Rocco Hunt: il rap piacerà a tutti

Nonostante le polemiche e nonostante gli ritaglino addosso un personaggio che non sempre gli piace, Rocco Hunt continua ad avere ben chiaro cosa deve fare e dove vuole arrivare.

Rocco Hunt Wake up
Rocco Hunt Wake up - Foto di Alessandra Tisato

È uscito “SignorHunt - Wake up edition”, la versione deluxe dell’ultimo album di Rocco Hunt. Contiene brani inediti e, ovviamente, “Wake up”, la canzone che ha presentato a Sanremo e che, ad oggi, sfiora i 10 milioni di visualizzazioni su YouTube. Da quando l’abbiamo conosciuto, ai tempi di “Spiraglio di periferia”, è cambiato tutto ma, in realtà, si capisce bene come gli obiettivi sia ancora gli stessi: qualità & dischi d’oro. E almeno un dissing all’anno con Barbara d’Urso. La nostra intervista.

Nelle ultime interviste che ho letto sembri particolarmente agguerrito, esce un tuo lato indignato che, se devo essere onesto, non mi fa impazzire. Ti riconosci in questa descrizione?
Nelle interviste parlo di diversi argomenti ma poi riportano sempre le solite cose: che ho fatto il pescivendolo, che le mie sono canzoni di protesta, ecc. All’Arena di Giletti su Rai1 ho risposto in maniera abbastanza spontanea ad una provocazione di Klaus Davi e da quel momento sono diventato il ragazzo di “e lo stato dov’era?” e mi hanno ritagliato addosso questo personaggio. Adesso i tassisti a Milano non mi fanno pagare la corsa perché dicono che li sto rappresentando, i vecchi per strada mi stringono la mano e mi dicono “bravo”. Mi sento addosso anche una certa responsabilità ma mi chiedo: perché la gente deve stringere la mano a me che faccio il musicista e non magari ad un politico?

Sai benissimo il rischio che comporta questo tipo di domanda.
Posso essere tacciato di populismo, è chiaro. La verità, però, è che nessuno oggi rappresenta la realtà del sud: quella dei ragazzi che portano le pizze o che lavorano in nero, che poi sono gli stessi problemi che ritrovo nella mia comitiva di amici a Salerno. Ovviamente è una trappola, o sei populista o sei quello che non parla della realtà più vera e che gli sta più a cuore. Io faccio la musica che mi viene di fare. Mio padre è stato disoccupato per tanti anni ed è un fatto che ha influito molto sulla mia forma mentis e, quindi, sul mio modo di scrivere canzoni.

Sei diventato il rapper dei buoni sentimenti.
Non è una maschera o qualcosa che ho voluto costruire, è proprio così. Mi ritengo un bravo ragazzo. Perché dovrei dire che vado in giro in Porche o che faccio la bella vita quando non è vero?

Però ammetterai che c’è una bella differenza - di pathos, di metriche, di contenuto - tra una canzone come “A verità” o “Senza Chances", e altre come “Vene e vvà” o “Wake Up”.
“Wake Up” è un pezzo turbofunk che mi diverte molto. Non voglio limitarmi e voglio accontentare tutti. Mi piace fare la ballad con Annalisa, il pezzo dazereccio o scrivere “Roma Bangok" per Baby K - che comunque ha raggiunto sette dischi di platino - e sono stato sul palco dei Pooh. Non si tratta di fare i soldi o aumentare il pubblico, è che alla gente non gliene frega niente del rap. Per scrivere un pezzo serrato e preciso come “Pane e rap” ci impieghi moltissimo, poi in cinque minuti fai un pezzo come “Wake Up” ed esplodi, booom, platino. Il pubblico italiano non è ancora pronto per ascoltare rap, basta andare ai concerti per capirlo: la gente non canta le strofe ma appena arriva il ritornello senti la voce di tutti.

