Willie Peyote - Chiedimi di Foster Wallace

"A fare in culo le icone e i mostri sacri, non è vilipendio dirvi che ormai siete fuori tempo". Willie Peyote si racconta

Da quando l'avevamo segnalato nello "Spinga signora spinga", lo speciale di fine anno dedicato alle giovani promesse della musica italiana, possiamo dire di non esserci sbagliati: dopo l'ottimo "Educazione sabauda" Willie Peyote è tornato con un nuovo album ricchissimo dal titolo programmatico, "Sindrome di Tôret". Ce lo siamo fatti raccontare direttamente da lui.

Visto che questa è la tua prima intervista per Rockit, facciamo prima le presentazioni. Anche se la maggior parte dei tuoi fan lo sa già, perché hai scelto di chiamarti così?
Mi chiamo Guglielmo, quindi il passaggio da Guglielmo a William ed infine a Willie era abbastanza scontato. Io ho semplicemente preso il famoso personaggio della Warner e gli ho aggiunto della droga.

Quali sono state le tue esperienze musicali prima di approdare al rap?
Mio padre era musicista e fin da piccolo l’ho seguito nei concerti. Comunque nella mia famiglia suonano tutti uno strumento e, quasi per non sentirmi escluso, ho iniziato a suonare il basso. Facevo parte di un gruppo punk. Verso la fine delle superiori ho incontrato il mio primo beat maker e ho cominciato a rappare, avevo circa 19 anni. Ma prima di diventare il Willie Peyote attuale, se così si può dire, ho militato in un gruppo post-rock dove suonavo la batteria. Facevamo qualcosa di accostabile ai Verdena.

Tuo padre ha preso parte alle registrazioni del disco?
No, ma me lo sono già portato sul palco. Magari in qualche bella data torinese ricapiterà.

E nella tua maturazione stilistica è servito più militare in altri gruppi, suonare degli strumenti o si sono semplicemente rivelati più determinati i tuoi gusti?
No, credo sarei pervenuto comunque a qualcosa di molto simile anche se non avessi mai suonato uno strumento. Ma suonare certamente ha nutrito la mia visione complessiva della musica. Suonare il basso in una band, per quanto amatoriale, prima di cominciare a fare musica in una certa maniera si è rivelato determinante nella mia formazione sul palco. E quando ormai avevo iniziato a fare rap, tornare in un gruppo a suonare la batteria mi ha sicuramente aperto nuovi “orizzonti". Il batterista si pone dietro tutti e ha una visione diversa del live e del pubblico.

Quali sono stati gli album più importanti della tua vita?
Fino a che un mio amico non mi passò un numero di Aelle e due album, “950” di Fritz da Cat e “Blackout!” di Red & Meth, per me l’hip hop consisteva fondamentalmente negli Articolo 31 e nei Sottotono. Quando mi si aprirono le porte del rap americano, il mio rapporto con questo genere cambiò notevolmente: i miei primi abbozzi di scrittura furono delle traduzioni più o meno violente delle canzoni di Eminem. Ma il primo disco che mi ha fottuto veramente la testa è stato “Turbe Giovanili” di Fabri Fibra: per 4 mesi non ho ascoltato nient’altro. Fibra rimane un genio, ma i suoi primi lavori sono ancora quelli che mi colpiscono di più. Poi ovviamente i miei ascolti musicali non si limitano al rap, ho sempre ascoltato molto indie-rock, “Whatever People say I am, that’s what i’m not" degli Arctic Monkeys è uno dei miei album preferiti. Damon Albarn, in tutta la sua carriera, è un artista che ho sempre rispettato parecchio e, da buon sabaudo, “Subsonica”, il primo disco omonimo della band di Torino.

"La coprolalia (l'espressione involontaria di parole o frasi socialmente censurabili o tabù) è il sintomo più pubblicizzato della sindrome di Tourette”. La sindrome di Tourette è una metafora della tua musica/del tuo ultimo album? Perché hai scelto di modificarne così il nome?
Certo, la sindrome è stata utilizzata come metafora per farne un discorso sulla liberta d’espressione, sull’incontinenza verbale, sull’incapacità di stare zitti. Ho utilizzato questa immagine perché appunto l’aspetto più pubblicizzato della sindrome di Tourette è l’impossibilità di trattenersi. Il gioco di parole invece nasce da una convergenza con il torinese: i Toret sono le fontanelle con il rubinetto a forma di toro sparse per la città e in dialetto si pronunciavano esattamente nella stessa maniera. 

