Il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, ovvero l’ennesimo enorme patrimonio culturale italiano sprecato.

Dopo il Museo del Rock di Catanzaro, abbiamo visitato il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, a Roma: ecco cosa abbiamo visto.

Il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali
Il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali - immagine via inrometoday.it
17/07/2015 - 11:20 Scritto da Emma Bailetti

Accanto alla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme di Roma, a due passi da San Giovanni e da Porta Maggiore, giace un po’ solitario e nascosto un edificio ignorato da gran parte dei romani, ovvero il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali.
Nonostante il caldo umido, i 38 gradi all’ombra e il luglio inoltrato decido di andare a visitarlo, e scopro che nemmeno questi ostacoli climatici riescono a scalfire l’atmosfera del luogo magico e poetico in cui si trova il museo, una zona archeologica del III-IV secolo d. C: girando per le sale, dalle finestre si riesce a vedere il Circo Variano, le Mura Aureliane e i resti del Palazzo Imperiale, motivo per cui varrebbe la pena visitarlo già solo per il panorama.

Quanto all’atmosfera interna, invece, non è delle migliori. Appena varcata la soglia del museo l’accoglienza che mi viene riservata è fredda e distaccata, quasi infastidita. Gli impiegati aspettano seduti fuori dalla porta data l’assenza di aria condizionata (e di altri visitatori oltre me) e come in quelle province estranee al turismo mi squadrano con sufficienza mentre con gentilezza gli rivolgo il saluto. Come se non bastasse, vengo a sapere che al momento è visibile solo una piccolissima parte dell’intera collezione, e circa metà del museo è in ristrutturazione per lavori di ammodernamento.

Non mi demoralizzo, e inizio la visita. I capolavori della collezione sono sostanzialmente quattro: il primo si trova nella prima sala attualmente visitabile (la X) ed è il pianoforte del 1722 di Bartolomeo Cristofori, ossia dell’inventore stesso del pianoforte. Ne esistono al mondo solo altri due esemplari: uno è a New York al Metropolitan Museum (datato 1720) e l’altro all’Università di Lipsia (1726). Il pianoforte di Cristofori è stato acquistato dallo Stato nel 1966 per ricordare con orgoglio come la creazione di questo celebre strumento sia tutta italiana, cosa che in molti ignorano. È interessante e affascinante pensare che questo sia uno dei primi pianoforti mai esistiti e immaginare quante dita abbiano sfiorato quei tasti oggi ingialliti dal tempo, ma nel complesso ben conservati dopo quasi tre secoli. In quanto al secondo e terzo “pezzo forte”, non erano al museo perché esposti alla mostra sulla Roma Barocca: si tratta dell’Arpa Barberini (momentaneamente rappresentata da un solco sul pavimento e da un foglio esplicativo poggiato su uno sgabello), costruita tra il 1605 e il 1620 per la famiglia Barberini da uno dei più celebri artigiani d’arpe dell’epoca (Marco Marazzoli, detto appunto Marco dell’Arpa); uno strumento prezioso celebrato anche nella tela “Allegoria della musica” del Lanfranco, dall’indiscusso valore storico e musicale. L’altro assente invece era il modello in terracotta del cembalo di Michele Todini, liutaio piemontese che a Roma aveva inventato la Galleria Armonica, un insieme di vari strumenti che potevano essere avviati in combinazione attraverso una sola tastiera. Quarto capolavoro, per fortuna visibile, è il cembalo di Hans Muller, cembalo tedesco più antico conosciuto (1537), simile a quelli italiani.

(l'arpa Barberini)

Cerco di farmi un’idea del resto della collezione, ma si attraversano le sale del museo con la sensazione di essere un po’ abbandonati a se stessi. Le spiegazioni sono rare e l’esperienza della visita nel suo complesso non è così coinvolgente; alcuni strumenti sono persino privi di targhetta e non si capisce che cosa siano di preciso, da dove vengano e a che secolo appartengano. Solo ripassando per la terza volta nelle sale mi accorgo che, ben nascosta dietro le vetrine, c’è qualche riga genericamente esplicativa sulla composizione della sala stessa (comunque consultabile anche online). Per il resto manca qualsiasi spiegazione: l’unica a disposizione sono dei fogli plastificati sparsi a caso su di un tavolino lungo il corridoio che forniscono qualche informazione sull’origine del museo, su alcune sale (nemmeno tutte quelle visitabili) e sui “pezzi forti”. 


