Viva la gioventù trasteverina: l’amore ai tempi di Carl Brave x Franco 126

Dallo scrivere in romanaccio fino al nuovo futuro del rap in Italia. E poi le ragazze, la voglia di andare via o le birrette a piazza San Cosimato (Trastevere). Abbiamo intervistato Carl Brave e Franco 126.


Piazza San Cosimato, a Trastevere, è la casa base di una delle gang più belle della scena rap italiana, la 126. Tra i suoi nomi più interessanti ci sono sicuramente Carl Brave x Franco 126: quelli delle polaroid e dei testi romantici, quelli delle Peroni al posto dell'aperitivo e delle ragazze divise per quartieri, ma soprattutto quelli che, dallo scorso ottobre ad oggi - un video alla volta - si sono costruiti un pubblico che va ben oltre Roma e dintorni. Loro dicono che la musica andrà sempre più in quella direzione, ché il dialetto e le espressioni popolari sono importanti e se canti con le parole che usi tutti i giorni le tue canzoni sono più vere; come dargli torto. Fiori cresciuti in mezzo ai sampietrini. In occasione della loro partecipazione al MI AMI, la nostra intervista. 

Partiamo dall'inizio, come vi siete conosciuti?
Carl Brave: Ci conosciamo da tantissimo tempo. Quando avevo iniziato a rappare avevo un altro gruppo, i Molto Peggio, le strumentali erano prodotte da Drone e Ketama e ci hanno fatto conoscere Franco, Pretty Solero, ASP e tutto il resto della ciurma 126.
Franco 126: Diciamo che, prima ancora di fare musica insieme, siamo diventati amici. Tutta la 126 nasce come un gruppo di amici che poi ha intrapreso anche un percorso musicale. È importante che ci sia un legame di questo tipo, dà un colore differente ai pezzi. Per me, se due persone hanno un rapporto reale, i pezzi escono meglio e si riesce a fare un prodotto veramente valido.

Adesso l’idea della crew sembra essere tornata di moda, che ne pensate?
C: Sì, non è più la crew ma è la gang.

Mi domando se le gang rimarranno intatte nel caso - più che plausibile - che uno del gruppo diventi più famoso degli altri, nella 126 che succederebbe?
C: Mi posso grattare? (ride)
F: Dal momento che oggi tutti fanno le gang, mi rendo conto che anche la nostra possa sembrare meno autentica. Non ti so dire se è solo una moda o se è solamente un segno dei tempi che stiamo vivendo, ma ti assicuro che noi eravamo così già da prima, prima della trap, prima che i gruppi usassero l’amicizia come se fosse una bandiera da sfoggiare, prima di tutto. Io penso che rimarremo amici per sempre.

Sempre qua a piazza San Cosimato?
C: Sempre qua.

E che fate?
F: Che famo, bevemo le birre (ride)

Pochi giorni fa Pretty Solero ha scritto in un post che “Sempre in 2” può essere vista come il manifesto della 126, è davvero così?
C: Le nostre canzoni hanno diverse chiavi di lettura. È anche la nostra forza, ci vedi cosa ci vuoi vedere. “Sempre in 2” è una canzone d’amore, però tra le righe ci leggi anche un grande messaggio di fratellanza. Prendi la frase “fiori cresciuti in mezzo ai sampietrini”, quella è una cosa molto fraterna.

È banale chiedervelo, ma come è nata la cosa delle polaroid?
C: I testi proseguono per immagini, ogni barra è una fotografia di un momento preciso. Dal momento che non avevamo nessuno che ci curasse le grafiche dei video ci è venuta in mente l’idea di farci scattare delle polaroid.

Prenotare un’enjoy solo per fare la foto forse è un po’ troppo però.
F: Già, quella è stata una bella paraculata (ridono).

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Nel vostro procedere per immagini spesso capitano frasi che non c’entrano nulla tra di loro, è voluto?
F: È stato più punto di arrivo. Dal momento che hai a che fare con le parole e con un vocabolario abbastanza preciso nella tua testa, non sempre è facile spiegare concetti lineari. Mi ci spacco la testa sui testi, mi faccio tutta una mappatura di cose e concetti che voglio usare e poi provo a collegarli. Tieni presente che stiamo parlando di rap, quindi si cerca anche di fare la rima giusta, di usare la parola giusta…. Anche tu lavori così, no?
C: Dipende, a volte. Lui è sicuramente più cervellotico, io sono più istintivo.