In un’intervista risalente al ultimo tour, hai detto che “Educazione Sabauda” non fosse un concept, ma che fosse facile scambiarlo per tale in quanto circoscritto in un lasso di tempo ben determinato. Invece “Sindrome di Toret” è un concept?
Sicuramente, nella mia testa, “Sindrome di Toret” si avvicina di più a un ideale di concept. Il fil rouge è la libertà d’espressione in tutti i suoi eccessi e nella sua incapacità di gestirla. Sia nostra che degli altri. È un concept perché come la copertina rimanda a un concetto di circolarità, si inizia da “Avanvera”, che rappresenta il “me” contro tutti. Poi però, andando avanti nel disco, l’io e il te si fondono sempre più nel noi. In fondo ci troviamo tutti nella stessa situazione. C’è anche dell’empatia.

Infatti, potrei anche sbagliarmi, però mi è sembrato il tuo album più pacato. Magari è semplicemente un’opinione dovuta al tuo allontanamento dagli stilemi hip-hop classici.
Un po’ si chiama anche vecchiaia. Però non mi è mai piaciuto sparare sentenze, quantomeno gratuitamente. Anche se, nella musica e in particolar modo del rap, in parte lo si fa sempre. Sicuramente è un album più maturo, ma è una naturale conseguenza del mio essere maturato come essere umano. Comunque sì, c’è stata una consapevole ricerca di alleggerimento dei toni. In qualche modo una comunicazione violenta porta sempre a una risposta violenta. È una dinamica che non mi garba troppo.

Ma i contenuti rimangano sempre. Si può parlare della tua attitudine hardcore declinata in una maniera diversa?
Come dico nella prima canzone del disco” Avanvera”, “faccio un disco che è hardcore anche se c’ha un’altra forma\ per arrivare a tua nonna perché la D’Urso è una stronza”. Alla fine hardcore non è come dici le cose, ma le cose che dici, il contenuto. Altrimenti basterebbe avere il vocione e cantare sempre incazzati per sembrare hardcore.

Fra le tante etichette che ti sono state affibbiate ce n’è una che non è mai stata utilizzata: Rapper musicista. Oltre a suonare spesso il basso nei tuoi live hai anche un approccio al rap completamente diverso dalla maggior parte dei tuoi colleghi. Cosa vuol dire comporre un disco rap suonando il rap?
Musicista è un parolone e non sono l’unico a farlo né nel mondo né in Italia. Tormento ha fatto un album interamente suonato almeno 12 anni prima del mio. Però certamente il lavoro di composizione è mutato molto nel corso dei miei dischi: prima era più un discorso di assemblaggio tra i miei testi e i beat, ora le canzoni maturano all’interno di un processo unitario. Fare rap con una band che ti supporta e comporre canzoni rap con un team di musicisti comunque sono due cose ben diverse.

Oggi i generi musicali si diramano in centinaia di sottocategorie. È un discorso ampio con i suoi pro ed i suoi contro. Invece di continuare a riferirsi a Willie Peyote come “un hipster che fa rap/un rapper che fa l’hipster” non sarebbe il caso di cominciare ad includere artisti come te, Dutch, Frah Quintale, Coez in una nuova categoria che si potrebbe denominare “indie- rap” (o cantautorap, alla Dargen), ponendo fine alla questione?
Sono un po’ come Balto: né cane né lupo. A me indie-rap è una definizione che va benissimo. C’è anche chi dice che non sia un rapper, ma sti cazzi. A me le etichette vanno tutte bene perché, dal momento in cui tu provi a etichettarmi, vuol dire che qualcosa della mia musica ti è arrivato. In fondo nel mondo della musica puoi assimilare chiunque a un’altra categoria. Il rap è un modo di scrivere e di parlare che ha un suo valore a prescindere dalla base: anche Cristicchi e Silvestri in alcune loro canzoni hanno rappato. Il rap è anche un modo di scrivere e si presta un po’ a tutto, dopo di che, se gli devi proprio scegliere un contorno, Caparezza è più rap di me ma, in realtà, per svariati motivi lo è di meno. Ma se Coez o Frah Quintale la smettessero di rappare sarebbero comunque più rap di Caparezza, punto. Però sti cazzi, può insegnare a rappare ad un sacco di rapper.

