Se i rapper si definiscono cantautori

Sono sempre di più i rapper italiani a sentirsi stretti nei panni dello swag a tutti i costi, preferendo temi (e suoni) che attingono a piene mani dalla tradizione cantautoriale italiana

Willie Peyote
Willie Peyote - Willie Peyote
21/06/2016 - 10:50 Scritto da Raffaele Lauretti

"Io mi sento un cantautore, anche le parti musicali a volte le compongo io, quindi perché non dovrei essere definito cantautore? A livello di testi, rispetto a quelli che vengono definiti cantautori, nei miei dischi come in quelli di molti altri rapper della mia "corrente" non ho nulla per cui sentirmi in difetto rispetto ai cantautori di oggi. Se i cantautori sono Dente, Colapesce, Brunori, be' Dutch scrive meglio, Ghemon scrive meglio e anche io ritengo di scrivere meglio di loro. Se il cantautore si giudica da come scrive, allora i rapper sono cantautori migliori dei cantautori stessi.

A lanciare il guanto di sfida, se così si può dire, è Willie Peyote in un'intervista di qualche tempo fa, riecheggiato in qualche modo anche da altre interviste rilasciate da un altro rapper avvicinatosi al pop cantautorale, Coez.
Come siamo arrivati a tutto questo? Per "tutto questo" intendo una serie di rapper che proprio non ci stanno a trattare il rap come fosse appannaggio esclusivo di chi una volta metteva i baggy jeans e aveva quell'attitudine hardcore che per buoni 20 anni ha fatto da padrone qui in Italia. Certo, c'erano i Caparezza e c'erano i Frankie Hi NRG ma erano tutto sommato dei negletti, artisti che con chi rivendicava fortemente di appartenere alla "Cultura Hip Hop" poco c'entravano e, tutto sommato, poco gli chiedevano se non d'imprestargli una cassa, un rullante, il 4/4 e le rime. 

A 16 anni dall'ultimo disco rap di Neffa, che per primo s'accorse di non potersi far bastare quanto citato poco prima, c'è tutta una fetta di musica italiana che è composta da figure particolari: rapper che suonano con gli strumenti e che talvolta, questi strumenti, li suonano persino. Rapper che non fanno rap hardcore, rapper che nei dischi scrivono rime, ma soprattutto cantano. Per non voler essere noiosi, diciamo che il precursore questa volta non è stato Neffa, ma un altro personaggio illustre: Dargen D'Amico. È lui che per primo ha coniato il termine "cantautorap" e ha scompigliato le carte in tavola per tutta una serie di questioni sonore, stilistiche, metriche. A 10 anni da "Musica Senza Musicisti" possiamo dircelo: Jacopo D'Amico è una delle migliori penne in Italia che è stato capace, proprio con i suoi storytelling vividi, di stravolgere e parodizzare (sempre con una certa consapevolezza) i topòi del genere. D'altronde lui stesso sembra confessarlo più volte: non è soltanto a Busta Rhymes o a George Clinton che guarda, o almeno non in via esclusiva. In una serie di citazioni ed omaggi (Fra tutti il balerasteppin: è il 2011 e Dargen ha appena inventato un genere musicale in cui bisogna rappare i testi dei cantautori italiani su tappeti di musica elettronica) troviamo Dalla, De André, De Gregori, Gino Paoli e così via, a volerci ricordare che si può fare rap e, nonostante questo, conoscere molto bene la tradizione musicale italiana e rispondere alle accuse carosoniane del "tu vuoi fa' l'americano".

