Chitarre garage, galline e Borges: Capra dei Gazebo Penguins racconta il suo album solista

Capra dei Gazebo Penguins ci racconta in lungo e in largo del suo nuovo disco solista "Sotto la panca".

Capra, Sotto la panca
Capra, Sotto la panca - Tutte le foto sono di Marco Pasqualotto

"Sotto la panca" è il primo disco solista di Capra dei Gazebo Penguins, che uscirà il prossimo 14 aprile per To Lose La Track e Garrincha. In quest'intervista Capra ci racconta tutta la storia del nuovo lavoro, dall'illuminazione avuta sotto a un cavalcavia all'importanza delle galline e di Jorge Luìs Borges.

 

Iniziamo con una domanda semplice: perché esce un disco di Capra da solo e perché esce proprio adesso?
Del disco di Capra ne parlavamo tra me e Sollo da un bel po’ di tempo, almeno un paio di anni, senza però sapere di preciso di cosa stessimo parlando. Sicuramente io non avevo nessuna idea definita a riguardo, però ne parlavamo e dicevamo che prima o poi si sarebbe fatto qualcosa di diverso, per staccare, che uscisse a nome mio e non dei Gazebo Penguins. In realtà non ho mai avuto le idee chiare fino ad un giorno in particolare - fammi guardare un attimo il calendario che te lo dico. Era il 4 ottobre del 2014, dovevamo andare a suonare all’Honky Tonky, e come per tutte le date parto da casa mia con il furgone, vado all’Igloo Audio Factory, si carica e andiamo a suonare. Quel giorno, uscito dal casello di Carpi, dove c’è il cavalcavia che supera l’autostrada che porta verso Correggio, in macchina c’era “Slaughterhouse” di Ty Segall ed in quel momento ho detto: “Cavolo, se voglio fare un disco a nome Capra voglio farlo così, una cosa super garage, garage tiratissima”.
Capisco, non è stata un’epifania come quella di San Paolo sulla via di Damasco, però è stato il primo vero momento di chiarezza che ho avuto su questo progetto, una chiarezza veramente adamantina, tanto che, arrivato in Igloo per caricare, l’ho subito prenotato per gli ultimi giorni dell’anno. Perché, oltre al fatto di voler fare un disco garage, avevo ben in mente anche questa idea di volerlo fare secondo delle regole precise. E la prima regola, la più importante, era quella di farlo in sessanta giorni: eravamo in ottobre, di lì a poco sarebbe finito il tour di "Raudo" dei Gazebo Penguins, e così decisi che dal 1 novembre al 25 dicembre il disco doveva essere pronto; e dal 26 al 31 dicembre lo avremmo registrato. E poi così è stato. Come preparazione, ho dedicato tutto il mese di ottobre sia a fare una valanga di ascolti della scena garage - senza troppe declinazioni - e a cercare un suono di chitarra che fosse un po’ diverso da quello che mi ero portato appresso negli ultimi anni di concerti. Il mese è trascorso tra ascolti in cui ho scoperto un sacco di cose che non avevo mai sentito e prove di decine di amplificatori, casse e menate varie, finché ho trovato un settaggio che mi piaceva. Dal primo novembre poi è iniziata la stesura. L’idea non era solo di fare un disco, ma di farlo con una sovrastruttura molto cogente, molto castrante anche, sotto un certo punto di vista. Alla maniera di quel movimento francese che si chiamava OuLipo, che faceva capo a Raymond Queneau in cui poi sono bazzicati anche Calvino e Perec, secondo cui la creatività doveva essere vincolata e quindi magari scrivevano racconti seguendo certi algoritmi algebrici, oppure non potendo usare le lettere con le gambette. Lo scopo era di utilizzare dei blocchi, qualcosa che ti vincolasse, che ti rendesse la vita più difficile, per in realtà far crescere sotto altre strade quella che poteva essere la creatività. Nel mio caso è stata la scelta di un tempo ristretto, ristrettissimo per finire tutto. 