Da questi foglietti apprendo che gran parte degli strumenti musicali esposti apparteneva a un certo Evan Gorga, all'anagrafe Gennaro Evangelisa Gorga, tenore e collezionista originario del basso Lazio vissuto tra la fine del XIX e il XX secolo. Subito dopo aver raggiunto il successo per l’interpretazione della Bohème di Puccini, si ritira dalle scene per dedicarsi esclusivamente all’attività di collezionista, una vera ossessione che andava dagli strumenti musicali a qualunque altro oggetto d’arte (statue, ceramiche, marmi, monete, etc.) e che lo conduce ben presto a dilapidare tutto il suo patrimonio. Per rendersi conto dell’ampiezza degli strumenti musicali raccolti, basti pensare che per custodirli Gorga dovette prendere in affitto ben dieci appartamenti comunicanti in via Cola di Rienzo. Quando si accorse che non avrebbe potuto mantenerli a lungo, e per evitare che la sua collezione fosse smembrata, lui stesso chiese allo Stato di sottoporla a sequestro amministrativo. Nel 1949 lo Stato acquistò la collezione, ma le trovò una collocazione adeguata solo negli anni ’60, nella Palazzina Samoggia, ex caserma e attuale sede del museo, inaugurato nel 1974.

(Evan Gorga e la sua collezione a via Cola di Rienzo)

La collezione di Gorga è imponente, e tra gli strumenti esposti che spaziano dal XVI al XIX secolo ci sono mandole e mandolini, arpe ed arpette, cembali, clavicembali, liuti, trombe, clarinetti, viole, flauti dolci e traversi e tanto altro. Le cose più originali sono degli enormi chitarroni (sì, sulla targa erano denominati proprio “chitarroni”) che potrebbero essere suonati da quattro persone contemporaneamente, e una glass harmonica (in italiano "armonica a bicchieri") del XIX secolo: “strumento a coppe di cristallo ruotanti su perno”, dice la targa. Si trova nell’ultima e attira subito l’attenzione per la sua composizione strana e affascinante: una specie di rullo rotante di cristallo che secondo me è la cosa migliore della collezione, o almeno la più originale. Certo sarebbe stato interessante anche vedere come si suona, e capire l’evoluzione dello strumento in quello usato nell’arte di strada che usa lo stesso principio (avete mai sentito "Hallelujah" suonata con i bicchieri?).

Lo stesso vale per i chitarroni o per tutti gli strumenti un po’ meno noti: sarebbe stato di certo più divertente riuscire a capirne il funzionamento e sentirne il suono. Insomma, il livello di interattività del museo è totalmente nullo, mancano installazioni video e tracce audio che permettano di ascoltare il suono generato da queste centinaia di strumenti o di capire come vengono (o venivano) suonati.

(un'armonica a bicchieri)

Altra pecca è il legame forse troppo stretto con la classicità e la tradizione: è giusto ricordare le origini di strumenti musicali di uso comune (come il pianoforte di Cristofori di cui sopra), ma sarebbe ancor più interessante rendere visibile quel collegamento tra gli strumenti del passato e l’epoca contemporanea, mostrarne le evoluzioni, i cambiamenti, gli adattamenti. I curatori del museo sembrano insomma dimenticare che il futuro dipende dal presente, così come il presente deriva dal passato. E se aprirsi a culture differenti potrebbe stonare con l’impostazione del museo (anche se sarebbe utile), non va dimenticato che anche oggi si continuano ad inventare strumenti nuovi, e quelli più antichi vengono comunque sempre implementati e migliorati. Esistono una marea di strumenti musicali particolari e sofisticati, rari o comuni, tecnologici e non, raramente accessibili al pubblico (di recente abbiamo parlato dell’ottobasso, ma anche dello yaybahar o di tutti quegli strani strumenti elencati qui, oltre agli strumenti high tech che si moltiplicano quasi ogni giorno) e l’obiettivo di un museo dovrebbe essere proprio quello di raccoglierli e renderli disponibili alle masse.

Una gestione un po’ superficiale e disorganizzata per un patrimonio nazionale così importante, no? E non si tratta esattamente di dettagli irrilevanti.

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L'articolo Il Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, ovvero l’ennesimo enorme patrimonio culturale italiano sprecato. di Emma Bailetti è apparso su Rockit.it il 2015-07-17 11:20:00

COMMENTI (1)

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  • ricsav 8 anni fa Rispondi

    Da anni con Alessandro Rubinetti e il suo Teatro dei Luoghi,
    cerchiamo di diffondere il più possibile la bellezza di questo museo e degli strumenti al suo interno, creando una visita guidata un po' particolare dove lui recita, io suono, e nel frattempo scopriamo le bellezze del museo, non senza fare incontri un po' speciali... ;)
    E' difficile far emergere luoghi e bellezze del genere, ma noi ci proviamo!
    Saluti
    Riccardo