 

Il rapper d'origini siciliane non è solo, vuoi perché negli anni ha poi aperto una vera label indipendente all'interno della quale troviamo rapper dall'originalità e comunicatività eccezionale come Pula+ o il già citato Dutch, vuoi perché, tra il 2009 ed il 2011, uscivano i primi due dischi del rapper emiliano Murubutu, professore di filosofia e forte promotore di un rap, come ama egli stesso definirlo, "didattico". Un'assoluta novità per il panorama italiano, poiché tolti i campioni, la cassa, il rullante, il signor Mariani Senior non ha alcun modo di strizzare l'occhio ai liricisti americani. Murubutu riprende una tradizione cantautoriale e letteraria, senza svilire mai il rap, senza mai forzare la metrica con delle rime banali: descrive questa donna ridotta alla follia dopo la morte del marito, costretta dalla sua malattia a ricercare la primavera annaffiando fiori e creandosi un amante, di questo giovane disegnatore che si perde tra i portici di Bologna prima e nell'eroina poi, di questa moglie che aspetta il marito, inghiottito dal mare. Addirittura descrive la vita di Diogene di Sinope con un extrabeat serratissimo.

È il 2012 quando Ghemon, uno dei rapper più talentuosi degli ultimi anni, decide di voler salutare il rap con un ultimo disco, staccare per un po' e tentare di seguire le orme di quel Neffa che citavamo all'inizio dell'articolo: la cosa non gli riesce e nel 2014 pubblica "ORCHIdee", uno dei primi dischi di rap italiano a venir realizzato interamente suonando degli strumenti musicali e con l'MC ad alternarsi tra cantati veri e strofe rappate. Lo segue lo stesso Coez, talentuosissimo rapper romano che sceglie di iniziare a cantare "proprio quando è il rap ad essere in cima alle classifiche".

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Di tutto questo, però, cosa ne pensa quel rap dai suoni crudi che citavamo prima? La risposta antitetica a quanto detto è quella di Egreen in "The Rockshow": "Ma quali nuovi cantautori cosa minchia dite / A casa mia ancora niente frociate mi vien la gastrite". Una risposta che, nella sua estrema sintesi, è perfetta e coerentissima.
Certo, la poesia, l'arte, la musica, ma qui si tratta di saper fare bene le rime, non di usare una qualche metrica AABB come scusa per tirar su due live o magari rimorchiare una tipa. Quello del rap è un pubblico che vuole essere coinvolto con le rime e la credibilità sopra un palco. Come a dire: non c'è davvero bisogno di chiamare "cantautore" ogni rapper che, a citare Ensi, rima "più di drammi e di gioie / di ideali, che di grammi e di troie" soltanto perché i cantautori, quelli a cui siamo abituati, con la chitarrina e la voce triste, non sono più capaci di inquadrare i tempi e sono divorati dalla banalità.

La giusta conclusione forse sta in quanto detto qualche mese fa da Claver Gold, altro rapper a cavallo tra i due mondi: "Il fatto di spostarsi verso il cantautorato forse vuol dire ammorbidirsi? Non so, se qualcuno ritiene che il cantautorato sia uscire dai canoni rap, dalla ghettizzazione dell'essere "il cattivo" forse ha anche ragione, però poi ognuno scrive quello che sente. Il fatto che il rap sia vario e ognuno scrive quello che vuole è l'arma migliore. Rinchiuderlo in dei canoni del tipo "questo va bene, questo non va bene" non ha mai portato niente in nessuna cultura."

Il rap è un genere longevo perché è capace di fagocitare qualsiasi cosa gli capiti a tiro: è giusto che continui a nutrirsi delle influenze più varie ed avere all'interno tendenze diametralmente opposte, come i suoni acidi di un Future o il G-Funk di Kendrick Lamar. È facilmente intuibile, però, che coltivare le proprie tradizioni musicali e attingerne a piene mani senza aver paura di legarle a sonorità più moderne o sperimentali sia importante per avere una cifra stilistica degna di questo nome. Fare musica può essere una scienza e, come diceva Feyerabend: "La scienza è un'impresa essenzialmente anarchica: l'anarchismo teorico e umanitario è più aperto a incoraggiare il progresso che non le sue alternative fondate sulla legge e sull'ordine". L'importante è saper poi distinguere una buona improvvisazione da una brutta figura.