Senza offesa ma, tolti rari casi, il flow è sempre uguale.
C: Dipende sai? Su “Noccioline” trovi delle variazioni, anche in “Tararì Tararà”. Penso sia dovuto al tempo, i bpm sono molto simili tra di loro, troppe acrobazie ci starebbero male. Abbiamo puntato più sul trovare belle melodie piuttosto che sull'avere un flow clamoroso.
F: Volevamo concentrarci su un tipo di comunicazione più semplice e le cose più serie, di cuore, si perdono se le rappi con mille pause in mezzo.

Se paragonati agli altri della 126 voi siete sicuramente i bravi ragazzi da presentare ai genitori, sbaglio?
C: Proprio dei principini. (ride)

Le canzoni sono molto romantiche, dai.
C: Lo siamo forse più nei testi che nella vita reale.
F: Chiaramente nei testi c’è molta emotività, cerchiamo di tirare fuori un lato più sensibile e romantico che, magari, se ci incontrassi per strada non noteresti.

La storia andata male che ci avete messo di più a dimenticare?
C: Io ho ci messo anni a dimenticarmi di una ragazza.
F: Sai come si dice, siamo ancora là.

Adesso che siete famosi andrà meglio, no?
F: Va sempre male (ride). E poi che vuol dire famosi? Dipende sempre da come te la vivi tu, non è che se le pischelle ti fermano e ti chiedono una foto insieme a te cambia qualcosa. Il tuo approccio rimane sempre lo stesso.

 


Dopo le ragazze, l’altro tema ricorrente è il desiderio di andar via, ne vogliamo parlare?
C: Abbiamo provato a cercare fortuna all’estero - io Berlino, lui Londra - ma non è andata bene. Amiamo Trastevere, è la nostra casa, ma ti viene comunque la curiosità di vedere cosa c’è fuori. 
F: C’è un po’ il mito di andare fuori e vedere come stanno le cose. È come se fosse un passaggio obbligato, il nuovo servizio militare, ti fai un anno all’estero e poi torni a casa. Sicuramente Roma non offre molte possibilità, io facevo davvero due lavori in nero come dico in “Lucky Strike”, poi sono finito a riparare cellulari. È un problema, diciamo, generazionale, e coinvolge tutte le città, ma qui le opportunità sono ancora meno. È una città che ti tarpa le ali e ti ghettizza nel tuo quartiere.

Che sembra un po’ il discorso che emerge in “Enjoy”, no?
C: In realtà “Enjoy” è una canzone d’amore, forse è il pezzo più romantico del disco ma, sì, parla anche delle differenze che ci possono essere tra quartiere e quartiere. Probabilmente chi non conosce Roma fa difficoltà a capirlo, ma una ragazza del Fleming è davvero diversa da una di Prati o di Tor Bella Monaca. È come se ci fossero tante regioni diverse, pur nella nella stessa città.

Vi siete mai posti il problema che la gente non conosca i luoghi delle canzoni? Ad esempio, il Momart che citi in “Tararì tararà” è proprio dietro a casa mia, mi chiedo come possa uno di Milano capire il pezzo fino in fondo.
F: In realtà il Momart c’è anche a Milano, non ci interessa il posto in sé ma trasmettere l’idea di un certo tipo di locale fighetto. Nelle nostre canzoni ci sono elementi specifici della nostra città, è chiaro, ma anche altre citazioni che possono capire tutti. Lo zozzone lo trovi ovunque, per dire.

Tempo fa Noyz Narcos ha detto che la cosa più bella delle ultime generazioni di rapper è che sono tornati a raccontare cosa gli stava attorno, mentre la sua non faceva altro che parlare di flow e di poco altro. Vi ci ritrovate?
F: Certamente, è bello parlare del tuo quartiere, caratterizza molto cosa stai facendo. Perché è vero che Roma ti ghettizza ma di contro crea, artisticamente parlando, delle realtà molto diverse, tutte con personalità e un carisma preciso.

