Meg - Essere imperfetti è un atto rivoluzionario

Meg ha da poco pubblicato il primo disco dal vivo della sua carriera, Concerto Imperfetto: l'abbiamo intervistata

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Il 29 Settembre è uscito l’ultimo disco di Meg, "Concerto imPerfetto". Si tratta di un album dei suoi migliori successi in versione live, per fotografare quel momento in cui la missione del musicista può dirsi davvero completa. L’abbiamo incontrata a Milano e ne abbiamo parlato con lei.

Ciao Meg, è da un po’ che non fai due chiacchiere con noi. Se non ricordo male, l’ultima volta risale a diversi anni fa, con l’uscita di “Psychodelice” e poi dell’album “Imperfezione”. Adesso è arrivato un disco dei tuoi migliori successi in versione live. Perché hai scelto di fare un album dal vivo?
Perché i miei fan me lo stavano chiedendo da tanto tempo e ho voluto accontentarli. Il mio pubblico, da sempre attento a quello che faccio, ha mostrato di apprezzare la versione live di alcuni pezzi presentati ai concerti, chiedendomi di poterli ascoltare nuovamente. Questo perché mi piace cambiare abito alle canzoni nei miei tour. A dire il vero sono sempre stata restia all’idea di pubblicare un live dato che, una volta inciso, un concerto non è più “live” e la magia del qui ed ora svanisce. Tuttavia ho ancora nitido il ricordo di me ragazzina quando andavo, dopo la scuola, per negozi di dischi. Esaminavo con attenzione i bootleg dei live, o i picture disc dei Police, degli U2, dei Beatles, ascoltandoli poi, famelica, alla ricerca dell’errore dal vivo, dell’imperfezione nell’esecuzione che rende l’artista più vicino al suo pubblico, più umano se vuoi. Alla fine mi sono convinta. Dopo anni di attività ho pensato che fosse arrivato il momento.

Fin dai titoli, la parola "imperfezione" è il centro semantico delle tue ultime produzioni. Cosa significa per Meg l’imperfezione?
L’imperfezione è un concetto su cui mi sono soffermata tanto negli ultimi anni. Mi sono resa conto che individuare i propri difetti ed errori è importantissimo. Oggi l’imperfezione per me è un atto rivoluzionario. In un’epoca in cui bisogna essere perfetti a tutti i costi, è un modo per affermare se stessi e la propria unicità. Recentemente mi è venuta in mente questo: quando abbracci l’imperfezione con positività e non in modo autopunitivo, finalmente la leggerezza dell’essere non è più insostenibile. Ecco perché la felicità per me coincide con l’imperfezione.

Il live è un’esperienza di intimità, un incontro ravvicinato e di contatto tra l’artista e il suo pubblico, che è anche omaggio di condivisione e scambio reciproco. Dev’essere emozionante, immagino…
L’emozione è l’unica cosa per cui valga la pena di fare questo lavoro.

Quindi credi possa rappresentare il momento più significativo della tua professione?
Il più rilevante non credo, perché io sono una che ama moltissimo lavorare in studio. Addirittura, a volte, preferisco il momento della produzione, della solitudine creativa che mi consente di elaborare e costruire; il tempo nel quale, dopo infinite riflessioni, arrivo ad un’idea. Comporre, arrangiare i pezzi, per me è ugualmente magico. Il momento del live invece è l’opposto ed io mi sento ogni volta fragile e insicura. Questo perché ciò che sta accadendo è in antitesi con il mio carattere riservato e timido. Vorrei poter fuggire, nascondermi. Eppure nella vita non sono una che si nasconde, anzi affronto le sfide, ma il palco mi terrorizza. Poi, una volta superato il confine tra il dietro le quinte e il palcoscenico, è tutta un’altra musica. È come se varcassi una porta, pronta a condurmi in un’altra dimensione.

Dal palcoscenico il mondo si vede in una prospettiva diversa?
Direi proprio di sì, perché è un momento speciale, un momento di profonda gratificazione. Il pubblico è lì per te, ti applaude, canta interamente le tue canzoni, quindi è come se stesse dicendoti che quello che tu pensi lo condivide. Capisci che la gente ti vuole bene, quindi è un momento di affetto reciproco. Però sai che stai vivendo in una bolla, non è la realtà quotidiana quella. Per questo la prospettiva è diversa e forse in virtù di ciò va colta, va vissuta. Il pubblico va omaggiato e gratificato sempre.

Dicevi poc’anzi che le tue canzoni dal vivo cambiano aspetto...
Non mi piace ripetermi. Per me è una specie di ossessione cambiare l’abito alle mie canzoni, è ogni volta un imperativo categorico dover modificare i pezzi nei miei live. Il pubblico che mi segue è sempre curioso, molto colto e attento, affamato di cose nuove. Viene ai concerti e sa perfettamente che si stupirà per nuovi arrangiamenti e nuove versioni dei brani. Sarà perché mi annoio facilmente, o perché sono immersa nella cultura del remix che rappresenta, in fondo, la mia attitudine nella musica e nella vita, quella di non avere schemi e di non essere incasellata dentro definizioni. Le rivisitazioni mi divertono, è un gioco che mi piace perché non mi fa mai essere uguale.