Che disco garage hai ascoltato in particolare? Ci sono state anche delle letture ad accompagnare questo mese? 
In ottobre ho semplicemente ascoltato, penso di non aver letto nemmeno un libro. Quanto agli ascolti invece il gruppo di cui più mi sono innamorato sono stati gli Oblivians, e poi un po’ di tutto, dai The Mummies fino ai White Fence, passando appunto per Ty Segall, che è stato un po’ la scintilla. La cosa curiosa era che alla fine del mese di ottobre, che per me era è stato po’ uno stage all’interno del mondo garage, Ty Segall sarebbe passato dall’Italia e quindi sono andato a vederlo a Bologna. Era il 30 ottobre, il giorno seguente sarebbe stata la vera fine del periodo prefissato ad ascolti e scelta dei suoni, e quindi sono andato al concerto un po’ come a un esame di fine corso.
Che poi, vabbe', tutta questa manfrina sul garage che poi in realtà non è contato un cazzo perché il disco non è venuto per fuori niente garage. Beh, per niente forse no, diciamo che non è venuto garage come l’avevo pensato.

Cos’è rimasto dentro al disco di questi ascolti? Oltre a qualche fuzz…
Il disco ha questa curiosità, che la scaletta del disco è un po’ la cronologia della creazione dei pezzi durante quei due mesi di gestazione. A mio avviso, tipo quella che si chiama “Galline” o quella che si chiama “Diciottenni”, quindi tra le prime, erano un po’ quelle che risentivano di più, almeno nella mia testa, degli ascolti che avevo fatto, quindi certi riff un po’ segati, certe strofe che battono tutte sulla stessa nota, la batteria che pesta sul timpano, il rullante e basta, forti cembali, forti shaker. Magari poi negli altri pezzi ho preso altre derive, le canzoni che vengono fuori non le puoi particolarmente vincolare anche se le tue intenzioni iniziali sono ben precise. Insomma da questa epifania sul cavalcavia Carpi - Correggio di fare un disco garage è venuta fuori in realtà qualcosa che proprio garage non è, però, insomma, per me aver passato un mese a cercare un suono diverso ed aver scoperto gli Oblivians era già un traguardo. Aver poi passato due mesi in cui il mio pensiero principale era mettermi lì, andare su in camera degli ospiti e suonare e poi tirare cavi per casa quando avevo raggiunto un numero di provini decente per registrarli, rendermi conto che erano passate tipo sei ore perché avevo una fame bestia, svegliarmi di notte a scrivere un’idea per un testo, attaccare a suonare a volumi altissimi con ancora la colazione da fare, cioè, già quello per me era una vittoria incredibile, da gasarmi a vita.

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Quindi hai svuotato la camera degli ospiti e lì hai messo tutta la strumentazione. Di solito invece separi l’ambiente della casa dal lavoro?
Quando fai dei tour molto intensi, come è stato l’ultimo tour del disco "Raudo" in cui abbiamo suonato in media tutte le settimane, a me già solo all’idea di portare avanti e indietro degli amplificatori pesantissimi mi viene il mal di schiena. Questo senza contare che suonando tutte le settimane e dedicandogli quindi già una buona fetta del mio tempo, quando arrivo a casa mi piace staccare, fare dell’altro. Ho scelto di vivere in un posto che non c’entra niente con la musica, isolato da tutto, proprio perché avevo questa voglia di chiudere la portiera del furgone e cominciare qualcos’altro, a meno che appunto non ci fosse un progetto, un’idea forte in testa, qualcosa che invece ti spinge a portarti la musica a casa. E infatti è stato bello intenso quel mese lì, perché in realtà finito il tour di "Raudo" siamo partiti due settimane dopo con i Gazebo Penguins per suonare con Johnny Mox, e quindi era sempre un avanti indietro di pedali, amplificatori, testate, di qua e di là. Più o meno usavo certa strumentazione per provarla anche dal vivo, quindi in realtà è stato un bello sballottare del materiale.

