Izi: una storia di rivalsa

È una delle nuove facce del rap italiano: un'intervista per conoscere meglio IZI, in attesa di ascoltarlo dal vivo al MI AMI Festival

Un mixtape che ha fatto rizzare le orecchie agli appassionati, un film e ora un disco ufficiale, "Fenice": Izi è uno dei protagonisti della nuova ondata di rap italiano, nonché uno degli artisti che avremo il piacere di ascoltare dal vivo durante il prossimo MI AMI Festival (biglietti qui). Abbiamo fatto quattro chiacchiere per scoprire la storia di un ragazzo che ha vent'anni ma ha già le idee chiarissime.

 

Sei a tutti gli effetti giovane, sia per carriera che per età anagrafica: come hai iniziato a fare rap?
Io sono del '95, ho vent’anni, ho iniziato quando avevo 12-13 anni scrivendo poesie. Mi piaceva molto scrivere, ho iniziato anche un romanzo giallo e trattavo già degli argomenti che ci sono anche ora nei miei testi. Non erano poesie d’amore, era più un piano sequenza su quello che mi succedeva intorno, una cosa che si è riversata anche nei pezzi.
Il primo l’ho scritto intorno ai 14 anni, registrato in una saletta del cavolo. Da lì è iniziata questa passione che mi mangiava dentro e mi sono detto: devo farlo tutti i i giorni, mi caccio in studio.
A Genova non c’è una vera e propria scena rap e hip-hop, era difficile uscirne, quindi ho conosciuto quelle poche persone che reputavo interessanti in città: Studio Ostile era un po’ il fulcro di questa scena, e tra l'altro è anche lo studio da cui è uscito fuori Moreno. Ci sono tanti studi professionali ma Studio Ostile era l’unico che dava spazio a dei ragazzi come noi per ritrovarsi e poter registrare e lavorare in studio e non in un box. Quindi ho iniziato a livello amatoriale, poi ai 17 anni più o meno ho buttato fuori il mio primo mixtape, poi di anno in anno il secondo, il terzo e ora “Fenice” che è il primo disco ufficiale. Questo è il percorso: dalla periferia arrivo al centro dell’attenzione, te la butto così, con una citazione di Luchè (ride).

Nel tuo modo di fare rap si capisce che fai sul serio, ci metti tutto te stesso al 100%. Cosa significa per te fare rap nell'Italia nel 2016 e in particolare nelle tua vita come Diego?
In generale io penso che il rap, soprattutto ora che ha guadagnato una grande esposizione mediatica, stia diventando La Parola, il modo di parlare dei giovani, la voce di chi non ha voce. Riguardo me stesso invece il rap è la cura, io somatizzo molto e scrivendo mi sfogo, tutto deve partire da quello ma allo stesso tempo è una riscoperta. Ho notato che in molti miei testi tutto riguarda me stesso, è come se mi dessi delle "massime" da solo. Poi la gente le fa sue perché non sto parlando solo di situazioni mie. Diciamo che ho lavorato su questo nel mio ultimo disco: prima era tutto molto personale e quindi solo le persone che mi stavano vicino potevano capire, ora invece sto cercando di aumentare l'esposizione e fare arrivare i pezzi a più persone. Però scrivere rimane comunque una cura, significa che mi riscopro e mi scopro sempre di più, è un’evoluzione continua.

Mi interessava parlare di come scrivi un testo, perché hai un flow estremamente riconoscibile. Le parole che usi, il tipo di sintassi, sono molto particolari. Da dove parti?
Da piccolo, attorno ai 15-16 anni, ho fatto un po’ di freestyle, ma ora non lo faccio più perché non mi fa impazzire e invece voglio dedicarmi un po’ di più sui pezzi. La modalità è rimasta comunque la stessa. Io principalmente scrivo di getto, e quindi chiaramente uscirà il riflesso della situazione in cui mi trovo. Diciamo che principalmente va così.

