Management del Dolore Post-Operatorio - I rivoluzionari hanno perso, viva la rivoluzione!

Da "Un incubo stupendo" si è passati a parlare di temi grandi e importanti: il giudizio e le aspettative del pubblico, la poesia, la rivoluzione, la rivendicazione della propria libertà

Management del dolore post operatorio
Management del dolore post operatorio - tutte le foto sono di Cosimo Nesca

Una chiacchierata di oltre un'ora in cui si sono toccati molti temi importanti: il giudizio del pubblico, l'importanza del confronto nella fase di scrittura di un disco, le rivoluzioni, la poesia, e la voglia di rivendicare la propria libertà sempre. Luca e Marco, ovvero il Management del dolore post operatorio, prima di essere una band sono due amici fraterni, che affrontano tutti i giorni il complesso lavoro del musicisti e si confrontano tra loro e con le aspettative di chi li segue. Li abbiamo intervistati, in attesa di vederli dal vivo al MI AMI Festival, sabato 27 maggio (qui il link alle prevendite).

Come avete impiegato il vostro tempo in questi anni fra un disco e l'altro? Sembra che ci siano stati dei cambiamenti importanti, ce ne volete parlare?
Luca: In realtà da quando è uscito “Auff!” nel 2012 fra un disco e l'altro non ci siamo praticamente mai fermati. Siamo un gruppo che suona come le bestie da soma di continuo, facciamo 8 ore di furgone fra un concerto e l'altro. Ci piace suonare, la nostra espressione più sincera e più vera è il live, quindi siamo abituati a registrare e scrivere i dischi anche durante i concerti. Non abbiamo mai fatto grosse pause, la prima è stata lo scorso anno quando ci siamo presi un anno sabbatico per finire il disco con calma e non impazzire, ma in realtà siamo impazziti lo stesso perché stare senza suonare è una cosa che ci è pesata molto, infatti avremmo dovuto stare fermi un po' di più, ma...

...non ne siete capaci.
Marco: No, perché non facciamo nient'altro oltre questo.

Quindi voi fate i musicisti di mestiere?
L: non sappiamo fare altro!



Per “Un incubo stupendo” siete rimasti solo voi due e avete collaborato con un'altra band. Come mai?
L: Il nostro amico Nicola, batterista, che viene dalla nostra stessa città e conosciamo dall'asilo, aveva deciso di lavorare a un progetto solista, che tra poco uscirà e speriamo che vada bene. Il bassista invece è stato chiamato a scuola a insegnare musica e gli piace molto. Per questo siamo rimasti noi due e abbiamo fatto tutto da soli, anche la produzione, ma in studio e in tour ci siamo fatti affiancare da questo trio di amici teramani, imuri.

Quanto c'è dei imuri negli arrangiamenti?
M: Pochissimo, l'unica differenza rispetto agli altri dischi è che questo era già abbastanza finito, però l'abbiamo provato tanto prima di registrarlo, quindi quelle che senti sono le canzoni come sono nate. Prima facevamo il contrario, essendo sempre in tour scrivevamo le canzoni in viaggio, e il posto per sperimentare era più lo studio che la sala prove, ma magari poi ti ritrovavi a farla live con un'altra attitudine. Anche per questo ci hanno detto che siamo punk, perché live spingiamo un po' di più. Con questo disco volevamo fare il contrario. È la prima volta che curavo io la produzione e non ho cambiato nulla rispetto alla preproduzione.

Non hai mai pensato che lavorare in maniera così autarchica, in mancanza di confronto, potesse essere un problema?
M: Quello sì, è ovvio, però c'è anche il lato inverso, magari con un produttore ti pieghi, soprattutto se lo fai con uno che stimi, ti da un consiglio che non è detto che sia giusto. Almeno se sbaglio, ho sbagliato io.



