Dal blues africano al folk partenopeo: i La Maschera raccontano il nuovo album

Il cantante dei La Maschera racconta il nuovo album "ParcoSofia", parlando della scena napoletana e delle musiche dal mondo.

La Maschera (foto di Riccardo Piccirillo)
La Maschera (foto di Riccardo Piccirillo)

Abbiamo incontrato Roberto Colella, voce e frontman dei La Maschera, nella centralissima sede dell’etichetta Full Heads a Piazza del Gesù Nuovo, a Napoli, per parlare del nuovo album “ParcoSofia” (uscito il 10 novembre), della scena napoletana, delle musiche del mondo e di uno strumento unico che si chiama Geppino.



È la prima volta che La Maschera è su Rockit, raccontaci un po’ chi siete.
La Maschera è un gruppo di più persone, cinque, a volte sei, che si vogliono bene e a cui piace suonare. Questo è il nesso, non ci sta nessuna missione, ci divertiamo a stare iniseme e ci vediamo il più possibile per suonare. Nasce nel 2013 dall’incontro fra me e Vincenzo, il trombettista. Io non volevo neanche suonare in pubblico, mi mettevo vergogna, poi lui mi convinse e sembrava che le serate andassero bene, quindi ci siamo messi a suonare il più possibile chiedendo ai locali. Poi da là nacque il videoclip di “Pullecenella”, alla nostra seconda serata. Partecipammo ad un contest - che perdemmo, è importante dirlo -, il cui premio era un videoclip. Tra il pubblico c’era un regista che, anche se avevamo perso, decise di regalarci “Pullecenella”, dicendo che voleva fare un videoclip con noi perché sentendoci si era fatto un viaggio. All’epoca eravamo squattrinati che non puoi avere idea, non avevamo neanche registrato, e questa buona anima che si chiama Vincenzo Caiazzo… no ch’è muorto, eh, è proprio una buona anima! Insomma, ci pagò anche lo studio per registrare il pezzo. Noi veniamo tutti dalla stessa zona, l’area Nord di Napoli che, diciamo, non è una zona ricca. Ci eravamo detti, in tutta sincerità: “ok, non possiamo registrare adesso, dobbiamo suonare un altro poco per poterlo registrare”. Quindi ci prese alla sprovvista questo signore che aveva deciso di prenotare lo studio e tutto già la settimana dopo averci conosciuto. Insomma, ci è successa questa cosa proprio a culo.

Da poco è uscito il vostro secondo disco, “ParcoSofia”. Parco Sofia è un luogo, lo scenario delle storie del disco, ma è un gioco di parole abbastanza erudito, no?
Il gioco di parole è venuto dopo, in realtà. C’era un po’ di indecisione sul titolo, pensavamo alle storie raccontate nel disco che, anche se in maniera non tanto evidente, parlavano tutte delle radici. Una di queste storie era nata in un posto preciso che era appunto un agglomerato di case popolari di Villaricca che si chiama proprio Parco Sofia. Una zona diversamente ricca, nel senso che non ha niente di particolarmente bello, dove però secondo me la gente affronta la vita in un modo interessante. Tante persone diverse, ognuno co’ nu’cuofan e’problemi, che riescono a stare insieme in una maniera miracolosa. Mi piaceva dare al disco il nome di un posto che ho conosciuto bene e che continuo ad amare tanto. Il gioco di parole deriva dal fatto che poi mi sono ingrippato con la questione dell’etimologia, io studiavo lettere e filosofia quindi è una cose che mi piace molto. Parco sofia, dal greco e latino, significa “moderarsi in sapienza”, che in un’epoca in cui tutti sanno tutto forse è un pensiero che può fare bene. Anche perché è il consiglio che diamo a noi stessi in genere… per esempio, ognuno di noi suona più cose, ma le suona male, cerca di imparare qualcosa stando a contatto con gli altri.


(foto di Riccardo Piccirillo)


Ci sono molti riferimenti autobiografici nelle nuove canzoni?
Diciamo di sì, però sono spersonalizzati: le storie sono fatte vivere ad altre persone, i nomi non sono quelli, anche l’Io narrante, che potrei essere io, è affidato a un’altra persona. Io sono convinto e probabilmente sarò sempre convinto che la storia personale di una persona non può essere chissà quanto interessante, la mia, la tua, quella del Papa. Credo che la gente che ascolta voglia riconoscersi in quello che si sta raccontnado e anche io, vorrei riprendere una storia che ho scritto in più momenti della mia vita. Se la associo troppo ad un momento, magari rimane lì e la perderò in futuro.