Non torni una seconda volta sul testo?
È raro. Perché il flusso l’ho fatto mio, il mio flow lo riconosco e sono molto perfezionista. È come se mi dessi dei punti di riferimento, motivo per cui scrivo col Mac ultimamente, devo essere molto preciso. Lavoro a blocchi, mi faccio le quattro barre, sono minuzioso. Mentre scrivo mi rendo conto se la metrica è sbagliata o giusta, se c’è un monosillabo in più o in meno. Per esempio in “Chic” sono riuscito a fare uscire questa cosa, è un pezzo vecchio che ho riadattato e si sente. In generale sulla scrittura a me piace molto scrivere di notte, sono molto cupo, notturno. Mi metto lì con una candela, l'incenso e il computer nel buio, e il fumo che dal posacenere mi sale su. Dev’essere un momento spirituale, nel momento in cui mi metto lì a scrivere è come se fossi nel mio templio.

C’è un pezzo che mi aveva colpito del mixtape di “Julian Ross” che è “Scriptina". Me lo racconti?
“Scriptina” è un po’ un vomito, è uno dei pezzi che ho scritto più di getto, è molto criptico. Sono frasi che apparentemente non legano l’un l’altra però è un pezzo molto tribale, più che una canzone sembra un mantra. Ti dico questa cosa qui: mio padre ora sta scrivendo per il teatro e quel pezzo era nato per lui, io l’ho messo a cappella recitandolo in un suo spettacolo. Inizialmente quindi era nato così, l’ho inserito dopo su musica, ed è uscito molto vario. A me è l’ambiente che piace molto, mi sembra un po’ come il mito della caverna di Platone, è cavernoso quel pezzo! È come se uscissi fuori per sputare tante cose che sto imparando nello stesso momento. È molto psichedelico.

Tu hai mai fatto teatro?
No, non l’ho mai fatto ma ammiro tanto chi fa i monologhi. Quelle persone sono come guerrieri che per un’ora e mezza stanno lì con le luci puntate sul palco, con la loro fisicità. Non ho mai fatto corsi di teatro come non li ho fatti per il film, ho avuto un actor coach per due o tre settimane che mi ha seguito e aiutato, ma per il resto non ho fatto nient’altro, io osservo molto e assimilo.

Parlando proprio del film “Zeta”, del disco “Fenice” e della tua storia personale, c’è un po’ di confusione (voluta) tra i vari piani: non si capisce dove inizia Izi, Alex/Zeta e finisce Diego
Diciamo che non si deve capire più di tanto perché comunque è un film, non è la mia storia. Però ci sono due similitudini: in primis la storia di rivalsa, la mia e quella di Alex Zeta. Il processo è lo stesso: la periferia, il piccolo spaccio, gli amici, poi inizi a entrare nel giro però ti viene a mancare qualcosa. Lo capisci tramite i tuoi sbagli perché crolli. È un percorso generale che mi appartiene abbastanza, quello di andare attraverso alti e bassi, come fuoriuscire dalle situazioni negative senza mai darsi per vinti e lasciarsi trasportare da questa passione e amore per la musica, fino a riuscire a riconquistare se stessi. Poi il secondo riferimento vero è il diabete, perché appunto c’è nel film e c’è nella mia vita personale.

Suppongo che a questo siano legati il titolo dell’album “Fenice” e la copertina. Perché hai scelto quest'immagine?
In generale a me la mitologia è sempre piaciuta, perché mi piace fantasticare col cervello, partire, viaggiare e separarmi dal mio corpo. “Fenice” simboleggia il risorgimento fisico e mentale anche per il mio diabete: sono stato in coma diabetico un anno e mezzo fa, ho avuto una pancreatite e quando mi sono ripreso ho detto: “Basta, adesso devo pensare a me", non devo farmi troppo carico degli altri perché mi sto rovinando io. Questo è quello che vorrei far capire alle persone: nessuno potrà mai davvero aiutarti, ti puoi aiutare davvero da solo e basta. Io vorrei mettere in gioco la mia esperienza, non per insegnare qualcosa ma perché ci sono tante persone che mi scrivono: “Grazie alle tue parole sono riuscito a capire tante cose, riesco a separarmi e vedere i miei problemi dall’alto e quindi superarli o aggirarli”. Ci sono sempre infinite soluzioni, non bisogna mai bloccarsi. Una cosa che mi fa girare le palle della gente è che non c’è mai quel contatto fisico, neanche con gli occhi, non ci si sente mai. Io penso che la “non parola” sia come un sasso. Poi i sassi diventano un muro e i muri non li scavalchi più, dividono le persone. Per esempio il guardarsi negli occhi, il parlarsi, sono cose di cui scrivo in “Luce” per sensibilizzare i ragazzi. Cioè non tenerti la roba dentro, perché poi esplodi, e può essere una cosa positiva o negativa: io sono esploso e sono risorto grazie alla mia esplosione, o implosione forse. Voglio mettere in gioco quello che ho visto e poterlo donare agli altri come se fosse loro perché hanno il diritto di averlo in mano e farci quello che vogliono.