In studio siete entrati il 26 dicembre con Sollo come produttore artistico, al "solito" Igloo Audio Factory 
Sollo ha seguito tutta la fase di registrazione dei suoni e poi comunque seguiva anche la produzione artistica del disco, come anche la scelta degli strumenti. In quanto all'Igloo, tutta l’ultima musica che abbiamo fatto l’abbiamo sempre registrata lì perché secondo me si è creata veramente una sinergia speciale tra il suono che cerchiamo e quello che l’Igloo Audio Factory riesce a tirare fuori da una band. Con Sollo alla produzione avevo una tranquillità tale che non me ne fregava niente di quello che faceva da quanto mi fidavo, proprio al 100%, ero certo che quello che ne sarebbe uscito sarebbe stato una bomba. E anche con lui, riflettendo dopo i mix, ci siamo resi conto che come suono “Sopra la panca” è uno dei dischi usciti dall’Igloo Audio Factory che veramente respirano di più. Ha un suono che ci ha gasati tantissimo, siamo carichi.

Non c’era il rischio che il suono andasse molto vicino a quello dei Gazebo Penguins? 
La cosa non ci preoccupava. Nel senso: se anche fosse suonato simile, amen. Comunque di partenza avevamo già stabilito di fare le cose diversamente, partendo da dei suoni diversi: batterista diverso, tastiere, nessun basso e un’intenzione diversa. Anche mentre registravamo sapevamo che dovevamo fare qualcosa che rispecchiasse l’intenzione dei pezzi, come magari creare due o tre ambienti diversi per le tipologie dei pezzi che avevamo individuato insieme a Sollo: quelli un po’ più garagiosi e quelli con la batteria che risuona in un’ambiente grande, quelli con delle gran basse che arrivano e spaccano tutto, altri magari con una visione un po’ più pop. C’è stata una fase di progettazione abbastanza dettagliata, anche perché nel momento in cui per due mesi non fai altro cominci veramente a sclerarci su, arrivando a dei livelli di paranoia al limite del godimento. Delle paranoie comunque piacevoli, in cui cerchi di pianificare il più possibile, perché cinque giorni in studio sono veramente pochi, ma così doveva essere per un “dettame superiore” …e non c’era altra scelta. 

Il disco ormai è chiuso. Ora il disco deve decantare in attesa di aprile, ci sono rimpianti o rimorsi?
Una volta che il disco è stato chiuso, mixato e mandato a masterizzare è stata una grande liberazione. In realtà da quel momento iniziano tutte le altre trafile legate all’uscita di un disco, come per esempio chiudere la grafica per andare in stampa in tempi utili, e le foto, e la bio, etc. Una volta masterizzato in realtà, oltre alla musica (dici poco) non c’era ancora nulla di tutto quello che potesse essere l’artwork del disco o il definire i tempi di uscita ed altro. Per esempio, per quanto riguarda la copertina, per questa foto in mezzo alla neve ho voluto aspettare apposta una nevicata di cui qui in montagna si parlava - tra l’altro è stata una delle peggio nevicate degli ultimi anni - perché avevo questa immagine in mente, epica e blues, di portare la chitarra in mezzo alla neve per andare a suonare, cosa poi è effettivamente successa. Nei giorni della nevicata avevamo infatti un paio di date con Johnny Mox (a Ferrara e a Ravenna) e ad una non sono nemmeno riuscito ad andare perché ero completamente bloccato a casa senza telefono, senza luce elettrica, senza internet e cellulari… ma con la voglia e il tempo per la foto della copertina. 



Scorrendo la tracklist noto due mancanze: la prima è la canzone della neve, data l’eticità di questa nevicata. La seconda invece, data la presenza di un pezzo nel cui titolo c'è un giorno della settimana ("Il lunedì è la domenica del rock"), è la canzone sulla “pizza del mercoledì”, che ormai vanta dei propri fan.
Non ho messo pizze perché volevo metterle nel video e farle vedere. Tra l’altro oggi ci stiamo sentendo nel giorno in cui abbiamo fatto il video de “Il lunedì è la domenica del rock” e l’abbiamo volutamente girato di mercoledì che nelle tradizioni di casa è il giorno in cui si fa la pizza nel forno a legna. Tutto questo per avere apposta la pizza nel video.