Ma quindi, se proprio dovessimo trovare un’unica etichetta, la più calzante, ti piacerebbe se la tua musica fosse definita “crossover”?
Sì, se dovessimo sceglierne una sarebbe sicuramente la più giusta. Poi, ovviamente, non crossover come si intendeva negli anni '90 (come i Rage Againts the Machine) ma forse è la definizione che più si avvicina alla mia concezione musicale.

Riprendendo una frase di “Vilipendio”, “tocca farla semplice, serve all’ascoltatore. Se è depresso e canta male di fisso è cantautore”.
È un'altra categoria a cui mi associano per luoghi comuni.

I cantautori sono storicamente associati alla sinistra. Tu non hai mai espresso chiaramente la tua posizione, ma sei diventato uno degli idoli della pagina Facebook “Hipster Democratici”.
Ma li conosco, sono di Torino! Li seguo molto volentieri, come “Socialisti Gaudenti”. Loro comunque hanno posto un’analisi interessante sulle categorie delle pagine di destra e di sinistra. Cioè, “Sesso, droga e pastorizia” è proprio una pagina di destra per tanti aspetti, reazionaria, populista. Poi chi dice che la destra e la sinistra non esistono generalmente è di destra. Comunque mi piace molto come sdrammatizzino anche sulla loro posizione, in questo li trovo molto vicino a me.

Nel pezzo “Portapalazzo” proponi un parallelismo tra gli esami del sangue, che dovresti andare a ritirare, e il voto ai seggi, che dovresti andare a deporre. Come è nata questa analogia?
È una canzone che parla di politica, anzi, è una canzone che parla del Movimento 5 stelle. È il parallelismo tra le malattie veneree, il papilloma, e una certa fauna politica. Quel pezzo l’ho “composto” proprio passeggiando per Porta Palazzo mentre tornavo a casa. Mi ero imbattuto nel manifesto elettorale di una mia ex compagna universitaria e ho scritto il testo camminando. In realtà lei non si stava nemmeno candidando per il M5S, ma la sua foto mi ispirò in un’analisi più seria su un certo tipo di approccio alla politica dozzinale che è tipico di questo partito. “Il vostro amore è poco più di una sborrata” vuol dire proprio questo, che non c’è amore verso la politica, che il bisogno di esprimere la vostra indignazione non è nient’altro che una necessità fisiologica. A furia di dire che la politica è una merda nessuno dà più peso alla politica e i politici nuovi finiscono per far peggio di quelli vecchi. Il M5S è riuscito nell’ardua impresa di farmi rimpiangere Berlusconi: almeno in quel periodo sapevi con chi identificare il male. Pensa che, proprio mentre scrivevo questo brano, la Appendino vinceva le elezioni. Devo smetterla di scrivere canzoni, porto sfortuna.

Ho intervistato diversi rapper torinesi, ma ormai si sono tutti trasferiti a Milano. Torino è una città cui io sono particolarmente legato e, in questo momento, tu forse ne sei l’esponente maggiore.
Ma nessuno di loro si sente veramente torinese, cioè, non si sente torinese quanto me. Nessuno ha fatto del proprio essere sabaudo una ragione. Ensi mi piace, il suo ultimo album è fortissimo, ma è di Alpignano e preferiva parlare del suo quartiere che della città. A Shade invece non gliene fotterebbe proprio un cazzo se non fosse per la Juve. Quando porto l’analogia con Totti perché il mio è anche un discorso più profondo, di cultura famigliare, di tifoseria…

Canzoni come “1312”, che è stata scritta nel 2014 (probabilmente a causa di altri avvenimenti), suonano ancora attuali dopo i recenti fatti di Piazza San Carlo e degli sgomberi dei dehors.
Suonerà sempre attuale perché gli sbirri continueranno a fare gli sbirri e a manganellare la gente. “Uno-tre-uno-due” sta per ACAB. Forse è stata scritta persino prima del 2014, ma queste situazioni continueranno a protrarsi anche dopo Barcellona e gli sgomberi in Via Giulia a Torino, così come nessuno continuerà a pagare per la morte di Aldovrandi. Questa situazione continuerà all’infinito e quindi sarà sempre attuale, così come l’antifascismo che è innanzitutto un valore. Come “il tamarro è sempre in voga perché non è di moda mai”.