Forse la cosa che manca adesso è quella scintilla che vedi ancora negli occhi quando oggi uno della vecchia guardia - Fibra in primis - parla di hip hop, voi che ne pensate?
C: Posso dirti la mia? È molto meglio adesso: il rap che parla di rap non mi piace proprio.
F: Io mi sono visto tutti i documentari che sono usciti sull’hip hop. È stato un momento culturale fondamentale, era una filosofia divisa in quattro discipline e ovviamente la passione per queste cose va rispettata. Quando tutto questo è arrivato in Italia aveva un senso specifico e preciso, ma ormai si è già detto tutto. È anche importante andare avanti, no?

Tutta la 126 ha un rapporto abbastanza chiaro nei confronti dei soldi ed è piuttosto antitetico rispetto alla maggioranza dei rapper italiani, ne vogliamo parlare?
C: Non ci piace fare gli sboroni, tutto qui. Non siamo i tipi che sfoggiano la loro ricchezza. Io vorrei farei i soldi con la musica ma per andare a magnà fuori. Mi interessa farmi un’aragosta a Bali, mica comprarmi il macchinone.
F: Io andrei al miglior susharo di Roma. Pesce crudo, mi tratto bene.

“Pellaria”, a suo modo, parla un po’ di tutto questo?
C: Parla più della nostra vita, dei giorni di spensieratezza, dell’estate…
F: …anche quella è una storia d’amore ma parla anche di come siamo fatti. Siamo ritardatari, siamo pure arrivati tardi a quest’intervista.
C: Bello, parla per te, io ero qui puntuale (ride).

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I piaceri della vita secondo Carl Brave x Franco 126 quali sono?
C: Magnà, beve e scopà (scoppiano a ridere).

Che romanticoni, anche Ketama avrebbe risposto così?
F: Uguale, penso ti avrebbe detto le stesse cose (ridono).

Ci sono delle zone di Roma che vi mettono in pace con il mondo?
F: Esiste tutta una serie di luoghi sacri per noi, a partire dai 126 scalini di via Dandolo, qua dietro, poi piazza San Callisto, ma anche il garage in via Casini o il suo studio.

Parliamo un po’ di produzione: le strumentali si assomigliano molto tra di loro, non avete paura che chi vi ascolta si annoi?
C: Quella delle produzioni è stata una scelta forte e precisa, sia perché abbiamo usato strumenti che oggi nel rap non vanno per la maggiore, come il sax o il violoncello, ma anche per la decisione di far nascere tutto in studio insieme ai musicisti.
F: C’è il suo gusto nello scegliere i campioni, ma anche il timbro e gli accordi di Massimiliano lo-fi alla chitarra o il suono del sax di Adalberto, il padre di Ketama. È normale che tu senta un sound coeso in tutte le tracce.

Primo disco rap comprato?
C: “Big Willie Style”, il disco di Will Smith con dentro “Miami”, l’avevo comprato tarocco in spiaggia. Poi Cor Veleno, Colle der Fomento, Brokenspeakers
F …a me piaceva pure Benetti e, ovviamente, Primo Brown. Il mio primo disco comprato mi pare sia stato “Nellyville” di Nelly, ma la canzone a cui devo davvero tutto è “Deadly Combination” degli I.T.P. Mi ricordo che il giorno in cui il mio amico me l’ha passata l’avrò sentita quaranta volte di seguito. Non ci potevo credere che esistesse in Italia una cosa così, erano avanti anni luce rispetto al resto. Mettevano inglese e italiano insieme, magari non capivi nemmeno cosa dicevano ma c’era la magia. Ancora oggi quel disco lo conosco tutto a memoria.

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Negli ultimi anni abbiamo visto un ritorno in auge del dialetto, soprattutto in tv e al cinema - prendete ad esempio il successo della serie di “Gomorra” o di “Lo chiamavano Jeeg Robot” - ma anche nella musica. Voi che ne pensate?
C: È vero, funziona e funzionerà sempre di più. La musica prenderà questa direzione, non ci sarà più la necessità di un italiano perfetto. La tua musica è più vera se scegli di cantare con le parole che usi tutti i giorni.
F: Con i social network è tutto più facile, hai più strumenti per raccontare cosa vuoi dire. Anche se non sai cosa voglia dire “ancora che stamo pe' l’aria”, poi ci arrivi da solo, siamo pure su Genius.

Tra cinque anni dove sarete?
C: In uno stadio.
F: Arriveremo in cima, sul tetto del mondo.

 

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L'articolo Viva la gioventù trasteverina: l’amore ai tempi di Carl Brave x Franco 126 di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-05-23 12:42:00

Tag: roma

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