Forse è il risultato del fatto di essere rimasti in due, però questo disco è molto differente dai precedenti sotto tantissimi punti di vista. La prima cosa che si nota è il fatto che quell'attitudine un po' di rabbia, di tumulto, di riflessioni polemiche, si sia affievolita a favore di una vena più malinconica e più personale. Manca una “Norman” per esempio.
L: Era chiaramente voluto. Diciamo che crescendo si sviluppano altri modi, che poi non è detto che siano giusti o sbagliati, ognuno cambia in un modo e in quel modo cerca di esprimere se stesso. La nostra canzone, il nostro modo di scrivere, è molto collegato alla nostra vita e al nostro modo di essere, non raccontiamo storie che stanno tanto al di fuori, sono tutte rivendicazioni personali. Posso farti l'esempio della rivendicazione al diritto di odiare una persona in “Canzone d'odio”. Non c'è più quella verve polemica del puntare il dito, di dare dello stronzo a tutti.

Quindi l'ispirazione biografica in certi pezzi riflette il fatto che in questo momento siano cambiate le vostre priorità come persone.
M: Sì, assolutamente, ma questo è un discorso che c'è sempre stato fin dal primo disco. Fondamentalmente noi scriviamo quello che viviamo, se sono triste scrivo una canzone triste, se sono felice (raramente) scrivo una canzone felice.

Ma in che modo pensate ancora ad incarnare quello spirito un po' ribelle che si notava nei primi dischi invece?
L: A me viene sempre in mente, quando affronto questo tipo di discussione, ciò che si può dire degli assassini al cinema: il vero personaggio cattivo di un film horror è quello che ti ammazza con eleganza, con il sorriso, con tranquillità.

Per esempio Hitchcock diceva che fa più paura quello che non si vede di quello che viene mostrato.
L: Esatto. Volevamo scavare un po' più a fondo senza dare quest'impressione di dover per forza sputare addosso a tutti. L'abbiamo fatto per esempio coi singoli, scegliendo quelli più romantici, più morbidi.



A proposito del come dite le cose in questo disco, l'ultimo pezzo sembra in qualche modo in contraddizione con alcune cose del disco. In “Ci vuole stile” dici: “avrei riempito questa canzone di burro e marmellata ma non si può perché ci vuole stile”. Però in “Naufragando” dici una frase come: “Io farei di tutto per vederla ridere se potessi sarebbe il mio lavoro”, che è un po' come dire di non poter scrivere un testo melenso, perché ci vuole stile per parlare di certe cose, però tu te ne freghi, e forse non è nemmeno casuale che siano la prima e l'ultima traccia del disco.
L: È un'osservazione precisa e arguta queste sono contraddizioni: che un artista ha il diritto e il dovere di fare, scherzando anche su se stesso. Noi sappiamo benissimo che una canzone di un certo tipo può arrivare di più, magari può passare in radio, allora ci prendiamo la libertà di scrivere tutte le canzoni senza per forza inserirle in un contesto concettuale di concept album, lasciando quindi che si contraddicano. Molti mi accusano di essere bipolare, in una canzone dico che farei di tutto per vederla ridere e quella dopo è una canzone dove rivendico il diritto di odiare una persona, perché l'odio è un sentimento genuino. Queste contraddizioni ci sono tutte perché sono dentro di noi. Ogni canzone ha la sua storia, il suo stato d'animo.

Entrando nel dettaglio delle canzoni, per presentare “Naufragando” avevate scritto nelle note stampa di accompagnamento al video che spiegare una canzone è una cattiveria e invitavate tutti quanti a inviare i loro momenti perduti. A questo punto vi chiedo di dirci quali siano i vostri di momenti perduti.
L: È una canzone che è piaciuta tanto perché si ricollega a certe emozioni presenti anche nel video, girato da Ivan D'Antonio, un video molto bello e tocca quel tipo di emozioni che sono universali: quell'idea tra assenza, presenza, ricordi, emozioni perdute, malinconia, tristezza. Sono delle emozioni che toccano un po' tutti, soprattutto perché non entriamo mai nello specifico nella canzone. Quindi i nostri momenti perduti sono quelli che hanno perduto tutti, momenti che semplicemente non ci sono più e che ricordiamo con quel piacere ma anche con una tristezza infinita.