Invece quali sono le caratteristiche di una “Donna Bisestile”?
Sai, si usa dire “anno bisesto anno funesto”. Poi l’anno bisestile capita ogni 4 anni, quindi una cosa inusuale. Inusuale, ma con l’idea di poter essere pericolosa. Ecco, quel tipo di donna lì.

E “Giusto la metà di me”?
Semplicemente per tutta una serie di paranoie, di mostri di cui sono vittima, quando mi esprimo o quando scrivo esce solo una metà di me, ma spesso potrei dare molto di più.

Quando dici “che poi sai non discrimino, andrei pure a Sanremo”: vai in questa direzione?
Certo. Perché, a prescindere, suonare con un'orchestra vera è un’esperienza musicale incredibile. Suonare con un’orchestra in diretta nazionale davanti a milioni di persone invece è una cosa difficilissima. Se ci riesci, comunque, vuol dire che ci sai fare. Non andarci vorrebbe dire non avere le palle per mettersi alla prova.

“A fare in culo le icone e i mostri sacri, non è vilipendio dirvi che ormai siete fuori tempo nel senso anacronistici, non per i BPM. Musica per nostalgici, Modena City Ramblers”.  Come fai a suonare così moderno pur avendo un gusto prettamente old school?
Non ti dirò a chi mi riferisco, però secondo me ci puoi arrivare. Sai, i soliti nostalgici dell’hip-hop… Detto ciò, noi abbiamo la “fortuna” di considerare la musica degli ultimi 50 anni. La musica in realtà ha una storia secolare, quindi risulterà tutto attuale. Poi conta cosa ci metti dentro ovviamente. Miles Davis suonerà sempre attuale, ma se nel 2017 mi riproponi una canzone uguale a Miles Davis non sai stare al passo con i tempi. “Giusto la metà di me”, ad esempio, è un pezzo che ha un’ispirazione old, ma che è stato aggiornato con degli strumenti elettronici, con dei layer di batteria. Aggiornare non vuol dire dimenticarsi, ma il senso dell’arte è nell’evoluzione. È qui che sta la differenza tra gli artisti e gli operai dell’arte.

In “Metti che domani” dici: “costretti a esprimere sempre un’opinione, non fai in tempo ad averne una, aspettiamo un blackout per tornare a guardare la luna \ e metti che domani ci svegliamo opinionisti, apriamo bocca per fare aria ventilatori professionisti”. Sembra trattare gli stessi temi del primo singolo estratto dagli Era Serenase “Letargo”, ovvero la necessità, la mania amplificatasi attraverso i social, di dover esprimere la propria opinione su tutto, che come hai già detto, sta un po’ alla base di quest’album. Come è nata la collaborazione con loro? 
Anche Alberto Angela lo citiamo entrambi. Ma con loro siamo amici, ci frequentiamo tanto e abbiamo tante cose in comune come persone, quindi poi capita che nelle canzoni finiscano concetti simili. Sere è stata la regista di “Ottima Scusa” e anche di “Amore povero” di Dutch Nazari, insomma, ancora prima del loro debutto musicale lavoravamo già molto insieme.

A parte Dutch, che è tuo amico e ormai si è trasferito a Torino (così come Sick et Simpliciter), nel tuo album sono presenti anche Jolly Mare e Roy Paci. Come sono nate queste collaborazioni?
Roy, quando ci siamo conosciuti, abbiamo scoperto entrambi di nutrire stima reciproca, sono così finito a registrare nel suo studio. Lo studio Posada Negro ci piaceva molto appunto perché ci piaceva molto il disco di Jolly Mare e quindi poi chiedemmo a Roy di coadiuvare. Ma avevo già collaborato anche con Godblesscomputer, mi piace la musica elettronica.

Ti piace anche Donega?
Mi piace tantissimo Donega, ci sono stato. C’è veramente un rettilineo, un tabacchino, un benzinaio e basta. Questa è Donega. La chiesa è su a Neirone.

Avrei voluto chiederti di Culicchia, nichilismo e Bukowski, ma credo che il nostro tempo sia giunto al termine.
Culicchia l’ho letto, “Torino è casa mia” mi ha ispirato tantissimo e da “Bruci la città” prende nome una mia canzone. Ma ormai ho smesso di citare Bukowski, è un autore abusato, chiedimi di Foster Wallace

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L'articolo Willie Peyote - Chiedimi di Foster Wallace di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2017-10-10 11:26:00

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