Paolo Spaccamonti e la musica come pulsione vitale

È uscito un nuovo bellissimo disco di Paolo Spaccamonti, Rumors. L'abbiamo intervistato.

Abbiamo intervistato Paolo Spaccamonti. Dovete sapere che: Spaccamonti nasce a Torino il 26 ottobre del '78. Dopo l'istituto professionale fa diversi lavori (dal rilegatore, al cromatore, al ragazzo delle consegne) e poi diventa operatore socio sanitario: lavora in un centro diurno per ragazzi medio-gravi. Ha pubblicato tre album ufficiali: “Undici pezzi facili”, “Buone notizie” e l'ultimo, bellissimo, “Rumors”.

Il primo looper quando l'hai acquistato?
Credo nel 2007. Tutti i dischi sono nati un po' grazie a quel pedale.

Come nasce un tuo pezzo?
Fondamentalmente in casa: a me piace improvvisare molto, mi rilassa, registro, taglio, lavoro molto di artigianato.

Artigianato means?
Un po' come fanno i falegnami: mi piace levigarli i pezzi, prendere un blocco intero e lavorarlo fino a che non vedo un qualcosa di sensato, poi decido se scansarlo o tenerlo. Registro tutto su computer e faccio dei lunghi viaggi in macchina dove riascolto i pezzi molte volte e capisco quali buttare e quali sviluppare.

Quanto ci metti a scriverne uno?
Dipende, di solito i più belli – i miei preferiti - nascono immediatamente. È come se fossero già fatti. In altri casi posso lavorarci anche dei mesi.

Può capitare che un pezzo accada per caso, tipo errore che non riusciresti a ripetere, o c'è sempre una metodologia molto rigida?
La prima che hai detto. A volte sembrano che arrivino dal cielo e tu li accogli. Sono dei miracoli.

Sei religioso?
Direi di no (ride, NdA).

Nasci come metallaro, arrivi a far la musica che fai – chiamiamola post-rock - perché ti capitano in mano determinati dischi che ti segnano indelebilmente o è la semplice evoluzione di un modo di suonare?
La seconda, anche perché di post rock - a parte i classici come Tortoise e Mogwai - non ho mai ascoltato molto. Non ho mai capito bene cosa si intenda per post-rock. Sostanzialmente è un caso che la mia musica sia strumentale, ascolto moltissimi cantautori. Ci sono dei dischi che mi hanno segnato in maniera evidente: i Black Sabbath, ad esempio, e li ascolto tutt'ora. Per me quei riff lì sono la perfezione, c'è tutto: dal grooove, alla potenza, alla melodia. Potrei dirtene molti altri, dai Neurosis ai Boards of Canada, ma un disco in particolare non mi viene in mente. Forse il primo dei Tortoise mi ha davvero fatto capire che si potesse fare della musica che non fosse per forza cantata o rinchiusa nella forma canzone ma, ripeto, non sono mai stato un fan del post-rock.

Per molti anni hai avuto paura del palco.
È vero. L'ho risolta in parte ma è durata tantissimo: mi ricordo che il primo concerto l'ho fatto a 25 anni, all'incirca dopo 10 anni che suonavo. Adesso va un po' meglio ma diciamo che non me la vivo mai serenamente, c'è sempre della tensione, sia prima che dopo il concerto. Sostanzialmente sono molto timido, l'idea di suonare da solo davanti a degli sconosciuti fino a qualche anno fa mi sembrava impossibile. Ovviamente ho dovuto affrontarla, se no me ne rimanevo a casa. Poi suonare ha anche dei lati positivi, quel tipo di adrenalina la ricerco in qualche modo, ma ancora oggi ci sono volte dove preferirei non suonare. Non so se nella mia musica questa cosa emerga.

Non è allegra.
Non credo neanche sia triste, sai? Io ascolto molta musica triste ma penso che ci sia della vitalità in quello che faccio. Sono attaccato alla vita.

Certo non ti davo del depresso.
(ride, NdA) "Rumors" è il mio disco meno solare, però sì, “Giorni contati”, al di là del titolo, mi sembra una canzone positiva. Oppure “Dead Set”...

Che è quella che oscilla più tra i Cure ed i Wild Nothing.
L'idea era un po' quella: una sorta di tributo alla new wave, una musica che mi piace moltissimo.