È un bel discorso, assolutamente. Parlando invece di musica e suoni, hai una certa passione per le ballad, da dove viene?
Viene dal mio ascolto di Johnny Cash, De André, Gaber, Vinicio Capossela, Georges Brassens. Mi ricordo che in terza media ascoltavo molto anche Ella Fitzgerald John Coltrane. Io ho fatto il liceo linguistico, adoro la letteratura inglese e adoro Coleridge, lo amo proprio, amo Kubla Khan anche solo per il fatto che sono solo 53 versi ed è la storia di uno fatto d’oppio che viene interrotto da un amico e quando riprende a scrivere si dimentica il trip in cui era entrato. Sono solo 53 versi ma è un viaggio assurdo in questa città. Il viaggio è un tema che c’è sempre nei miei pezzi, un po’ come si vede in “Chic”, ma è un viaggio che porta sempre a qualcosa, quasi sempre a una scoperta, al lasciarsi andare. Come quando sei su una mongolfiera e devi prendere quota e lasci giù i pesi. Ho smesso di tenermele dentro queste cose, se non lasci i pesi rimani in basso. 

video frame placeholder

Il video di “Chic” ha raggiunto le due milioni di visualizzazioni su YouTube, e sta girando parecchio. Dove l'avete girato?
In realtà sono rimasto sorpreso anche io perché non pensavo di andare in Marocco. È stata un’idea di Cosimo Alemà, Edoardo Bolli e Marcello Calvesi, che sono le persone che hanno lavorato al video. Sanno della mia passione per i viaggi così è stato deciso di andare a girare il video in Marocco: una mattina alle sei ho preso l’aereo, e alle nove mi sono ritrovato a Marrakech. Ma la cosa figa è stata che abbiamo preso un 4x4 e siamo andati in giro per 1800 km con una guida berbera del posto, passando dalle montagne di 2500mt al deserto. È un’esperienza che mi porterò sempre dentro, molto figa. È stata una roba molto “survivor”, bisognava mangiare e bere quello che c’era. Ma d'altronde in Marocco non vado certo a mangiarmi un hamburger, voglio capire la cultura del posto e apprendere. Mi piacerebbe andare in Giappone e in Kerala, la regione dell’India dove c’è una pianta che cura il diabete. Mi piacerebbe fare tutte queste cose.

Qualche settimana fa abbiamo pubblicato un articolo sulla scena rap di Genova, e proprio Albe Ok e Demo dello Studio Ostile ci dicevano che tra le caratteristiche che contraddistinguono i rapper in città c’è la voglia di rivalsa e la spontaneità. Sei d’accordo?
Sono d’accordo, e aggiungo anche coerenza e verità. È vero anche perché ora inizia a esserci un po’ di hype su di noi, ma proprio per questo bisogna rispettare chi siamo. Quindi accetti me, accetti com’è Albe Ok, accetti com’è Demo, accetti come siamo tutti quanti a Genova. In generale questa attitudine si è portata un po’ avanti anche nella cosiddetta "squadra" di Sfera Ebbasta e Ghali. Nella crew Wild Bandana siamo in cinque: io, Rave, Sangue, Vaz tè e Tedua. Io e Tedua siamo saliti a Milano e abbiamo influenzato un po’ gli altri ragazzi in città, tutti erano molto vicini ma in realtà erano molto lontani, non c'era contatto. Lo dico anche in un pezzo di “Julian Ross”: “siamo i soliti lontani ma vicini, telescopio”. Perché se vuoi qualcosa la ottieni, basta che indirizzi la tua energia verso un obiettivo e col solo fatto di volerlo ce la fai. Così abbiamo iniziato a unire tutto quanto. Ora il bacino d’utenza di Sfera si unisce col mio, che si unisce con quello di Ghali, che si unisce con quello di Albe Ok e così si crea una scena. Non c’era mai stato tutto questo, era difficile uscire da Genova, ora invece sono contento che ci sia un po’ di luce sulla città, su Studio Ostile, su tutto quanto.

