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presenta

Vinicio Capossela nella tana

intervista: Nur Al Habash
stop motion portraits: Claudia Zalla
video compositing: Alessandro Del Grosso




Vinicio Capossela ci ha dato appuntamento nella sua tana, ovvero il quartier generale de La Cupa, un non-luogo vicino alla Stazione Centrale di Milano circondato da negozi nei quali si vende bigiotteria, pashmine e cover per smartphone. Una volta entrati però sembra di varcare la soglia di una dimensione parallela: è una matrioska di ambienti a cui si accede gradualmente, uno dentro l’altro, e più si va avanti più si ha l’impressione di entrare nel mondo fiabesco di Vinicio.
Il locale più esterno somiglia vagamente ad un ufficio, ma poi un sipario di velluto introduce ad una wunderkammer piena degli strumenti musicali più disparati: tamburi, organette, chitarre, fisarmoniche, strumenti sconosciuti provenienti da tutto il mondo (sotto il pianoforte a coda c’era anche una botola, ma non abbiamo esplorato oltre).

Ancora più avanti ci si ritrova invece in un café di inizio novecento, con la carta da parati floreale, statuette di capre, vetrinette, cappelli bizzarri, vecchi specchi e il bancone di un bar. Una scala a chiocciola conduce infine ad una piccola stanza, un letto, una mappa alla parete, molti altri oggetti strani.
Capossela si muove nella sua tana con fare irrequieto e veloce, ma sereno. Senza reticenze racconta di tutto il mondo (reale, eppure magico) che ha stratificato nel corso degli ultimi 13 anni all’interno del suo ultimo disco “Canzoni della cupa”.





“Canzoni della cupa” è un lavoro estremamente approfondito, si percepisce distintamente la lunga ricerca che c’è dietro. La cosa che mi ha colpito di più è stata il tuo racconto della provincia. Oggi per parlarne sembrano esserci solo due modi: quello nostalgico e quello etnogastronomico. Tu invece hai preso una strada completamente diversa, e molto più complessa. Da dove sei partito?

Sono partito dall’amore per la musica folk. Volevo fare un disco in cui bastasse impugnare una chitarra e cantare delle ballate, volevo confrontarmi con un patrimonio antecedente al mio e che quindi non si esaurisse soltanto nell’io ma che arrivasse a un noi. Sono partito dal mio amore per i folk singer d’oltreoceano, ma poi ho cercato un punto d’accesso a un giacimento folklorico che è quello delle mie terre dell’origine, le terre interne dell’alta Irpinia, ma rimodulate in una chiave un po’ più mitica. Il primo passo è stato quello di avvicinarmi all’opera di Matteo Salvatore, un cantautore che ha scritto delle canzoni di denuncia molto efficaci e molto naturali. Storie di soprusi e di ingiustizie del latifondo meridionale dove c’era un po’ tutto: la superstizione, la religione e un confronto con la nostra cultura, che è molto antica. Se ci si avvicina alla civiltà della Terra, se si scava un po’, si arriva subito all’arcaico, all’archetipo, al mitico. Carlo Levi diceva che l’umile Italia dei contadini accedeva a un tempo molto antecedente al nostro, e quindi ad un aspetto più ancestrale. Aveva ragione, e su questo ho lavorato molto nel corso degli ultimi anni.
Tu prima parlavi dell’etnogastronomia; è una materia delicata, perché viene facilmente disinnescata proprio da un approccio folkloristico, che cancella immediatamente tutta questa profondità. E invece aveva ragione Dylan quando diceva che “non c’è niente di rassicurante nella musica folk”. Nel folk c’è qualcosa che riesce ad accedere a un mondo nascosto, ad una specie di inconscio collettivo. E in questo non c’è nulla di paesano o rassicurante: c’è spazio per la morte, per il lutto, per i demoni, per la fame, per la miseria, per il desiderio carnale. Insomma tutta materia molto vera, ma che in un attimo può diventare una specie di barzelletta. Dipende come la si tratta, insomma.





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Per trovare tutte queste storie come hai fatto? Sei andato a chiedere informazioni alla gente del posto?

Le cose in realtà si trovano soltanto prestandovi orecchio, a patto di dargli tempo e farci caso. Non c’è neanche tanto da chiedere in giro, la cosa migliore è praticare. Se c’è gente che si ritrova a fare dei canti bisogna starci in mezzo, se non capisci bene il dialetto bisogna entrarci in confidenza pian piano. È una cosa per cui bisogna acclimatarsi, richiede tempo e per questo gli ho dato tanto tempo: sono passati 13 anni dalla prima registrazione del 2003. È necessario che siano cose che escano da dentro di te e non da fuori, altrimenti il tutto diventa una specie di cartolina. Quando queste cose partono da dentro funzionano esattamente come le radici che fanno crescere un albero: l’arbusto può fare ombra, oppure può anche subire degli innesti come si usa nella botanica. Gli innesti possono essere divertenti. Per esempio si può giocare dal punto di vista musicale e timbrico, e innestare su un patrimonio del genere una cosa che viene dal deserto dell’Arizona, vedere come fiorisce.