Rispetto al tuo solito, nei testi di questo disco si nota la differenza tra la prolissità tua e dei tuoi scritti - la concisione infatti è dono di tua figlia Ester - e la concisione di queste canzoni. In parte penso sia per lasciare spazio al suono, in parte perché ci hai dato di labor limae. Hai voluto tenere per te qualche concetto?
Quando scrivi dei testi e li porti ad una band su cui magari si lavora insieme come band, c’è un senso diverso di democrazia e di rappresentatività che ha molto a che fare con il concetto di res pubblica, cosa da gestire insieme, così come sarebbe la repubblica etimologicamente parlando. In questo caso invece la responsabilità non cadeva su altre persone ma era una cosa fondamentalmente mia. Quando mi sono trovato da solo a potere e dovere decidere cosa dire, e l’ultimo discrimine era sempre la mia decisione, la mia decisione di partenza era, anche per i testi, di essere coerente con quell’idea di disco come sfida ed esperimento che mi ero prefissato quando avevo deciso di farlo in un determinato tempo. L’idea generatrice in certi testi è stata quindi quella di raccontare una certa cosa che fosse il meno raccontabile possibile: da qui per esempio il mettere il codice fiscale in un ritornello, che mi suonava abbastanza anti-canzone - poteva essere anche il 730 o un codice ISBN.
In un altro caso la sfida è stata ficcarci una citazione da Borges come quella su “Pierre Menard” che avevo in testa da tempo e su cui volevo scrivere una canzone d’amore. Tra sfida ed esperimento è stato anche il fare una canzone sulle galline, una canzone garage sulle galline. Lo schema è stato di costruire testi a partire da dei piccoli abbagli che mi venivano in mente durante le giornate in cui ero lì a suonare, durante la maturazione dei pezzi, qualcosa che si depositava su un certo passaggio, su una certa nota e poi da lì partire e costruire un testo, senza essere prolisso come hai notato tu.
Le linee guida che mi ero dato erano comunque essenzialmente due: 1) evitare il dramma – evitare racconti senza speranza, essere il più solare possibile (anche in un pezzo che parla di una perdita come "Mio padre faceva il fabbro" il finale riporta il racconto su una motivazione forte, su quel che di positivo puoi recuperare dalla morte, come una sorta di rinascita da adulti) e 2) parlare il più possibile del suonare. "Sopra la panca" (già dal titolo) potrebbe essere essenzialmente un concept sul suonare. Come se far canzoni dovesse tautologicamente debordare anche nei testi delle canzoni stesse, come se nella musica parlare della musica fosse l’unica cosa sensata da fare, così come in filosofia si filosofeggia, nella narrativa si narra, e nell’idraulica si idraulica. 

In “Pierre Menard” ci racconti una storia d’amore. Fa strano trovare un riferimento letterario così esplicito in un album di un artista come te, così lontano da certe "pose indie"
“Pierre Menard” era una di quelle idee da infilare in un testo che avevo molto prima di fare un disco. Per me, al di là del fatto che sia di uno dei miei racconti preferiti di Borges, era proprio un tema che mi ha sempre affascinato, quello del ritorno dell’uguale, della ripetizione identica. Per esempio, quando feci il mio “discorso di nozze” al mio matrimonio - sia io che Agnese avevamo deciso di fare un discorso, di raccontare qualcosa agli invitati - parlando del SI che si dice alle nozze, l’avevo paragonato al Si che il personaggio di Nietsche dovrebbe rispondere al demone che viene nella notte a chiedergli se volesse tutto quello che stava vivendo ancora un’infinità di volte. Questo del ritorno dell’uguale è un tema che mi è molto caro e già avevo in mente di inserirlo in un pezzo attraverso la figura di Pierre Menrad, ovvero uno dei personaggi fittizi dentro a "Finzioni" di Borges, che come obiettivo si era dato quello di riscrivere il Don Chisciotte in maniera assolutamente identica all’originale. 

