “Mediterraneo” è una di quelle canzoni in cui c’è sia la componente del protagonista che finalmente sta tornando a sud, sia la componente del racconto, che in questo caso è un po’ horror. Un saccheggio di teste che racconta una rivoluzione tutta italiana.

Che tipo di rivoluzione?
Immaginati Lombroso nei panni di un diabolico cavaliere che scende al sud, prende tutte le teste e se ne torna a casa. C’è chi è contento di andare giù e c’è chi è contento di andare su.
Gianluca: Si, affonda le radici nella storia questo saccheggio, non è una cosa affrontata semplicemente dal punto di vista turistico. Chi viene al sud è sempre il benvenuto, il problema è cosa viene a fare. Ora non voglio infilarmi in un discorso storico, però il sud è sempre stata una parte un po’ trascurata del paese. Vengono e prendono solo il bello, senza magari lasciare qualcosa di bello a loro volta. Rubano, ma senza lasciare. Non so di chi sto parlando esattamente, potrebbe essere chiunque e qualsiasi cosa. Potremmo parlare degli sbarchi di immigrati che arrivano sulle nostre coste, per esempio (ridono, ndr).
Alessandro: Invita a girare l’occhio da un’altra parte, racconta una storia. Prendi gli MC5, loro potevano raccontare delle loro rivoluzioni in America a Detroit. E noi? Anche noi abbiamo forse qualcosa di cui parlare.
La canzone sociale però è sempre da toccare un po’ con le pinze, perché ci può essere il contenuto, c’è la frase che dice “non è l’oceano, non è lo spazio fra l’America e l’Europa, questo è il nostro sud”. Però non sposiamo il tipo di racconto dei Modena City Ramblers per esempio, con quel tipo di canzone politica. Abbiamo una visione un po’ romantica. Io sono sicuro che una scrittura, una bella scrittura anche leggera, può contenere molta più energia di uno slogan.

In America ci siete stati. Ma avete visitato anche altri paesi del bacino mediterraneo?
No, magari! C’è questo festival di musica gnawa a giugno in Marocco a cui vorremmo andare.

Come spettatori o musicisti?
Innanzitutto vorremmo andarci, poi se ci possiamo portare le chitarre, lo faremo sicuramente. Ci stiamo organizzando.

Siamo finiti di nuovo a parlare di sud. Può darsi che mi sbagli, ma a livello di immaginario credo che il sud abbia un'importanza nella vita delle persone che il nord non ha. Si può essere orgogliosi di essere nati a Milano come tutti possono essere orgogliosi della propria città natale, però chi nasce al sud ha un tipo di attaccamento diverso e più forte che ha a che fare con la poesia e con la terra. 
Secondo me andare verso sud, sia che ti fermi in Sicilia o che ti fermi in Africa, è come fare un viaggio nel tempo. A mano a mano cambiano i modi di essere delle persone. È chiaro che a Londra hai molto meno a cui esser legato. Non sto parlando solo di un legame affettivo, ma anche come dici tu di un legame con la terra. Le grandi città hanno spazi molto compressi e piccoli, mentre più scendi e più tutto diventa ampio. Si ampliano non solo gli spazi ma anche la dimensione di casa, di famiglia, di affetto, di paesaggio. È quest'ampiezza che crea quella dimensione che può tramutarsi in ispirazione musicale, emozioni, legami, ricordi.

 

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L'articolo Il Pan Del Diavolo - Tra l'oceano e il mar Mediterraneo di Nur Al Habash è apparso su Rockit.it il 2014-11-05 15:46:00

Tag: sicilia

COMMENTI (2)

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  • ivan.b.zamellisar 10 anni fa Rispondi

    Che emozione raga!!!Spaccateeeeeeeee sempre e bella intervista,pure le foto!!! :)

  • emily_blacktears 10 anni fa Rispondi

    Bellissima quest'intervista! Molto esplicativa :)