Come singolo di lancio avete scelto “Dimane comm’ ajere”, un pezzo che anche attraverso il video, racconta la dicotomia tra la maturità della crescita e innocenza della gioventù.
La scelta di “Dimane comm’ ajere” è stata quasi un gioco, era parecchio tempo che non usciva qualcosa e decidemmo di suonarla a fine settembre come bis del concerto allo Scugnizzo Liberato, e poi di pubblicare il video poco dopo come dedica a chi ci era venuto a sentire quella sera. Quindi è stato pubblicato come singolo ma era più un regalo per le oltre 2500 persone che sono venute all’ultimo concerto di “’O vicolo ‘e l’alleria”. L’argomento è quello, ma c’è anche il tema della droga e della tossicodipendenza, che è uno di quelli molto presenti nel Parco Sofia vero, quello della realtà. Ho cercato di mascherare questa tossicodipendenza dietro l’essere rimasti bambini, ipotizzando che magari non essere mai cresciuti ti può rendere più curioso nei confronti della vita e portarti a provare più cose e magari prendere da questa vita anche cose che in realtà non fanno bene. È un contrasto strano, io sicuramente non me la sento di giudicare chi prende droghe, basta pensare che c’è chi sotto effetto di droghe ha fatto cose grandiose, così come chi ha fatto cose orribili. Alla fine è tutto collegato alla qualità umana, all’individuo e al suo contesto. In generale, il contrasto tra maturità e infanzia è molto presente nel disco, anche perché in molti momenti della mia vita io mi sento più appartenente alla seconda, mi piace stupirmi delle cose, divertirmi a volte anche in maniera immotivata. Però spero di rimanerci, così.


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La fantasiosa copertina del disco è di Giuseppe Boccia, che ci puoi dire del progetto grafico?
Lui ha centrato perfettamente il senso del disco, è riuscito a fare un disegno che ne racchiude l’anima. Io la vedo così, “ParcoSofia” probabilmente è proprio il mondo visto da un bambino che naviga, che fluttua fra i vicoli del Centro Storico di Napoli su una piroga senegalese, dando un passaggio a un piccione, con i pesci che gli volano attorno. Quindi è un bambino che vive nell’illusione, guardando dall’altro la città, il Centro Storico.


La copertina di "ParcoSofia" realizzata da Giuseppe Boccia


Sicuramente siete cresciuti molto dal punto di vista musicale, arricchendo la vostra musica con diverse influenze. Una è quella africana, fortissima in “Te vengo a cerca’” e “Salaam Aleikum”.
Sicuramente c’è quell’influenza là, del resto più cose ascolti e più ne sei influenzato. Io in questi anni ho avuto la fortuna di lavorare con Daniele Sepe, una persona che al di là di tutto ha fatto 27 dischi, ha suonato con chiunque, ha fatto qualsiasi genere musicale in maniera secondo me molto importante, lui sicuramente mi ha dato molto dal punto di vista musicale. Poi ognuno di noi della band ha condotto un percorso diverso con il suo strumento.

C’è qualche album in particolare che avete ascoltato prima o durante la scrittura dell’album?
Ultimamente mi sono incapato con il blues africano, il blues del Mali. Ali Farka Touré, Salif Keïta, sono musicisti che mi fanno uscì pazzo. C’è un documentario che fanno ogni tanto su Rai 5, quello di Martin Scorsese, che è una cosa mondiale... C’è una scena con Salif Keïta chitarra e voce, una di quelle cose che ti sconvolgono. Cerchi di prendere il più possibile fra quello che ascolti e poi canalizzare tutto nel tuo mondo musicale, e così sono stati sicuramente importantissimi alcuni ascolti, per esempio Elliott Smith, Paul Simon.

"Graceland"?
Sì, ma in realtà mi ha sconvolto in particolare “The Rhythm of the Saints”, oltre a tutta la produzione con Garfunkel. Uno dei miei pezzi preferiti in assoluto è “Bridge over Troubled Water”, che è gospel allo stato puro, cantato da Elvis, Aretha Franklin, ma scritto da Paul Simon. Diciamo che rispetto la musica che faccio, ho tutti altri ascolti. Questa musica qua mi fa impazzire, ma anche se non si direbbe io vengo dall’hard rock, le prime cose che ho cantato erano dei Led Zeppelin e poi solo dopo, per caso, mi sono accorto che riuscivo a scrivere meglio in napoletano.