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Se ti riduci a a fare solo i pezzi che la gente vuole sentire non diventi un po’ una macchietta?
"Wake Up" ha fatto 7 milioni di visualizzazioni in meno di quindici giorni. Sta facendo esattamente quello che volevo: grazie a “Wake Up” tantissima gente comprerà il mio disco e tantissima gente ascolterà anche brani come “Non parlarmi”, che parla appunto di questo tipo di discorsi, o “HipHopcrisia”, che un pezzo che legna più di quelli di “Spiraglio di periferia”.

Qual è la cosa più bella del rap?
Mi piace che ognuno possa fare il cazzo che gli pare. Mi piace che Salmo non vada in televisione, se ne freghi della radio e riesca a raggiungere ugualmente il disco di platino in una settimana. È la prova che certe cose si possono fare ed è uno schiaffo morale per chi aspetta sempre la “Wake Up” di turno per passare il rap in radio.

Sei fissato con le classifiche quindi?
Non te le nomino per una pura questione di soldi. Sono convinto che quando un album raggiunge l’oro o il platino vuol dire che è piaciuto. Se Salmo, Madman & Gemitaiz hanno ottenuto quei risultati significa che hanno davvero un loro seguito. Nessuno si compra i dischi di merda solo per farsi fare la foto al firmacopie o per aver l’autografo. Dopo un po’ i firmacopie finiscono e se il disco vende ancora vuol dire che quella musica un suo senso ce l’ha.

Da dove arriva tutta questa consapevolezza nonostante tu abbia ancora, solo, 21 anni?
Se vieni dal niente hai sempre qualcosa da perdere. Non voglio sembrar esagerato ma la musica è davvero l’unico appiglio che ho. A prescindere dal lato economico o professionale, se io non avessi fatto il rapper cosa avrei potuto fare? Ci tengo tanto a questo mondo, me lo sono costruito da solo e quando hai paura di perdere una cosa così importante ci pensi due volte prima di fare una qualsiasi cazzata, che sia girare in auto senza patente o farti beccare ubriaco ad un posto di blocco. Così sono diventato il rapper dei buoni sentimenti, come mi chiami tu. 

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Su Rockit ti conosciamo da quando eri ancora minorenne, da allora cosa è cambiato?
È cambiata la mia vita. Ho cambiato lavoro, ho cambiato città e modo di vivere. Rockit è stato il primo a passarmi in streaming esclusivo, ci tengo a ricordarlo. E sono rimasto sempre lo stesso di quando ci siamo conosciuti. Non è retorica, ma mi ritengo talmente attaccato all’educazione che mi hanno dato i miei genitori che continuo ad avere sempre lo stesso obiettivo, chiaro e preciso. Alla fine è come se non fosse cambiato nulla.

Pubblicare su Instagram lo screenshot del messaggio degli auguri dei tuoi genitori prima di salire sul palco di Sanremo è una cosa bella forte. Perché condividere con tutti un momento così emotivamente privato?
A parte che a loro fa piacere e poi credo che, dopo i tanti sacrifici che hanno fatto per me, sia bello che la gente li fermi per strada complimentandosi per le cose che sto facendo. A mio avviso è più devastante un rapper che sta sempre allo specchio a farsi le foto, rispetto a uno che ogni tanto pubblica una foto dei suoi genitori. Alla fine i genitori sono una cosa bella, uno fin che li ha se li gode.

 

Una foto pubblicata da Rocco Hunt (@poetaurbano) in data:


È il rap che ha bisogno della tv o il contrario?
È più la tv che ha bisogno dei rapper. A Sanremo Carlo Conti, che è tutto tranne che un coglione, ha preso sia me che Clementino. C’era molta attenzione su di noi ed il picco di share, dati auditel alla mano, c’è stato quando ho cantato io.

Sono d’accordo, penso anche io che in questo momento sia più la tv ad aver bisogno del rap. Certo, però, la vittoria di Sanremo nel 2014 ti è servita.
A mio avviso il pezzo ha fatto la sua parte ma, ovviamente, mi è servito. Per quanto oggi si possano vendere molti dischi anche senza la tv - vedi Salmo - Sanremo o i talent sono quasi un passaggio obbligato. Sono cambiati i tempi ed è cambiata l’idea di gavetta.