Il titolo del disco a che si riferisce?
A volte i titoli nascono così, sono degli appunti che prendo. Mi riferisco al chiacchiericcio a cui siamo sottoposti. Si è costretti, per lavoro o per altre necessità, a doversi sottoporre a tutta una serie di rumori o di relazioni superficiali.

E perché, allora, non te ne vai a vivere in montagna lontano da tutto e tutti?
Mi piacerebbe, dovrei riuscire a trovare un lavoro lì o non lavorare del tutto, che sarebbe il massimo. Poi a me la città piace pure, mi piace stare nel casino ma alla lunga mi stressa e quello stress cerco di incanalarlo nella musica.

“Rumors” in effetti è il tuo disco più vicino al metal/noise, sbaglio?
In parte, è stato abbastanza causale. Tra le varie bozze selezionate ce ne erano due o tre “metal”, che poi non è proprio...

Forse è più giusto dire che è il tuo disco rock.
Sì, esatto. Avevo voglia di spingere su quel pulsante lì. È stato un periodo contraddistinto da una serie di problemi personali che mi hanno costretto a fermarmi per un po'. Tutta quell'insofferenza mi ha portato ad essere un po' più rumoroso.

Se uno si ascolta la tua discografia crede che sei sempre stato così.
(ride, NdA) Sì, questa è una malinconia di fondo che mi porterò fin dentro la tomba.

Ti chiedo di un paio di pezzi: “Seguiamo le api”, ad esempio.
È uno dei pezzi precedenti al “periodo buio” di cui ti accennavo prima. Inizialmente non era prevista nel disco: non suonava, non riuscivamo a trovare il modo di farla suonare come volevamo. Poi una sera io e Gup Alcaro, il ragazzo che ha prodotto l'album, l'abbiamo disintegrata completamente e abbiamo tenuto solo la melodia. Quello forse è davvero il pezzo più post-rock del disco. La canzone racconta di una giornata in veneto dove non trovavo la macchina. Ad un certo punto vediamo delle api e la mia fidanzata dice: “seguiamole che la ritroviamo”. Come a dire: affidiamoci alla natura, quando ci sentiamo persi.

Avrà sicuramente funzionato.
Ha funzionato, l'abbiamo trovata.

E che legame c'era tra la macchina e le api?
Probabilmente il vino che abbiamo bevuto quel giorno (ride, NdA).

Intendevo dire: come hanno fatto le api a portarvi alla macchina?
Rimarrà un mistero, ma ti assicuro che è vero.

Parliamo della mia preferita, “Io ti aspetto”.
È dedicata ad una persona che ho rischiato di perdere. È nata nel bel mezzo del periodo buio... Diciamo che ho avuto a che fare per un lungo periodo con malattie, ospedali e morte. A volte mi chiedo se abbia senso parlarne ma la mia musica descrive sostanzialmente il mio stato d'animo e, di conseguenza, il più delle volte diventa impossibile evitare argomenti di questo tipo. Diciamo che la musica in quel periodo mi è servita molto a tenermi in piedi: “Io aspetto” lo considero uno dei brani più vitali. È stato scritto in due ore, la melodia era già pronta e già mi immaginavo Julia Kent al violoncello, gliel'ho mandato via mail la sera stessa e lei mi ha risposto subito: “Ok, bellissimo facciamolo”. Mi piace tantissimo, è un pezzo a cui sono particolarmente legato.

Come hai scritto le parti elettroniche?
L'elettronica è un genere che ho sempre ascoltato ma per suonarla non sono preparatissimo. Mi sono affidato al collettivo Superbudda di Torino che all'interno ha Davide Tomat dei Niagara e Gup, il ragazzo che ha anche registrato tutto il disco. Loro sono stati fondamentali.

Ti immaginavo più chiuso come musicista, di quelli che lavorano talmente di concetto sulla propria musica che difficilmente qualcun altro ci può metter mano. Sbagliavo?
In realtà è così. Io ho tutto ben chiaro: come voglio che esca il pezzo, come deve essere il beat, so già anche i bpm a cui dovrà viaggiare, ma conosco i miei limiti e quando non riesco a fare una cosa chiedo aiuto a qualcuno. Poi cosa intendi con di concetto?