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L'articolo Se i rapper si definiscono cantautori di Raffaele Lauretti è apparso su Rockit.it il 2016-06-21 10:50:00

COMMENTI (9)

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  • chappy 8 anni fa Rispondi

    @josh Sono andato a leggermi l'intervento di Bugo... beh, mi pare che lui sia decisamente schierato a favore del cantautorato come genere. Però a 'sto punto devo dedurre che, anche per i cantautori stessi, sia un genere molto ampio, dal momento che lo stesso Bugo ha fatto cose ben lontane dal cantautorato classico.
    Come dici tu, anche a me le categorie piacciono perché ti danno la possibilità di fare dei confronti.
    È chiaramente impossibile accostare Bugo a Mecna o Lucio Corsi a Ghemon, se non, al limite, su un piano contenutistico... anche se, si sa, la stessa cosa detta in un pezzo rap o in uno indie-pop cambia sia nella forma che nel modo di arrivare all'ascoltatore.
    Rimango più affine all'idea che, favorendo il lato puramente grammaticale, cantautore sia chi canta ciò che scrive (perché ci sono tanti interpreti che fanno pezzi con sonorità molto più vicine all'alternative che al pop classico)... però supporto totalmente il fatto che sia molto più facile identificare il cantautorato con un genere più o meno preciso.

  • josh 8 anni fa Rispondi

    @chappy in effetti questo articolo ha creato delle reazioni interessanti, anche di Bugo che l'ha commentato sulla sua pagina FB, aprendo una discussione che, se ben argomentata, fa' cultura.
    Diciamo che era un'occasione di confronto non male e ho apprezzato il tuo intervento!

  • chappy 8 anni fa Rispondi

    @josh No, ma infatti con la questione dello "spegnimento" mi rivolgevo all'autore dell'articolo. Poi, sia chiaro, voleva essere una cosa ironica... non stavo facendo il fanboy che difende il suo idolo a spada tratta (anche se, lo ammetto, poteva sembrare). Mi era piaciuta 'sta cosa che nell'articolo si fa un riferimento vagamente infelice a Frankie e lui ha risposto intervenendo direttamente col commento.

  • josh 8 anni fa Rispondi

    @chappy Beh in senso letterale tu e Frankie avete ragione: il cantautore scrive e interpreta e pertanto lo sono De Andrè, Frankie e tutti gli altri.
    È altresì vero che si identifica, per consuetudine, il cantautore con un determinato genere.
    Che i cantautori che fanno rap ;) abbiano preso il primo posto nella cultura dei "millennials" è un dato di fatto.
    Io nelle categorie ci credo ancora, e non ovviamente con un'accezione negativa. Credo che le categorie aiutino a confrontare un artista con gli altri e con se stesso, fornendo una chiave di lettura in più su di esso: tutto qui.
    Ci sono artisti come Bugo che rivendicano la loro appartenenza ad una categoria e ci stanno benissimo e non ci trovo nulla di svilente.
    La tua disanima sui rapper più o meno impegnati, invece, forse apre un altro discorso che coinvolge la cultura hip hop in senso più ampio.
    Per inciso: non mi sono sentito "spento" dal commento di Frankie, avrei preferito, anzi, un confronto più ampio con lui che questa "cosa" la fa da anni.