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Mi sembra che una costante nelle canzoni sia la difficoltà nel reagire a degli errori che sono stati commessi, come se ci fosse questo senso di un disastro imminente, un'ansia a cui è difficile trovare sollievo, o meglio, curabile solo con l'amore.
L: L'amore inteso come tutto ciò che ci piace, che ci fa stare bene, è un concetto presente in tutti i dischi, è da ricercarsi nell'assoluta e totale libertà della propria ricerca personale, anche un po' perversa, della felicità. Cercare di fare tutto all'istante, anche ciò che ti può portare a non essere vincente, ma che in quel momento ti serve per essere felice, perché quei cinque minuti nella tua vita sono i più importanti, sono quelli che stai vivendo. Magari a volte uno si prende la briga di fare delle scelte senza calcolarle, e se non inciampi adesso inciampi al prossimo giro, però rivendichiamo anche il diritto di poter sbagliare, che è una cosa che fa parte della vita e che nella nostra società non è più concesso. Nella ricerca assoluta della perfezione di quei modelli a tutti i costi vincenti, la gente non esprime più se stessa perché è troppo pericoloso, è troppo poco calcolato, e quindi poi non funziona, o meglio funziona raramente, per pochi, per chi è più furbo o magari per chi è più intelligente. Noi forse no, e quindi rivendichiamo il diritto di poter sbagliare come una cosa che in maniera assolutamente naturale, come anche il dolore e l'infelicità, fa semplicemente parte della vita.

Voi patite molto il giudizio degli altri?
L: “Un incubo stupendo” è anche questo. Il nostro è un mestiere difficilissimo perché siamo sempre sottoposti al giudizio degli altri. Finché siamo qui al tavolo, puoi criticami fino a domani, tanto io sono qui, ti rispondo e siamo tranquilli. Invece siamo nell'epoca del giudizio continuativo, live h24, e a un certo punto diventa talmente insopportabile che fai lo step di disinteressartene. Io non leggo più un commento su Facebook o su Youtube, una recensione, faccio anche questa brutta cosa di non rispondere mai, perché altrimenti dovrei stare tutto il giorno a discutere con qualcuno che non è più quell'uno che sta davanti a te e ti guarda negli occhi, ma sono tutti. Quindi non è che soffro un giudizio in particolare o una critica che può fare solo bene. Si soffre, e io credo che sia un'ansia che hanno tutti gli artisti.

Quindi il vostro modo per superare questa cosa è ignorarlo?
L: Metabolizzarlo, che è diverso. Molti hanno per esempio capito che c'è della sincerità in quello che facciamo, che siamo rimasti gli stessi, anche se questa è una stronzata, perché si cresce, si cambia, è inevitabile. A me fanno ridere quelli che dicono “Non siete più quelli di una volta”. Siamo cresciuti, e meno male.



Come vi fa sentire quando vi dicono che non siete più quelli di una volta? Ve l'hanno detto per questo disco?
L: Per me è proprio un atto di presunzione. Fondamentalmente tu mi conosci tramite le mie canzoni.
M: Lo dicono sempre, a tutti. I Coldplay non sono più quelli di, Vasco Rossi non è più quello di...

Secondo voi è più un giudizio legato a una questione squisitamente musicale o è una questione di messaggio o meglio di come passa l'idea di autenticità del vostro progetto al pubblico?
L: Io credo che sia una cosa un po' più universale, cioè non è solo la canzone, solo il video, è tutto il concetto che fai passare. Magari il disco ti porta a dire che non scriveremo mai più una “Norman”, ma sono scelte. Anche la scelta dei singoli è stata pensata in un certo modo e l'abbiamo portata avanti pur sapendo che ci avrebbero tartassato.