"Margherita di Savoia" invece parla dell’incontrarsi per caso, una cosa che trovo molto “metropolitana”. Tu invece con la scelta di vita che hai fatto è difficile che incontri qualcuno anche se non vuoi. Non ti ha fatto strano inserirlo nel disco?
Assolutamente, è un inserto, un inserto avulso dal contesto come d'altronde si può considerare avulso dal contesto montanaro il fatto che in realtà ogni weekend io mi trovi in una città diversa d’Italia, dalla grande metropoli al paesino un po’ più piccolo, per poi tornare sempre qui in un posto in culo ai lupi in cui molto felicemente ho deciso di vivere.


In “La domenica è il lunedì del rock” parli di “dodici canzoni che hai suonato fino a star meglio senza”, per poi ricominciare di nuovo. Pensi che il pubblico possa capire la vita del rocker come professione?
Non so rispondere, non so se sia chiaro l’aspetto professionale del suonare. Di sicuro per me “Il lunedì è la domenica del rock” è il brano più programmatico su questa cosa ed è anche il motivo per cui apre il disco - credo. Penso che racconti un po’ di quel bagliore della nascita del disco, il chiedersi che cosa avessi fatto negli ultimi due anni. Per me il brano rappresenta l’attività del suonare come un alternarsi di pieni e di vuoti e vuol dare un’altra visione di quello che magari tanti hanno del suonare esclusivamente eccome figata pazzesca.
Per me è una figata pazzesca, intendiamoci, ma non solo quello. Tant’è che a un certo punto il desiderio di interromperlo è quasi più fosse del desiderio di portare avanti lo spettacolo. Questo alternarsi di pieni e di vuoti, in realtà, negli ultimi anni è stato breve, forse perché ho una mia ciclotimia e quindi appena mi stacco dal suonare c’è qualcosa che freme, scalcia e chiede un ritorno. Penso che sia una mia peculiarità, vale lo stesso coi libri: appena ho finito un libro, anche se sono sulla tazza del cesso devo immediatamente iniziarne un altro, anche solo per tre righe. E forse è stato così anche per il suonare, appena finito un tour, è iniziato quello con Johnny Mox - anche se si trattava di un altro concetto di suonare non essendo pezzi che sentivo così miei. Mentre stava finendo un tour, mancava solo una manciata di date, mi era già venuto il brillo di fare qualcosa, di riempire di nuovo questo vuoto e arrivare di nuovo al punto di stancarmi. Però nel testo c’è una sterzata finale che a me diverte: questa reiterazione dell’uguale (sic!), nel suonare, il ripetere le stesse canzoni per centinaia di volte, sentirsi avvizzire da un certo punto di vista da tutto questo sudore, questa emotività, trova un suo equilibrio (nella canzone) nel fatto che i lunedì si trasformino in domeniche. Questo può essere visto sia come un concetto di ribaltamento del tempo, nel fatto che il suonare abbia questa sua capacità poietica di destrutturare il calendario, rovesciarlo e ricostruirlo secondo i tempi della musica; dall’altra il fatto di avere il giorno libero esattamente quando, come i barbieri, gli altri tornano a lavorare e quindi l’inizio settimana diventa la tua fine. Al contempo quindi lo puoi leggere come un ribaltamento del tempo in senso, diciamo, toh!, palingenetico, o semplicemente come un modo tuo di vivere il lunedì quando altri ricominciano la settimana mentre te ne stai a cazzeggiare o a fare le cose di casa o svegliarti quando ti pare... 

In “MVLGRL”c’ è veramente il tuo codice fiscale?
Io volevo veramente mettere il mio codice fiscale ma quando l’ho detto ad Agnese lei mi ha chiesto se fossi veramente sicuro di volerci mettere il mio codice fiscale. Lì ho avuto veramente quei quaranta secondi in cui mi sono immaginato di tutto: spacciatori di droga, carabinieri che venivano a casa mia a per mettermi in prigione, conto in banca prosciugato, minorenni che andavano a prendersi le sigarette con il mio codice fiscale. A questo punto mi sono venute un po’ di paranoie decisamente gratuite ed irragionevoli per cui ho cambiato tre cifre. La cosa tra l’altro mi ha procurato una confusione mentale pazzesca, perché quando nei weekend mi trovo a compilare i borderò ora mi viene in mente la canzone col codice mistificato e sta andando a finire che la metà di questi li starò compilando con le ultime tre lettere a caso...