Intendo dire che, spesso, se una canzone si basa in maniera quasi ossessiva su un solo giro di chitarra vuol dire che quel giro è stato pensato e provato a lungo prima di aver la conferma che funzionasse davvero.
Ma in realtà lo è: io sono molto autistico su certe cose e arrivo in studio con i pezzi rifiniti dettaglio dopo dettaglio. Gli ospiti, però, servono per arricchire.



Che rapporto hai con le recensioni?
Buono. Per fortuna sono sempre stato accolto molto bene. Mi fa piacere leggerle, soprattutto quando colgo che c'è stata un'attenzione nell'ascolto, un ascolto vero.

Ecco qui ti volevo, più volte te l'ho sentito dire. Cosa significa ascoltare veramente un disco?
Per me significa dedicargli del tempo. Per recensire un disco credo che ci sia il bisogno di ascoltarlo almeno 4-5 volte. Lo si fa sempre meno, anche semplicemente come fruitori. Siamo talmente inondati di dischi, anche belli tra l'altro, che si fa fatica a coglierne i diversi aspetti. La mia paura è che quando uno incontra un mio disco dica “Oh, bello” e poi passi al prossimo.

E tu tutto questo da una recensione di poche righe come lo capisci?
Ad esempio quando prendono il comunicato stampa e lo diluiscono nell'articolo. A volte fanno direttamente il copia-incolla di altre recensioni. Mi sembra che spesso non ci sia attenzione e cura nell'ascoltare un disco. Per me i dischi più belli sono quelli che scopri nel tempo, bisogna dedicargli tanto tempo.

Tu come ascolti la musica?
In macchina, tantissimo.

Tutto il discorso da audiofilo e poi mi ascolti i dischi in macchina.
(ride, NdA) È vero, ma ormai mi sono fatto l'orecchio e, per dire, anche i miei dischi li ascolto lì per capire se suonano bene o no. Te lo dicevo prima, mi piace molto fare dei lunghi giri per capire se le canzoni funzionano o meno. Amo guidare.

Ci sono dei posti di Torino che preferisci?
Basta uscire un attimo e andare verso le colline torinesi, anche solo verso Superga. Esci dal traffico e ti si azzera tutto.

E quando c'è un pubblico rumoroso mentre suoni come ti comporti?
Non è mai positivo, all'inizio me ne facevo una malattia, ormai ho più esperienza e sono abituato. Cerco di concentrarmi ugualmente, oppure cerco di catturare l'attenzione: faccio il possibile per suonare benissimo e stupirli, oppure spingo sulla parte più aggressiva.

C'è mai stato un momento dove hai pensato che potevi davvero investire tutto nella musica e farlo diventare un lavoro?
Più o meno succede ogni volta che esce un disco: l'accoglienza è sempre positiva e quel momento diventa pericoloso perché inizio davvero a credere che sia possibile, poi la realtà mi riporta con i piedi per terra. Suonare è sempre di più un lusso per pochi.

Mi sembri un po' troppo disilluso, soprattutto se si considera il talento che hai.
No, assolutamente, è proprio il contrario, la musica per me è vitale. Ma non posso dirti che è semplice viverci. A me, sostanzialmente, piacerebbe scrivere per il cinema ma, anche in quel campo, non è facile. Siamo in tantissimi e anche solo riuscire a farsi ascoltare da registi interessanti è un'impresa ardua.

Qual è il tuo regista preferito di sempre?
Ti direi Scorsese. “Taxi Driver” è forse il primo film che mi ha colpito davvero. Mi piace la vecchia commedia italiana, da Scola a Monicelli, Dino Risi. E poi mi piacciono molto i film western moderni, quelli sonorizzati da Warren Ellis, Nick Cave per capirci. O Jarmush, mi è sempre piaciuto.

Dovete sapere che: Paolo Spaccamonti da piccolo guardava il telefilm Hulk ma non ha commentato la possibilità di un parallelo emotivo tra la rabbia del personaggio e la sua musica (ha giusto sottolineato che Hulk “aveva sempre il problema dei vestiti ogni volta che si risvegliava” e non molto di più). Ultimamente ha ascoltato il disco di Andrea Belfi, "Natura Morta" (e gli è piaciuto tantissimo) poi "Don't Like Shit, I Don't Go Outside" di Earl Sweatshirt (idem) “Aurora” di Ben Frost e gli Young Fathers. Dice che durante l'intervista era un po' stanco. A me non è sembrato.

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L'articolo Paolo Spaccamonti e la musica come pulsione vitale di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2015-04-24 12:01:00

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