Rispetto quindi alla questione del parere altrui, il vostro approccio per me è condivisibile, ma è anche inevitabile che con un disco, un pezzo, si crei confronto con altre persone all'infuori di chi lo scrive. Quindi avete un modo per equilibrare le due cose, cioè distinguere tra chi vi critica per attaccarvi e una critica costruttiva?
L: Abbiamo un metodo che è sicuramente il più sbagliato, ma è quello che più ci rappresenta da quando abbiamo cominciato, che è quello di fare la scelta più scomoda, più estrema sempre. In ogni disco ci sono sempre diverse tipologie di canzoni, per esempio in questo abbiamo detto ok, abbiamo cominciato con “Naufragando”? Tiriamo tutte e tre le ballate romanticone e vediamo che succede. Poi comunque in un modo o in un altro, il pubblico dev'essere curioso, sia a livello di critica positiva che negativa, di arrivare in fondo al disco, e questo è comunque un altro meccanismo promozionale. Si crea una struttura nella pubblicità e nella compravendita della musica che è un po' innaturale, un po' non-musicale. Per esempio io sono costretto a presentarti un disco con due/tre canzoni. Per un anno mi sono accoltellato lo stomaco per scriverne dieci, per presentare un concetto, una certa forma di libertà, e vieni giudicato per una sola canzone. È una follia, è come essere giudicato tutta la vita per una cosa sbagliata che ho fatto oggi, e restare per sempre quello cattivo. Però siamo nell'epoca dei singoli, molta gente ascolta un singolo quattromila volte e il disco zero, allora dice “Eh, non siete più quelli di una volta”. Ma cavolo, capisci dove sono piazzati quei singoli e perché sono state fatte determinate scelte, no? Però la cosa che poi ti fa smettere di preoccuparti del giudizio altrui è anche una cosa fortemente psicologica comune a tutti, cioè che un giudizio negativo ne vale diecimila positivi, tra quattordicimila persone che ti hanno detto bene, quello che ti dice che fai schifo ti rovina la giornata.



Ignorarli ti libera nella scrittura?
L: È un modo di essere più sinceri, nel senso che se ti disinteressi di quella roba riesci a scrivere come ti pare, se ti metti sempre in relazione con chi critica scrivi quello che vogliono loro, diventa il meccanismo televisivo che più o meno sai cosa devi fare e come devi lavorare per far funzionare una cosa. Scusa se mi dilungo ma è una cosa importante, ed è una cosa triste ma anche bella del rapporto col pubblico: se tu hai scritto cinquanta canzoni, per quel pubblico che ti segue, che è il pubblico che ti permette di essere vivo, le canzoni preferite sono realmente quello che tu sei, ovvero quello che rappresenti per loro. Io sarò sempre quello che si tira fuori il pisello, però lo dobbiamo accettare. Però è chiaro che tu attraverso di loro purtroppo o per fortuna riesci a capire chi sei, cosa rappresenti, cosa ha funzionato delle tue canzoni, della tua personalità. Però questo è un meccanismo pericolosissimo, devi stare attento a non andare sempre dove vogliono loro altrimenti non cresci mai, fai tutti i dischi uguali, e artisticamente questo magari funziona di più a livello di mercato ma non ti dà una soddisfazione. Io credo che visto da fuori quello del musicista sia un lavoro molto bello, molto semplice, si scopa, si beve, si va in tour, ci si diverte, ma da dentro è un lavoro ultrastressante, e se fai una cosa che non ti piace, a questi livelli di stress... poi la gente si spara in bocca.

Torniamo alle canzoni: mi parlate di “Il mio corpo”, che sembra quasi un inno femminista?
L: È un inno a tutte le libertà, si fa subito ad avvicinarlo al movimento femminista ma è una rivendicazione di tutte le libertà, di utilizzare il proprio corpo come meglio si crede, anche le proprie perversioni, la sessualità. Le scelte che faccio col corpo sono anche quelle della mia mente, quello che siamo lo rappresentiamo con i nostri gesti. Rivendichiamo anche l'idea di non essere perfetti, finalmente. Non vorrei dire banalità, ma l'imperfezione è una rivendicazione di libertà in senso assoluto: soprattutto per chi come noi non ha nessun riferimento metafisico, ci resta solo il corpo e questa vita.