Hai mai scritto in italiano?
Io ho iniziato scrivendo in italiano e ancora prima in inglese, una fissa che avevo visto che mi piaceva quella musica là. Però non riuscivo a dire quello che volevo realmente, magari avevo una sensazione o un’immagine in mente e non la riuscivo a dire bene. C’è poco da fare, o sei molto abile o devi essere madrelingua. In italiano mi succedeva la stessa cosa, ho scritto diverse canzoni e non mi convincevano. Iniziando a scrivere in napoletano, mi è sembrato di riuscire a sintetizzare in poche parole il concetto che volevo esprimere. Quando si riascolta una canzone o rilegge un testo scritto il giorno prima, si spera di riuscire a leggere tra le righe la sensazione provata al momento della scrittura. Quando scrivevo in italiano non la riuscivo a leggere quella cosa, ogni volta mi dicevo “cazzo, l’aggio persa”, idem in inglese. Con le canzoni in napoletano mi sembrava che rileggendo il testo la sensazione stava ancora là, intrappolata. Ciò non toglie che il giorno in cui riuscirò a scrivere una cosa che intrappoli la sensazione che cerco in un’altra lingua, italiano, inglese o pure spagnolo, io lo faccio tranquillamente… volesse o’cielo!

Com’è il processo di scrittura di una canzone de La Maschera?
Non lo so, perché non riesco a ricordare ogni volta che succede, è un momento veramente intimo e a volte ci possono volere sei mesi per un testo, a volte pochi minuti. Nel disco c’è una canzone che si chiama “Senza fà rummore”, che è uscita in cinque minuti ed è forse quella più complessa armonicamente e come testo, perché sintetizza in uno spazio breve più sensazioni ed ha diversi cambi armonici. Canzoni più semplici a volte ci mettono molto più tempo. La scrittura è un momento di ricerca interiore, a volte va da solo, a volte stai là, aspetti e non ti arriva niente. Comunque le nostre canzoni in genere nascono chitarra e voce o pianoforte e voce, poi penso all’arrangiamento e a come mi piacerebbe che andasse il pezzo, mi registro a casa su un piccolo registratore, magari aggiungendo percussioni o suoni midi vari. Poi si va in sala e ognuno aggiunge il suo, così si arriva alla forma definitiva.



Qual è la squadra che ha fissato le canzoni su disco? Oltre alla band c’erano diversi collaboratori di un certo livello.
La nostra formazione attuale, quella con cui siamo andati in studio, è quella con cui abbiamo suonato allo Scugnizzo Liberato per l’ultimo concerto del primo album, cioè noi cinque (Roberto Colella a voce, chitarra, tastiera e sax, Alessandro Morlando alla chitarra, Vincenzo Capasso alla tromba, Antonio “Gomez” Caddeo al basso e contrabbasso, Marco Salvatore alla batteria, ndr), Michele Maione alle percussioni, ormai fisso anche lui, Arcangelo Caso al violoncello, Martina De Falco ai cori. Claudio “Gnut” Domestico invece ha curato la produzione artistica con noi. Abbiamo registrato in presa diretta, una cosa che mi divertiva molto. Ci sono pezzi senza clic, molto spontanei, con una spinta particolare. Comunque noi veniamo da quattro anni in cui abbiamo suonato di continuo, se non registravamo suonando tutti insieme eravamo proprio scemi Poi in post-produzione abbiamo aggiunto i cori e qualche altra cosa, tipo il sassofono o Geppino, uno strumento che è un incrocio fra txarango e mandolino che ho trovato da un liutaio. Non aveva nome, il liutaio semplicemente lo aveva fatto come gli era venuto, quindi l’ho chiamato Geppino ed ha un suono unico, è in molti pezzi del disco mentre per esempio il mandolino non c’è. Daniele Sepe invece ha fatto un paio di assoli sconvolgenti, in particolare c’è quello di sassofono su “Senza fa rummore” che io custodisco gelosamente, proprio quella singola take, una di quelle cose che non escono fuori uguali mai più. Stessa cosa Michele Signore, che ha suonato il violino, lui è il violinista della Nuova Compagnia di Canto Popolare, è davvero molto bravo e ha missato anche il disco.