  • chappy 8 anni fa Rispondi

    Trovo l’articolo estremamente interessante perché tocca un argomento a me “caro”.
    L’unico rap che ascolto è quello degli artisti che vengono citati qua (qualcosa in più, qualcosa in meno) perché tutto il resto lo trovo ripetitivo, banale e vuoto… anzi, pieno di cose futili e inconsistenti.
    Per come la vedo io, al giorno d’oggi la categorizzazione dei generi è un’opera ardua. Basti pensare all’esistenza di cose tipo il sadcore o la vaporwave. La distinzione non è più tra cantautorato e rap (anche se condivido il fatto che cantautore è chi interpreta ciò che scrive, anche se viene facile identificare il cantautorato come un genere, piuttosto che come un modo di fare musica), ma tra rap con un contenuto più “profondo” e rap autoreferenziale e pieno di cliché. Per dirla in modo generico: rap impegnato e non.
    Rapper come Dargen, Dutch o il non citato Mecna, hanno scelto una strada talvolta più intimista, se non esistenzialista, che dà ai loro testi qualche livello di significato in più rispetto a tanti brani che, per quanto ben costruiti, rimangono dei meri esercizi di stile, buoni per essere suonati a tot. decibel nei live o, ahimè, dalle casse degli smartphone.
    Ma questo, sia chiaro, vale per Gemitaiz come per Brunori, per Fibra come per Calcutta. Essere cantautori (nel senso non corretto del termine) non significa automaticamente fare testi profondi ed impegnati… anzi, mi pare che a volte in questo cantautorato si giochi molto sull’usare frasi riempitive che vogliono dire tutto e niente.
    Sono un amante di De André, Battiato, Gaber, De Gregori… e mi fa rabbia vedere nei giovani d’oggi così tanta diseducazione al contenuto. Per quanto anche io apprezzi certi brani molto più superficiali… ma, almeno, con consapevolezza.
    L’identità del rap è così forte e così caratterizzata che chi poco poco se ne allontana sembra che debba necessariamente essere etichettato in qualche altro modo. Se prima questa distinzione si poteva fare, tirando in ballo la hip-hop culture, dove eri dentro o eri fuori – come diceva anche Bassi Maestro riferendosi a Caparezza e Frankie Hi-Nrg, “quello è rap, non hip-hop” – oggi la differenza nei vari modi di fare rap non permette più tale separazione. Del resto la musica evolve… purtroppo e/o per fortuna.
    Per inciso, ritengo che Frankie Hi-Nrg, con La morte dei miracoli, abbia dato al rap italiano uno dei contributi più grandi e, col senno di poi, imprescindibili.
    Penso che sia rapper Caparezza quanto lo è Salmo, Willie Pelote quanto lo è Guè Pequeno (che pure aborro). Tutto sta in quanto tali artisti decidono di impegnarsi nella profondità dei loro testi, talvolta raccontando, talvolta raccontandosi.
    Quello che serve è solo una rieducazione del pubblico, affinché prenda consapevolezza di questa differenza.
    Ma, alla fine, resta sacrosanto il fatto che i gusti sono gusti.

    P.S. A proposito di Frankie… quanto vi ha spento col suo commento?! ;P

  • josh 8 anni fa Rispondi

    @mpc
    In senso letterale è vero che chi canta ciò che scrive è un cantautore e questo accomuna artisti molto distanti tra loro ma, forse, è fin troppo generico e non tiene conto del percorso musicale che un artista ha seguito, no?
    In questo senso, in un ipotetico schema degli insiemi e dei sottoinsiemi, il rapper è un sottoinsieme dell’insieme cantautore, va bene.
    Attaccare etichette agli artisti non è neanche poi così svilente per l’artista stesso. È vero che serve più a noi ascoltatori e a chi cataloga gli album in un negozio, ma aiuta anche un po’ identificare la storia dell’artista.
    Poi ognuno, vaga, divaga per la musica e finisce per creare il suo personale percorso che lo porta ad essere l’artista che è ed è molto bello così.
    Ribadisco però il mio pensiero, cercando di essere più chiaro (spero).
    Se guardo, da quasi quarantenne, i ventenni di oggi ho la sensazione che siano stati i rapper ad aver preso il posto dei cantautori della mia generazione. Intendo proprio a livello di ruolo, non di musica. Perché c’era un vuoto da colmare: la necessità che ognuno di noi ha provato di avere qualcuno che ti spieghi cosa stai sentendo.
    Non riesco, però, ad assimilare una canzone di un rapper (come lo intendo io) ad una canzone di un cantautore (come lo intendo io).
    Non mi schiero con uno o con l’altro ma continuano a sembrarmi due cose ancora distanti tra loro, però non escludo di essere io il manicheo, o l’uomo coi paraocchi (e la forfora).