Cioè?
Prendi Clementino, ha fatto le jam, il 2the beat… Mettiti nei panni di un giovane freestyler oggi, dove va? Il 2the beat non c’è più e non è arrivata un’altra manifestazione che dia una vera visibilità a chi fa freestyle e a tutta una scena di un certo tipo. Ora c’è la jam microscopica, tra amici, o il concerto importante con le guest star nei club. Manca una via di mezzo.

E in questo discorso ci siamo dimenticati di internet?
Io ti stavo parlando della gavetta vecchia maniera. Clementino non ha messo il prezzo su YouTube, quello l’ho fatto io. Ripeto, sono cambiati i tempi.

Quindi era meglio quando si stava peggio?
No, sarebbe come sputare nel piatto dove mangio tuttora, ma c’è comunque da interrogarsi sulla sottile differenza che oggi ci può essere tra un artista e uno YouTuber. Siamo tutti lì, stessa piattaforma, stessi numeri, è più difficile capire chi sa fare le cose sul serio e chi no. Non è una domanda così scontata, credimi.

Cosa ti piace di più del freestyle?
Faccio freestyle almeno una volta giorno ed è strano vedere come tutti si meraviglino ancora. È forse la cosa più banale che faccio, mi viene spontaneo.

Quali sono i gruppi che ti hanno spinto a fare rap?
Io ho iniziato ascoltando i gruppi di Salerno come Cafardo Energizer, poi mi sono spostato su quelli napoletani, Co’Sang, Clementino e altri ancora. Sono partito dai fenomeni locali e, approfondendo le lo loro collaborazioni ho conosciuto anche altri nomi, come Marracash ad esempio, che sono diventati altrettanto importanti per il mio percorso.

Mentre il rapper straniero più importante qual è stato?
Sicuramente Nas è sempre stato un esempio da seguire per me.

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Se avessi cantato solo in italiano ora non saresti così famoso, vero?
Assolutamente no. Non abbandonerò mai il dialetto: oltre ad avvicinarmi alle mie radici e alla mia gente, permette di fare tutta una serie di rime che in italiano non potresti fare. È come paragonare l’italiano all’inglese, non rapperemo mai come gli americani: l’italiano deve essere serrato, deve stare entro blocchi ben precisi mentre l’americano ti permette di fare versi molto più sciolti (fa prima una strofa in inglese e un’altra in napoletano, NdA).

Devo ammettere che ci ho messo un po’ a capire la potenza di “Nu journo buono” e, molto probabilmente, è dovuto al fatto che tradotta in italiano sembra subito più banale.
È come tradurre un film, per quanto possano essere bravi i doppiatori non riusciranno mai a ridarti l’effetto originale. Una cosa tradotta perde la sua intensità. Sanremo prima, e le radio poi, ci hanno obbligato a tradurre alcune parti di “Nu journo buono” in Italiano. Poi quando ho vinto la finale l’ho fatta nella versione originale, se n'è caduto l‘Ariston. (ride)

La storia di “Marcos” come l’hai conosciuta?
Ho letto un articolo dell’Internazionale che raccontava la storia dei narcotrafficanti che partono dal Portogallo per arrivare in Sud America ingerendo questi ovuli di cocaina. Alcuni muoiono durante il viaggio perché gli ovuli si rompono, da lì ho scritto il pezzo.

Le donne che racconti nelle tue canzoni sono sempre esistite?
Sì, tutte le canzoni d’amore che ho scritto partono da ragazze che ho conosciuto realmente. Non tutte sono state davvero delle mie fidanzate. Magari ci esci solo una settimana, ma nella tua testa ti parte tutto un film e, così, le dedichi un pezzo d’amore anche se lei è già sparita e non si fa più sentire. Molto probabilmente alcune non si sono nemmeno accorte di essere le protagoniste delle mie canzoni.