Cosa è cambiato di più per voi dall’uscita di “‘O vicolo ‘e l’alleria”?
Sono cresciute un po’ di cose, alcune che non mi sarei aspettato proprio. Per esempio quando ho iniziato a suonare chi si sarebbe mai aspettato di fare sold out al Teatro Bellini… Poi sicuramente sono migliorate delle cose, ognuno di noi in qualche modo ha studiato, tranne io che sono un autodidatta ignorante. Però gli altri sì, Morlando è uno che studia assai, suona con chiunque, ha 24 anni ed è un fuoriclasse. Gomez anche continua a studiare, la stessa cosa Marco e Vincenzo. Ognuno di loro dedica molte ore al suo strumento e poi proviamo almeno tre o quattro volte a settimana. Infatti spendiamo nu sacco e’sordi… Poi è aumentata la cerchia di persone che si è stretta intorno a noi e questa è una cosa bellissima, il fatto di poter contare su persone come Daniele Sepe, Arcangelo Caso, Michele Signore è una cosa ca me fa’ sta troppo buono. Siamo circondati da un buon clima, mi trovo bene con tutti quelli con cui mi sto relazionando, non c’è competizione. Non sopporto chi vive la musica come competizione, ci vedo del marcio e questo per me vale anche per concorsi, talent e cose varie. Penso che la musica debba essere prima di tutto scambio, possibilità di imparare. Io per esempio credo di poter imparare qualcosa sia quando vado a vedere una band metal sia un musicista chitarra e voce, e a mia volta spero di dare qualcosa a qualcun altro. E a Napoli per fortuna mi sembra che si stia andando molto in questa direzione.

A Napoli c’è un forte spirito di collaborazione fra i musicisti, soprattutto all’interno e nei dintorni della scena folk in napoletano.
Esatto, io però non vedo l’ora che questa cosa si allarghi anche al di fuori di questi confini, si apra la possibilità di collaborazione anche con altri, per esempio gruppi che fanno musica un po’ più spinta. Già siamo una nicchia, non mi pare il caso di fare la nicchia della nicchia. E poi ci sono gruppi che sono fortissimi, penso per esempio ai Sula Ventrebianco.

Pensi che sarebbe possibile allargare gli effetti di questo momento del cantautorato folk napoletano al resto della scena locale?
Sì, anche se resta il fatto però che questa attenzione verso un certo genere musicale viene dal pubblico, che è ingovernabile e imprevedibile. Adesso arriva molto al pubblico questo nostro modo di comunicare, magari fra un paio d’anni non succede più. Io comunque credo molto nella musica napoletana in generale, qui c’è una proposta musicale per ogni genere e spesso è roba bella. Purtroppo però c’è ancora questa cosa, che forse ci portiamo dietro dagli anni ‘70, di concepire la musica come una torta, da cui se tu prendi una fetta quella sparisce per qualcun altro. La musica dovrebbe essere un banchetto a cui tutti possono stare e se qualcosa va bene, ha successo, bisognerebbe esserne felici e stare insieme il più possibile. Così il pubblico è più stimolato a conoscere cose diverse, se io ascolto Enzo Gragnaniello e i Sula Ventrebianco o Paul Simon e i Led Zeppelin, probabilmente può farlo chiunque. Quindi, cari musicisti, ci sta spazio per tutti quanti.



A proposito di stare insieme, tu hai partecipato ad alcuni progetti collettivi che riuniscono buona parte della scena napoletana.
Sì, con Terroni Uniti la mia partecipazione è stata più occasionale, dettata dalla cosa di fare quella canzone, stare tutti insieme per divertirsi. Anche là ho avuto la fortuna di conoscere molti musicisti, per esempio ho conosciuto Franco Ricciardi e ho scoperto che lo amo! Una voce eccezionale e pure la sua band fa paura, molto rock. Con Capitan Capitone e i Fratelli della Costa però c’è un sodalizio molto più profondo, che è nato da un rapporto che prima è stato umano e poi è diventato musicale. Ci siamo visti prima a tavola, tutti quanti assieme, e poi d’estate, sul Capitone, il gommone di Daniele (Sepe, ndr)e abbiamo deciso di chiuderci in sala e scrivere i pezzi lì, direttamente in studio. A noi personalmente questa cosa ci ha preso in contropiede, lui era abituato ma noi no. Ma tu sì pazzo? Quindi ci siamo messi là, abbiamo scritto tutti i pezzi insieme, testi compresi, in sala. Per esempio “La Ballata del Capitone” l’abbiamo scritta pieni di sonno alle 9 di mattina io, Dario Sansone e Tartaglia (voci rispettivamente di Foja e Tartaglia&Aneuro, ndr), Daniele ha fatto al volo l’arrangiamento e poco dopo già stavamo registrando. Una cosa folle.