Dai 99 Posse alla carriera solista, la tua musica non ha mai perso l’attitudine a parlare con coraggio e autenticità di rivoluzioni dentro e fuori di sé. Pensi che la musica abbia ancora il potere di rendere le persone più consapevoli?
Io credo di sì, come qualsiasi altra forma di arte e d’espressione. Forse però la musica ha in sé qualcosa di ancora più impalpabile e magico. Come è possibile che un accordo in minore ti mette subito un po’ di malinconia e al contrario uno in maggiore ti tira su? È davvero un mistero come la musica riesca a toccare delle corde profonde dentro di noi. Io sono convintissima che nella notte dei tempi, quando si viveva nelle caverne e si faceva luce col fuoco, l’uomo, per farsi coraggio, cantava. La musica ha il potere di infonderci coraggio, di dare forza, di sostenerci. L’artista prova ad accendere delle luci e l’ascoltatore decide se mantenerle accese o spegnerle. Quando il pubblico canta le mie canzoni rimango incredula ogni volta. Questo è il potere della musica.

Parliamo ora di Napoli, la tua città. Rappresenta un luogo da cui scappare, in cui tornare, o nel quale fermarsi stabilmente?
Napoli è la città dei contrasti e forse partorisce persone piene di dualismi e contraddizioni (ride); rappresenta un polo attrattivo e repulsivo insieme, un paradiso abitato da diavoli. È una metropoli controversa che però regala radici molto salde. Io non vivo più a Napoli, ci torno qualche volta, ma non tanto quanto vorrei. Sono una viaggiatrice, una cittadina del mondo, e sono convinta che nel mio corpo scorra del sangue nomade. Eppure ho capito che mi sento più napoletana quando sono in viaggio rispetto a quando mi fermo a Napoli. Quelle radici salde mi consentono di essere libera, lasciandomi esplorare altrove, ben sapendo da dove sono partita.

Dal punto di vista musicale, Napoli che scene offre? Ci sono ancora stimoli interessanti? A questo proposito, sono curiosa di sapere cosa ne pensi della nuova scena trap napoletana.
Proprio perché non vivo più a Napoli, non ne conosco perfettamente il nuovo scenario musicale, ma a quanto pare sembra esserci una buona scena underground. In primis il rap, che a Napoli è sempre forte. In questo momento mi piace ascoltare Enzo Dong e Le scimmie. Anche dal punto di vista dell’elettronica, della tech house e della minimal techno, Napoli non delude. Non a caso ho scelto Danilo Vigorito (un musicista della scena tech house napoletana) per mixare “Concerto imperfetto” e il disco suona una bomba grazie a lui. Dal punto di vista ritmico e sonoro, Napoli è sempre stata e continua ad essere una buona fonte d'ispirazione. Liberato, per esempio, mi piace da morire. Adoro la sua ricerca melodica un po’ sospesa tra passato e futuro, la produzione musicale sottesa che mi ricorda certe cose degli Alma degli anni ’90 e il fatto che non abbia volto. Chissà quanto riuscirà a resistere! Sottrarsi al pubblico in un’era nella quale devi sempre condividere sui social la tua vita privata e tutto te stesso, altrimenti non esisti. Uno che va controcorrente in questo modo ha senz’altro tutta la mia ammirazione. Anche questo è un atto rivoluzionario che apprezzo.

Se Meg oggi fosse un’esordiente, avrebbe sempre le stesse possibilità di emergere di quando ha iniziato?
Mi verrebbe da dire le stesse. Quando ho iniziato non avevo in mente che cantare sarebbe diventata la mia professione. Lo facevo per una mia esigenza personale: ho sempre suonato il pianoforte, a casa ascoltavo moltissimi artisti e quindi la musica per me era come leggere un libro o andare in bici. Forse l’inconsapevolezza, unita a questa grande passione, mi ha portato nel tempo a realizzare concretamente quelli che sembravano essere solo sogni. Ti direi che oggi farei esattamente la stessa cosa di allora, ovvero inseguire i miei sogni senza tradire ciò che sono. Non percorrerei la strada dei talent show o delle gare canore perché per me la musica non è una competizione, non è una sfida a chi arriva primo. Questo da sempre, anche se sono aperta alle novità. Ecco, forse la Meg di allora, oggi, sfrutterebbe molto i social o Youtube per farsi conoscere.

Per quanto tempo ancora ti immagini sul palco? Qual è il tuo sguardo verso il futuro?
Sono una che ama guardare avanti, non mi piace voltarmi indietro e la cosa più salutare per me è cercare di vivere il momento senza troppe previsioni. Mi piacerebbe poter continuare a cantare e a fare musica ancora per molto e, nel mio prossimo futuro, è prevista la realizzazione di un nuovo disco a cui sto lavorando.

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L'articolo Meg - Essere imperfetti è un atto rivoluzionario di Libera Capozucca è apparso su Rockit.it il 2017-10-12 12:12:00

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