“La stanza nostra” è bella pesante.
È la storia di mia madre e mio padre che vivevano nella casa di mia nonna quando sono nato. La vita giù scorre molto più velocemente, ci sono tantissime ragazze giovanissime, tra cui anche mie amiche, che diventano madri molto presto. E siccome non hanno la disponibilità economica restano a vivere con i genitori, otto sotto un tetto. Si parla tanto di famiglia in questi giorni, io in questo pezzo parlo della mia idea di famiglia.

La domanda sul family day te la risparmio però.
E te ne sono grato. (ride)

Nelle foto che fai con i tuoi fan ogni tanto si vedono ragazzini davvero giovani. Non senti il peso di dover insegnare qualcosa a ragazzi che, in fondo, avranno al massimo 6-7 in anni meno di te?
È pesante, sì. Anche perché, poi, non ti devi rivolgere solo ai quattordicenni ma anche ai genitori che li accompagnano ai firmacopie. Ci tengo che anche loro siano orgogliosi della musica che ascoltano i figli.

Nella “Wake Up edition" di “Signor Hunt” però ci sono canzoni che difficilmente piaceranno anche ai genitori.
“Girare il mondo”, “Non parlarmi”, sono decisamente più spinte rispetto a cosa cantavo nei dischi prima. Infatti sulla copertina della “Wake Up edition” c’è questa foto dove mi tolgo la cravatta. È come dire: fatemi respirare… Ma resta l’obiettivo di accontentare tutti.

Fare un disco all’anno serve per accontentare tutti?
A prescindere dalla tua strategia di marketing, se uno scrive tanti testi non può far passare troppo tempo prima di farli uscire. Io scrivo dai 20 ai 50 pezzi all’anno: cosa faccio, me li tengo in libreria? Se scrivi una canzone sulla guerra o sull’attualità, ad esempio, non puoi tenerla ferma per due anni solo perché devi aspettare il nuovo disco.

Creerai mai un’etichetta tutta tua?
È un investimento a perdere. È una cosa troppo impegnativa che ti porta pochissimi guadagni. È importante avere una struttura discografica alle tue spalle. Senza la Sony non sarei arrivato dove sono adesso. Certo, ne vedi di progetti che non vanno da nessuna parte, non è che se firmi su major automaticamente vendi dischi. È importante che artista ed etichetta abbiano le idee chiare e creino un progetto insieme.

Certo è che di pubblico alla Sony gliene hai portato tanto anche tu.
Assolutamente, senza le mie views e i miei fan su Facebook non mi avrebbero mai fatto firmare un contratto. Ma c’è stato un grande lavoro per farmi passare da un pubblico di nicchia ad uno più trasversale. Ti assicuro che se avessi presentato “Nu journo buono” a Sanremo senza la Sony alle spalle non mi avrebbero preso.

Le produzioni di “SignorHunt” sono quasi tutte old school, di musica nuova ne ascolti?
Il mixtape di Drake e Future alla fine mi è piaciuto. Tutto quel “Me and my friend we got money to spend” è divertente, è un mondo appariscente. Certo, se vai a tradurre i testi non ti rimane in mano nulla. Come avrai capito, preferisco i pezzi conscious.

Parlando di conscious, il dissing con Barbara d’Urso continuerà ancora?
(ride) C’è in ogni album. Non ce l’ho nemmeno con lei ma proprio proprio con la TV generalista, con le lacrime finte, con il dolore in diretta. Già stamm ‘nguaiat, dobbiamo anche fare il gossip sulle disgrazie altrui? In “Die Young” dico “Barbara d'Urso fa gli scoop su i parenti della gente morta, è più onesto fare i soldi con la droga”.

Finiamo l’intervista tornando sui buoni sentimenti allora: cosa consigli ad un ragazzo di sedici anni che vuole fare una carriera come la tua? E non vale il “devi essere te stesso”.
Prima di muovere i primi passi uno deve essere cosciente di quello che sta facendo, quindi sì, devi essere te stesso. È troppo facile oggi registrare un pezzo a casa con un software qualsiasi, prima di uscire di casa devi capire cosa vuole davvero e allenarti tantissimo, ancora e ancora. Ci vuole la qualità.

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L'articolo Rocco Hunt: il rap piacerà a tutti di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2016-03-14 09:38:00

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