Anche per il secondo album “Capitan Capitone e i Parenti della Sposa” è andata così?
Sì, però c’era l’idea di raccontare un’unica storia, la storia del matrimonio di Capitan Capitone, quindi c’era una scaletta con i vari momenti della storia e dovevamo scrivere i pezzi in base a questa, per esempio il momento dei regali, la canzone che parlava del padre della sposa, eccetera. La sera prima di entrare in studio ci siamo visti, ci siamo seduti, “uagliù, comme è a’scaletta?”, e abbiamo iniziato a pensarci. Una cosa particolare, un’esperienza da fare. Quindici giorni in cui stai fuori dal mondo, devi solo cacciare musica e testi.

Ma secondo te, visto che negli ultimi anni abbiamo assistito a un grande ritorno della musica napoletana e in napoletano, c’è il pericolo di un riflusso, di un sovraffollamento eccessivo?
Non lo so, potrebbe succedere perché tutto è possibile. Però dipende sempre dall’offerta, finché offri canzoni che stimolano la curiosità delle persone va tutto bene. Quello che spero di fare io, comunque, è andare a suonare più spesso fuori, anche fuori Italia, fuori Europa. Mi piacerebbe molto tornare in Senegal e suonare là, andare in Mali, in Sudamerica, posti che vorrei vedere e vedere suonando. La cosa che mi interessa di più è scoprire musiche, imparare a suonare in un modo diverso per assecondare la mia curiosità e a’malatia ca tengo per gli strumenti.

In effetti c’è questo paradosso, gruppi che a Napoli richiamano migliaia di persone ma che fuori dalla Campania ancora non sono arrivati al pubblico.
Sì, un contrasto incredibile. Noi a Milano o Bologna facciamo due o trecento persone che non è male, ma qua ne abbiamo fatte oltre duemila, quindi il contrasto c’è. Va anche detto che lì suoniamo perlopiù in circoli Arci, dove per entrare ci vuole la tessera, molto ragazzi oggi non ce l’hanno e questo a volte fa pure aumentare le spese d’ingresso. In effetti credo che questa cosa che sta succedendo a Napoli sia destinata o a esplodere verso l’esterno, o a implodere verso l’interno.

A Napoli questa cosa non c’è molto, ma sicuramente la città soffre di una certa carenza di spazi adeguati all’arte e alla musica in particolare.
Sì, ma a Napoli ci stanno i centri sociali che spaccano, la verità è questa. Non ovunque vanno così bene, spesso si sono trasformati in circoli Arci che non è la stessa cosa, mentre nel centro sociale è tutto un po’ più sostenibile, soprattutto i gruppi che stanno all’inizio. E poi ci sono un’atmosfera e uno spirito diversi, più rilassati e conviviali.

Intanto quest’anno con La Maschera avete infranto i vostri record di presenze ai concerti, con sold out dal Teatro Bellini allo Scugnizzo Liberato. Cosa state preparando per il nuovo tour?
Ci sarà una data il 23 dicembre all’Arenile, che ha fatto un’enorme struttura al coperto che è una novità in una città come Napoli, che esclusi gli spazi all’aperto dei centri sociali che d’inverno non si possono usare, è poco attrezzata per concerti con numeri grandi. I teatri sono poco sostenibili, se fai sold out esci zero a zero. A me piacerebbe fare qualche altra data a teatro, ma dovremmo mettere un biglietto più alto se vogliamo fare di nuovo, per esempio, una scenografia. Comunque oltre la data a Napoli, avremo date in tutta la Campania a dicembre. A fine novembre invece c’è stato un concerto più presentazione del disco a Roma, e fra gennaio e febbraio giriamo per l’Italia, andremo a Bologna, Milano, Puglia, Sicilia.

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L'articolo Dal blues africano al folk partenopeo: i La Maschera raccontano il nuovo album di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2017-12-05 11:43:00

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