Prima parlavi dell’influenza di Matteo Salvatore in questo disco. Su di lui Italo Calvino ha scritto: “Le parole di Matteo Salvatore noi dobbiamo ancora inventarle”. Oltre che recuperare i suoi versi, trovo che nel disco tu abbia portato avanti una ricerca lessicale molto interessante. Ci sono delle parole italiane ormai in disuso da molto tempo che hai recuperato. È stato un lavoro consapevole?

È stato un lavoro lungo. La lingua italiana è una specie di elemento pericoloso, nel senso che cancella le identità locali. In questo senso Pasolini aveva ragione, l’imposizione della lingua italiana ha impoverito il grande patrimonio linguistico dei dialetti. Io non riesco a fare cover in altre lingue, ma neanche in dialetto. Quindi mi ci avvicino a mio modo.
Quello di Matteo Salvatore è un repertorio strano: sono canzoni cantate in dialetto stretto di Apricena, che è un dialetto molto duro, come le pietre della cava, sembra quasi abruzzese. Infatti la prima volta che ho ascoltato Matteo Salvatore è stato in un film che si chiama “Big Night” che parla di due abruzzesi che aprono un ristorante in America. Il film era americano, di Stanley Tucci, però nella colonna sonora c’erano due pezzi di Claudio Villa e due pezzi di Matteo Salvatore. Quando ho scoperto le sue canzoni per me è stato molto utile, innanzitutto a livello linguistico: le terre che si trovano sulla spina dorsale italiana, le terre dell’interno, hanno una lingua che parte dall’Abruzzo e finisce sul Pollino. Sono dei dialetti che non c’entrano niente con il napoletano ma che tra loro si somigliano, è una radice linguistica interessante. Al di là di questo, il mio intento è sempre stato quello di usare l’italiano anche forzando delle parole, usando assonanze. Però non riesco a cantare in dialetto.

Mi ha molto affascinato l’esplorazione di questi paesi che tu chiami “terre dell’osso”. Posti sperduti che non sono toccati né da grandi mari, né da grandi città. Per chi non è mai passato di lì, è difficile immaginare certe atmosfere. Dalla tua narrazione sembrano luoghi spaventosi, tetri anche se assolati.

Secondo me la vera divisione che c’è in Italia non è quella tra nord e sud, ma tra le terre dell’osso appenninico e quelle della polpa, cioè tra le coste e le città. Lì la geografia si impone alla storia, ciò che accomuna questi posti è la loro condizione di isolamento. Che siano del nord o del sud, quelle terre hanno subìto una sorte abbastanza simile, c’è stato un grosso spopolamento. Di solito nell’interno i paesi sono più arroccati e impervi, quasi a difendersi da un generico esterno. Sono luoghi in cui il clima è più rigido, la natura è più ispida, più violenta, sono zone sismiche. Ad esempio nell’alta Irpinia raramente c’è un paese che mantenga intatta la sua memoria architettonica. Sono luoghi soggetti a scuotimenti di terre, luoghi dove il cielo non è mite. È una natura un po’ rapace, ferina, che a me dà sempre una sensazione violenta, come se si rinnovasse ogni volta la creazione del mondo. Il parto è una cosa violenta, è una cosa meravigliosa ma anche terrificante.

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È per questo che hai deciso di dividere il lavoro in due parti, la polvere e l’ombra?

Sono partito da un repertorio che di sua natura è un po’ disseccato, sia nel tipo di materia delle canzoni, sia per quel che riguarda la formazione dei soggetti. Però col tempo ho finito per concentrami anche sull’ombra che queste cose lasciano sulla terra, e soprattutto su quello che è più nascosto. Quindi ho scoperchiato questo patrimonio che parla di fatica, di campo, di lamenti - e anche di creature nascoste nella notte, di ombra e penombra. Un grande serbatoio dell’inconscio, del sacro, del divino. Questa è la parte che ha richiesto più profondità, e quindi nel momento di dare un aspetto organico a tutta questa materia mi è venuto naturale dividere. La prima divisione della storia è quella che opera il creatore nella Bibbia, quando divide la luce dalle tenebre che insieme però fanno il giorno e la notte e quindi compongono il tempo.

Ho letto che “La Cupa” è la contrada dei paesini meno battuta dal sole, quella dove si sviluppano le leggende, le storie più confuse, più mistiche. Cosa ti attira di questa zona d’ombra?