In "Galline" apri un po’ le porte di casa tua e ci racconti la scelta di tenere questi animali 
Fare un pezzo sulle galline era un mio sogno idiota che ho sempre coltivato, come quello del codice fiscale. Le galline le ho avute solo da quando sono venuto a vivere qui in montagna, e ripensandoci non credo che la montagna sia entrata tanto a livello testuale in questo disco, benché la genesi di “Sopra la panca” sia proprio qui, a Zocca, in questa casa isolata in mezzo alle montagne. Ho voluto recuperarla un po’ nella copertina, nell’artwork, in quella nevicata, ma qualcosa che parlasse proprio di questa vita di montagna mancava e volevo che figurasse. In particolare volevo emergesse il fatto che vivere qua ci permette di avere un sacco di animali, come dice il testo “otto gatti due cani” ed un numero variabile di galline, perché comunque la nostra avventura/disavventura con le galline è iniziata poco dopo che ci siamo trasferiti qua e da neofiti allevatori di galline abbiamo avuto veramente un sacco di sfighe, più o meno una dozzina di lutti causati dalla nostra negligenza in primis e da altri fattori come seconda causa. Tant’è che “Galline” è anche una delle storie più truci, truculente e violente che ho letto in quelle volte che sono andato in giro a fare i reading “Racconti dalla montagna”. Alla fine sono l’unico animale che abbiamo che ci ricambia non solo con affetto ma anche con un prodotto consumabile, e non averne con tutto questo spazio ci farebbe sentire un po’ degli sfigati. Anche se magari è un animale che non ami, che tieni e tutt’al più tolleri, perché è diverso dal cane che ho qui sotto il tavolo, che io amo anche se adesso sta scoreggiando fortissimo e faccio una fatica boia a stare qui. La gallina invece non sono mai riuscito ad amarla e tutte le volte che sono morte non sono mai riuscito veramente a soffrirne. Tuttavia è diventata una sfida da uomo-contro-natura che dovevo vincere. Queste tre galline che abbiamo adesso sono qui veramente da un sacco di tempo e mi piacerebbe avere una media di quanto vivano le galline prima di morire di vecchiaia perché tendenzialmente vedere una gallina morire di anzianità è quanto meno difficile. Quelle che avevamo in passato sono morte per vicende varie: o perché un tasso è entrato e sono morte di crepacuore, perché una donnola le ha decapitate, perché una volta mi sono dimenticato di chiuderle, o perché una volpe le ha portate via una alla volta per quattro sere dietro a fila... Tra l’altro, trovarsi con delle galline morte, le prime volte non sai neanche cosa fare; già non sai cosa fare quando sono vive, immagina da morte. Una delle prime volte, come dice la canzone, visto che noi non ci avremmo mai fatto il brodo, le abbiamo portate alla nostra vicina che è una montanara d.o.c., coi polli che abitualmente uccideva etc etc, e portandogliela lei ci ha guardati: “come uno che ti regala una chitarra perché gli si è rotta una corda”, cioè avrà pensato: “cosa dai via una gallina ora che puoi farci veramente qualcosa?”