“Una canzone d'odio” è l'altra faccia della medaglia de “Il tempo delle cose inutili”?
L: Sì, viaggiano su quel concetto dell'amore o potenziale amore che si trasforma in odio proprio per l'inutilità dei gesti dell'altra persona. Dato che siamo nel tempo delle cose inutili è difficile innamorarsi di una persona o di una certa tipologia di persone che sono tanto legate a delle cose estremamente superficiali e poco a cose più profonde.
M: Tipo quando vai a cena e stanno tutti col cellulare in mano...
L: È dura. Siamo cambiati, quelli della nostra età hanno vissuto questo cambiamento allucinante, perché fino alla fine delle superiori non si usavano questi mezzi. Sono cambiate le tempistiche, la messaggistica è continuativa, si parla continuamente di niente, che però non è un modo di prendersela comoda, è un modo di riempire, riempire, fare tutto di fretta... questo disco come tutti gli altri nostri dischi è anche un elogio della lentezza, della tranquillità.
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Chi è “Marco il pazzo”? Esiste una storia dietro la canzone? Il fatto che la sua storia si interrompa bruscamente con l'arrivo delle diviste è un messaggio di resa?
L: Sì, la resa è molto presente, è un altro concetto del disco. Il fatto di chiamarlo Marco è una dedica al mio migliore amico, il qui presente Marco, produttore del disco, mio fratello sin dall'asilo...
M: e giustamente il pazzo (ride)...
L: Pazzo per me è un complimento. Comunque sì, è una resa. Ho in mente di scrivere per il futuro un brano dal titolo “La merda vince sempre”. Parlerà di omologazione, di meccanismo capitalistico che viene a vincere, del diverso che pian piano viene emarginato perché da fastidio. Anche le rivoluzioni sono finite, sono tornati al potere sempre gli stessi. Per questo mi piace ripetere che il meccanismo rivoluzionario non è politico ma poetico, la rivoluzione deve tornare per fare in modo di ribadire che il sentimento rivoluzionario è in ognuno di noi. Avevamo ragione ma abbiamo perso sempre e comunque, è tornato sempre quel meccanismo che è comodo a tutti, il meccanismo della compravendita, della vittoria, della scalata sociale. Quindi c'è una resa storica, abbiamo sempre perso, però volevamo dire che il rivoluzionario rimane sempre e per sempre, da morto purtroppo, ma resta sempre nel cuore di tutti. È il nostro santo, è quello che noi preghiamo, e davanti al quale ci commuoviamo. Poi fattivamente se guardiamo il mondo com'è oggi possiamo dire che i rivoluzionari hanno perso, ma il loro messaggio ci fa emozionare, ed è quello su cui si basa la poesia. E per me l'opposizione non deve mai andare al potere, perché alla fine l'opposizione diventa potere e il potere macchia tutti, da dovunque lo guardi. Di conseguenza il meccanismo rivoluzionario deve essere perdente, perché è poetico, se no cosa diventa se vince? Questa aspirazione di libertà è in tutti noi e deve vincere la voglia di libertà, e gli stronzi devono stare là per ricordarci che siamo liberi, se no siamo noi gli stronzi.

Siccome siete una band rock, è d'obbligo chiedervi la più grossa cazzata fatta in tour.
L: Primo Maggio ti sembra una cazzata sufficiente?

A posteriori vi siete un po' pentiti?
L: No, se vogliamo tirare le somme ci ha fatto più male che bene, però è stato un atto di libertà assoluta che culturalmente non succedeva in Italia non so da quanto, non so se sia mai successo dal '68 in poi. È stata una riappropriazione di un senso di libertà puro, ed è andata poi a scoperchiare tutte le ipocrisie dell'evento. Abbiamo esagerato? Dobbiamo esagerare sempre.

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L'articolo Management del Dolore Post-Operatorio - I rivoluzionari hanno perso, viva la rivoluzione! di Chiara Longo è apparso su Rockit.it il 2017-05-02 17:16:00

Tag: rock

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