  • josh 8 anni fa Rispondi

    In senso letterale è vero che chi canta ciò che scrive è un cantautore e questo accomuna artisti molto distanti tra loro ma, forse, è fin troppo generico e non tiene conto del percorso musicale che un artista ha seguito, no?
    In questo senso, in un ipotetico schema degli insiemi e dei sottoinsiemi, il rapper è un sottoinsieme dell’insieme cantautore, va bene.
    Attaccare etichette agli artisti non è neanche poi così svilente per l’artista stesso. È vero che serve più a noi ascoltatori e a chi cataloga gli album in un negozio, ma aiuta anche un po’ identificare la storia dell’artista.
    Poi ognuno, vaga, divaga per la musica e finisce per creare il suo personale percorso che lo porta ad essere l’artista che è ed è molto bello così.
    Ribadisco però il mio pensiero, cercando di essere più chiaro (spero).
    Se guardo, da quasi quarantenne, i ventenni di oggi ho la sensazione che siano stati i rapper ad aver preso il posto dei cantautori della mia generazione. Intendo proprio a livello di ruolo, non di musica. Perché c’era un vuoto da colmare: la necessità che ognuno di noi ha provato di avere qualcuno che ti spieghi cosa stai sentendo.
    Non riesco, però, ad assimilare una canzone di un rapper (come lo intendo io) ad una canzone di un cantautore (come lo intendo io).
    Non mi schiero con uno o con l’altro ma continuano a sembrarmi due cose ancora distanti tra loro, però non escludo di essere io il manicheo, o l’uomo coi paraocchi (e la forfora).

  • mpc 8 anni fa Rispondi

    Non ho mai chiesto "in prestito" niente a nessuno: la mia cosa l'ho sempre fatta, non rubata.
    Chi scrive ed interpreta è un cantautore, indipendentemente dalle "metriche serrate", il beat, la chitarra o la forfora.