In “Diciottanni” invece ci parli del tempo che passa. La cosa che mi ha stupito è il fatto che tu hai una compagna, un figlia, insomma di responsabilità ne hai prese. Ti spaventa il fatto di esser diventato adulto o hai solo paura che questo venga riconosciuto quando ti danno del lei? 
La canzone secondo me racconta un paradosso: per certe cose ho un buon rapporto con l’invecchiare, come per esempio la barba che imbianca o la stempiatura che avanza o accorgersi che in quel mese in cui ho portato su e giù amplificatori per le scale cominciavo a patirne. Tutte cose che accetto di buon grado e volentieri. Poi ti trovi casualmente fuori da un locale, o al banchetto, e ci sono quei ragazzini e ragazzine che si rivolgono a te dandoti del lei. Soffri. Ed è una cosa che in realtà non ti spieghi, è come se si aprisse una forbice di valutazione: se è qualcuno di più giovane allora ti fa soffrire, mentre se sei tu ad accorgertene col tempo, con i tuoi acciacchi e con le tue scelte è una cosa che invece accetti. Se viene da fuori la dichiarazione di incanutimento è una cosa che fai fatica a tollerare perché te lo dice un altro o perché è un altro che lo vede e non sei tu? Magari il pezzo apre anche a questa domanda. 

Ci sono due pezzi che secondo me hanno un certo legame, “La finta non è la fine” e “Mio padre faceva il fabbro”. Secondo me fanno parte di un percorso che è partito con “Santa Massenza”, dove “Santa Massenza” è stata l’occasione per far saltare le resistenze. C’era bisogno di andare avanti su questo passo, anche nel disco solista?
Mi fa piacere che tu ci veda questa connessione che io non avevo fatto per niente, il che mi dice che ci sono delle possibilità di lettura che non avevo contemplato - una delle cose più belle di quando fai uscire qualcosa che ti riguarda o che hai pensato. Nella mia testa “La finta non è la fine” - titolo che de-cita una canzone dei La Quiete - in realtà è una piccola riflessione sul fatto che quando stai per concludere qualcosa, qualcosa per cui magari hai veramente dato un sacco della tua energia, del tuo tempo e della tua passione per farlo e perché lo volevi fare come l’avevi immaginato, come l’avevi sognato, come l’avevi pianificato da tempo, pur di finirlo ad un certo punto sei disposto a tirare via, ad accontentarti. Il ritornello ha questo sogno utopico di non finirle mai le cose che è l’unico modo per portarle veramente alla perfezione, perfezione che poi non arriva, perché etimologicamente perfetto vuol dire portato a termine, compiuto. Per quanto riguarda l’altro pezzo invece, secondo me il percorso ricalca quanto ti raccontavo prima circa la rappresentatività di un pezzo all’interno di una band. “Riposa in piedi” dei Gazebo Penguins per esempio era un pezzo che era entrato abbastanza a piedi pari nella mia biografia, parlando appunto della morte di mio fratello, del fatto di non riuscire certe volte a dire che una persona sia veramente morta perché in quel modo la fai finire veramente. Però in quel caso, nonostante stia raccontando un fatto personale, nella canzone diventa una figura simbolica. Ed è interessante a proposito sapere come nel greco antico la parola simbolo era una specie di tessera che tu spezzavi tra due contraenti per suggellare un patto: succede secondo me la stessa cosa con una canzone in una band, ad un certo punto è come se tu volessi fare un patto su quello che stai raccontando, e se va bene a tutti, allora tutti prendono un pezzo di questa tessera. Si tratta di un processo più complicato e lungo raggiungere questo tipo di democrazia in una band rispetto ad un progetto solista - e credo sia anche una delle cose più incredibili e sensazionali del suonare con altre persone. In questo caso invece non c’erano patti da prendere con nessuno perché era una cosa esclusivamente mia e quindi da un certo punto di vista volevo raccontare un’altra morte, perché evidentemente è una cosa di cui amo scrivere (sarà perché ho vissuto tre anni pieni di lutti nella mia famiglia di persone a cui volevo bene, e su certe cose ci cominci a riflettere col tempo). Dei fatti di “Riposa in piedi” per esempio ho cominciato a parlarne veramente quasi dieci anni dopo. E “Mio padre faceva il fabbro” è una delle storie di morte che mi hanno riguardato e di cui a un certo punto volevo cantare in maniera abbastanza dettagliata, sempre però tenendo presente una delle linee guida che mi ero dato, ovvero parlare il più possibile del suonare. Così, tra i tanti che affollavano la mia memoria, c’è finito questo aneddoto su mio padre, quello del giorno in cui è svenuto per la prima volta prima di arrivare alla degenza che poi l’ha portato a morire. Ovvero il giorno in cui tenevo uno dei primi concerti della mia prima band. Suonavo in una parrocchia a pochi chilometri da casa, ci chiamavamo Mind The Gap, facevamo una bruttissima cover dei Fun Lovin Criminals e anche di una cover che i Limp Bizkit avevano fatto di un brano di George Michael. Io ero andato a fare il check, mi stavo tutto gasando, era uno dei miei primi concerti, un’agitazione incredibile, e in quel momento mi arriva questa telefonata che mi comunicava che mio padre era svenuto e l’avevano sentito perché stava tirando dei pugni al pavimento perché l’ictus gli impediva di parlare. Io sono corso in ospedale e mi sentivo tremendamente in colpa di non esserci stato e per di più di essere andato a suonare e averlo lasciato a casa. Fu proprio in ospedale che mia madre mi disse una di quelle frasi molto hollywoodiane, tra l’altro penso nemmeno tanto vera: “Dai vai pure a fare il concerto, penso che tuo padre avrebbe voluto così”. Neanche tanto vera perché penso che a mio padre fosse fregato il giusto che fossi andato o meno a suonare quella sera. Mi sembrava che avesse un significato il fatto che uno dei primi concerti sia coinciso con questa cosa e che, come dice il pezzo, anziché smettere per sempre dopo una storia così, in realtà io sia ancora qui a pensare di farlo a trentatré anni. 