Tu e gli altri che hai citato siete un po’ la nuova generazione del rap italiano. Della scena rap che c’è adesso che cosa ti piace e cosa no? Cosa speri che cambi e cosa invece rimanga uguale?
Spero che cambi questo fatto del "distacco" tra artisti diversi, ma è una cosa che sta accadendo già perché tutte le situazioni si stanno mischiando abbastanza. Questo mi fa piacere perché è nella natura del rap prendere, riciclare, aggiungere elementi a qualcosa che è già stato fatto. È bello che sia così anche riguardo alle persone, agli artisti; ad esempio io Sfera e Ghali siamo molto uniti e ci incontriamo anche fuori dal lavoro. Poi sì, c'è gente della vecchia scuola che lo accetta e gente che non lo accetta. Ci sono Salmo, Ensi, quelli che hanno lavorato al film ma anche altri come Noyz, Clementino, Marra, Gué: loro sono aperti al fatto che stia arrivando qualcun altro di nuovo. Invece ci sono tante altre persone che lo vedono come un conflitto di spazio, come se stessi pisciando sul loro angolo. Invece tra le cose che terrei c'è la diversità della scuola rap italiana, perché fra ogni città c’è una differenza enorme, anche negli accenti, ed è figo che ci sia. È bello che i napoletani possano rappare sia in italiano che in napoletano e ne vadano fieri, ora io ho degli amici che stanno rappando persino in genovese. Vorrei che si tenesse stretto questo e non si creasse un mischione plastico tutto uguale. 

Ti faccio una domanda un po’ provocatoria: la critica che in molti fanno quando ascoltano i tuoi pezzi, quelli di Ghali o quelli di Sfera Ebbasta è che sono tutti uguali, hanno tutti lo stesso suono. Si può essere d'accordo o meno, ma forse un fondo di verità c’è, considerando che collaborate tutti con Charlie Charles per le basi e che usate tutti l'autotune.
Infatti in questo disco ho voluto lavorare con vari produttori anche per questo. Charlie, insieme a Sick Luke (che è figlio di Duke Montana) sono i due più bravi produttori trap in Italia, però da artista non mi affiderei solo a loro perché altrimenti rimarrei chiuso. Quindi su questo un po’ sono d’accordo, personalmente sto cercando di sperimentare e secondo me soprattutto nell’ultimo disco si sentirà. Poi magari farò il mio mixtape bello gretto come piace a me, però sono pronto a fare tante cose.  

Ultima domanda: raccontaci i cinque dischi con cui sei cresciuto
Eminem, “The greatest hits”, poi Caparezza “Abemus Capa” di brutto, tutto De André in generale e poi ultimamente Stromae, gli ultimi due dischi e Booba che è un rapper francese che mi piace molto e usa l’autotune, alcune mie influenze provengono da lui. E poi ancora Gaber, impazzisco per pezzi come “Lo shampoo” o “La nave”, Vinicio Capossela “Il ballo di San Vito”, Battiato “L'era del cinghiale bianco”. 

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L'articolo Izi: una storia di rivalsa di Stefano Pistore è apparso su Rockit.it il 2016-05-17 18:03:00

COMMENTI (1)

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  • pocho92 8 anni fa Rispondi

    Correggete Buba con Booba ;)