Penso che dentro di noi ci siano molte cose, siamo vasti. Nella nostra natura umana c’è qualcosa di alto e sublime e qualcosa di estremamente basso. In alcuni è più preponderante una parte rispetto all’altra. La cultura popolare queste creature dell’ombra le ha raffigurate, magari gli ha dato un nome, le ha simbolizzate. La Chiesa gli ha dato dei volti, li ha nominati, ha raccontato le loro vicende. Loro sono le creature della Cupa.
A Calitri ad esempio c’è questa leggenda: un contadino trova una neonata di questa contrada in una notte di pioggia. Lei sta piangendo in un campo, lui la raccoglie ma non riesce a sollevarla perché diventa pesante, sempre più pesante. Non riesce più a tenerla, poi la guarda negli occhi e vede che sono infiammati. Sembra uno di quei sogni che vengono presi in esame dagli analisti, eppure è una storia, una leggenda popolare. Avendola nelle orecchie mi è sembrato che le creature della Cupa sono quella parte in ombra di noi che affiora dall’inconscio. Mi attrae di più questa zona d’ombra perché sono sempre stato attratto da tutto ciò che è clandestino, da ciò che fa poca luce e lascia immaginare il resto nella penombra.

Parlando di creature, ho notato che nel disco ci sono un sacco di animali. Nel libretto che lo accompagna c’è addirittura una specie di indice per catalogarli e andare a ricercare le loro apparizioni all’interno delle canzoni. Sembra un’opera antropologica, la catalogazione minuziosa di un luogo che non esiste.

In un certo senso esiste invece, non mi sono inventato niente, sono proprio i nomi con cui vengono chiamate le creature in quei posti lì. Nominare il mondo è un’azione molto importante per poter scrivere una mappa emotiva e geografica. Naturalmente nella cultura popolare l’animale è molto presente e spesso ha una natura doppia, simboleggia qualcosa. Tutti i cataloghi dei bestiari medioevali ce lo hanno insegnato. L’animale entra nei proverbi, nei modi di dire: “Piove con il sole, il diavolo va in amore”, “Consiglio di volpi, schiamazzo di galline”. Questo a mio parere rende più ampio il mondo, ma noi abbiamo completamente perduto il rapporto con il mondo animale, che è un rapporto fondante. Ora ci avviciniamo a loro solo in forma di cibo o di pochi animali domestici. Questa relazione invece fa diventare il mondo più ampio, meno definito, più fiabesco. Ed esiste eccome.





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Tra questi animali il più simbolico è il Pummanale. La stessa canzone che lo racconta ha a che fare con l’incontrare i propri demoni, lottare con loro e infine mettercisi d’accordo.

Il “pummanale” è il lupo mannaro, il licantropo. A seconda dei paesi ha nomignoli diversi, però siamo certi del fatto che in certe specifiche stagioni esce rotolandosi in terra e cercando il refrigerio. Anche questo è molto simbolico: il doversi rotolare nello sporco, nel fango, e quindi esternare una parte bassa di sé, vorace e istintuale. In questa canzone la parte bassa è proprio la ferinità carnale. La storia racconta di quest’uomo sposato, che nelle notti di luna piena se ne esce e incontra Maria Salute, insomma si mette a repentaglio per seguire le sue passioni. Così capisce la storia del Pumminale, che di solito è quello che è nato la notte di Natale e che quindi è colpevole di nascere nella stessa notte di Cristo, è condannato. Allo stesso modo, questa sua ambizione lo spinge alla bassezza e così dice: “Capisco il male del Pumminale che invece di lupo l’ha trasformato in porco maiale”. È proprio un caso di Licantropia.

Tutte queste storie assomigliano un po’ a delle favole. Quello che racconti è un mondo reale, ma fiabesco. C’è qualche favola della tua infanzia che ti è rimasta impressa?

Le fiabe che ci raccontano da bambini hanno anche un intento pedagogico, cioè quello di terrorizzarti, allontanarti dal compiere certe azioni. Di queste fiabe mi ricordo bene i nomi di certi personaggi: il Maranghino era una specie di demone che se ne stava sotto il pozzo, con l’evidente scopo di tenerti lontano dal pozzo. Le Masciare erano delle fattucchiere, delle streghe che potevano legare o torcere gli arti ai bambini, ma che non erano qualcosa di soprannaturale: una masciara poteva essere anche la tua vicina di casa, la sua figura serviva ad insegnare ai bambini la doppia natura delle cose. Queste creature da bambino mi facevano simpatia ma anche un certo timore.

Prima hai detto che le prime canzoni sono state scritte 13 anni fa. Perché questi brani sono rimasti sepolti così a lungo?

Perché vengono dalla terra dell’osso e come un cane io ho sepolto l’osso, ogni tanto sono andato lì a rosicchiarlo e poi a vedere di trovare qualcos’altro che gli facesse compagnia. Il problema è che quando pubblichi i dischi smettono di appartenerti e ovviamente iniziano ad avere una vita loro, come i figli che prima o poi prendono la loro strada. In questi anni invece mi è piaciuto rifugiarmi in questo tempo che non è un tempo da orologio, è immobile, è una fonte in cui se tieni tutto nascosto rimane intatto, anche se ci torni quattro o cinque anni dopo. Una dimensione che si ha paura di svelare perché nel momento in cui la usi non ti appartiene più, e io l’ho tenuta al riparo per tanto tempo.













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intervista: Nur Al Habash
ha contribuito Daniele Sidonio
art direction: Stefano Fiz Bottura
dev: Giulio Pons, Peppe Tumino

stop motion portraits: Claudia Zalla
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