“Reset” chiude sia il disco che gli squarci aperti nel disco. Una canzone che tra l’altro contiene l’unico featuring esterno, quello di tua moglie Agnese, importante nel suo duplice ruolo perché chiude anche il cerchio sugli affetti più stretti. 
“Reset” è anche l’anagramma di Ester, il nome di mia figlia, e avevo pensato per qualche giorno se riuscire a fare un testo su questa cosa che avere un figlio in un certo senso sia una cancellazione di quello che è stato prima, sia in un certo modo un ripartire. Riflettendoci non sono convinto che sia così, tant’è che da quando ho avuto una figlia, ad un certo punto della mia storia di padre sono persino riuscito a fare quello che prima di avere una figlia non sono mai riuscito a fare, cioè il sogno che avevo da vent’anni di suonare nella vita; e quindi sarebbe stata una specie di contraddizione in termini parlarne in quei toni. Però volevo che l’ultimo pezzo parlasse di Ester perché comunque è veramente una figura basilare di questa vita qua in montagna, di questa casa che è il cuore di questo disco. Non so se sia la quadra di tutto, al momento stiamo vivendo un bel momento in una bella armonia e per me aveva un senso forte chiudere il disco su una canzone che parlasse di Ester, e che in un certo senso parlasse anche di se stessa. Infatti dice : “Se tra 20 anni ascolterai queste parole può darsi che ti vergognerai o non dirai nulla”, apro così un interrogativo sul futuro, chiedersi come ci giudicherà, di cosa ci rimprovererà come genitori: magari ci rimprovererà, ne parlavamo appunto io e Agnese qualche sera fa, di essere venuti a vivere qua, di averla tenuta lontana da un sacco di cose più interessanti o più urbane, e quindi si crea anche un paradigmatico cortocircuito interno all’intero disco. Poi, a dicembre, fu Agnese a chiedermi di cantare nel pezzo o se potesse essere interessante. All’inizio ho avuto dei tentennamenti, perché mi sembrava a rischio diabete che l’ultimo pezzo parlasse di mia figlia e ci fosse anche la mamma a cantare… ma in realtà mi sono poi convinto che questo connubio di cose, che è agli antipodi del rock-n-roll, lo diventasse al 100% per contrappasso dantesco quasi. Sono molto contento di averlo chiuso così.

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L'articolo Chitarre garage, galline e Borges: Capra dei Gazebo Penguins racconta il suo album solista di Starfooker è apparso su Rockit.it il 2015-03-31 10:27:00

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