  • josh 8 anni fa Rispondi

    Vorrei provare ad illustrare la mia posiziona a riguardo, da semplice appassionato di musica che conosce in maniera marginale il rap, ma che lo guarda con molta curiosità.
    Proviamo a partire da qualche domanda: quanto il rap americano si è veramente inserito nel DNA del rap italiano? Non parlo di filosofia del genere, di estetica, di credo: quello è ormai chiaro a tutti e lo è stato chiaro sin da subito a coloro i quali hanno rappresentato il rap italiano e sono considerati da tutti i pilastri di questa cultura.
    Cosa significa, in Italia, essere cantautore? Questa è una domanda capziosa, ma è importante porsela.
    In America cantautori e rapper ci sono sempre stati eppure c’è una distinzione netta tra i due e non credo sia perché i rapper americani non suonano e i cantautori sì, oppure perché i testi dei rapper americani non lasciano spazio a pensieri profondi o a espressioni poetiche. Il rap è il rap, il cantautorato è cantautorato, senza che questo escluda episodi singolari come Everlast che pure ha percorso entrambe le strade.
    Ma allora perché porre la questione, in Italia, tra rap e cantautorato?
    Io non sono sicuro che il gene del rap americano si sia alla fine incastrato nel DNA della musica italiana: la catena genica della musica italiana non ha, ancora oggi, un posto libero per il rap così com’è, pertanto chi si inserisce in maniera “italiana” nel mondo del rap o, viceversa, chi innesta il rap nello scenario musicale italiano otterrà sempre un ibrido. Forse il prodotto finale sarà più digeribile da radio e pubblico e alle orecchie distratte e a volte sorde del mondo della musica italiana, ma non sarà “rap”.
    La compenetrazione tra i termini di cantautorato e rap credo sia solo una necessità di chi, da artista, senta di non appartenere totalmente a una sponda o all’altra perché la sua italianità non lo rende veramente aderente all’immaginario da rapper. Fare il rapper è una cosa ben precisa, che comporta degli obblighi: lo sa benissimo Egreen che ha fatto della coerenza e dell’adesione all’hip hop la chiave di volta della sua arte e va benissimo così. Per certi versi la strada del rapper è quasi più delineata di quella del cantautore, che invece si trova un panorama più fluido e eterogeneo nel quale inserirsi.
    Dicevamo: cosa significa essere cantautore in Italia? Io credo che, ancora oggi, per molti significhi essere De André o niente. Ci sono pochi nuovi musicisti italiani capaci di incarnare il ruolo del cantautore, se teniamo conto che anche gente come Silvestri o Fabi, pur essendo relativamente giovani, possono essere considerati dei veterani del cantautorato. La nuova ondata di musicisti è eterogenea e mutevole perché cantautori sono Dente e Brunori, ma anche Calcutta e Leo Pari. Tutti artisti diversi tra loro che però cantano e suonano ciò che loro stessi compongono. E lo fanno cercando una forma artistica a tratti un po’ criptica.
    E allora se c’è questo vuoto generazionale, se i nuovi cantautori non ricordano i vecchi e non toccano gli apici raggiunti dai loro colleghi più grandi (musicalmente e anagraficamente) e le band non sono da meno, ecco che i rapper che non sono riusciti a mutare il DNA della musica italiana in una versione più americana, ma che fanno delle parole la propria cifra stilistica, sono pronti a colmare questo vuoto.
    I rapper oggi sono i nuovi cantautori perché i cantautori di oggi sono più cerebrali a livello compositivo e meno immediati, soprattutto perché se dici “cantautore” pensi ancora a De André, Dalla, Battisti. Insomma pensi sempre ai giganti.
    I rapper che si affacciano al pop non hanno la necessità di essere complessi per sembrare cantautori e, semplicemente, scardinano la struttura della forma canzone infilandoci più parole grazie al rap, recuperando al tempo stesso le melodie che rendono il cantautorato accessibile a tutti. Si pensi ad esempio ad un pezzo come “jet” di Coez che è chiaramente un testo rap innestato su una tipica struttura di una canzone: è una canzone d’amore, con un piglio rap e un ritornello melodico.
    Io tra i vari Dargen, Dutch e Murubutu ho seguito la vicenda di Pula+, rapper dotato e atipico che non potevi catalogare come rapper à la Egreen, e ora cantautore dai testi mai banali. Il suo ultimo album “non lo so” non è certo un album che ricorderemo per gli intricati arrangiamenti compositivi, ma è un album immediato in grado di creare un ibrido tra la metrica rap e la poetica cantautorale, ottenendo risultati espressivi non indifferenti.
    Un rapper che non si riconosce nel cliché del genere e quindi si allontana dalla filosofia che il rap sottende, è giusto che cerchi altre strade magari utilizzando sempre le metriche serrate, ma non sarà ancora un rapper né sarà un cantautore nel senso “italiano” del termine.
    A volte ho la sensazione che i rapper che si affacciano al mondo della musica cantautorale in qualche modo siano intimiditi dal confronto con gli strumenti e che questo non li aiuti ad approcciarsi con la giusta scioltezza.
    Il rap ha bisogno di un dj, di una base e degli scratch e non solo di una metrica serrata. Se non hai queste cose, a parer mio, non sei un rapper. Il cantautore ha bisogno di un testo e di una musica, composta, suonato da solo o da una band e, soprattutto, ha bisogno di prendersi meno sul serio.
    I rapper stanno semplicemente occupando il posto lasciato dai cantautori che parlavano ai ventenni di trenta - quarant’anni fa che si facevano spiegare dai cantanti la vita che vivevano e che, invece, gli interpreti e i cantautori di oggi non sono più tanto in grado di fare, fatte alcune eccezioni.