I cugini cattivi del nuovo pop italiano: intervista ai Siberia

Eugenio Sournia, autore e frontman dei Siberia, racconta il nuovo album "Si vuole scappare".

I Siberia hanno esordito nel 2016 con l'album "In un sogno è la mia patria" e ora sono pronti per pubblicare il secondo disco "Si vuole scappare", in uscita il 23 febbraio per Maciste Dischi. In questa intervista Eugenio Sournia, autore e frontman della band dark pop livornese, ci parla del nuovo lavoro, di come nascono le canzoni, di musica italiana e di quanto sia difficile affrontare la maturità.

Per prima cosa dimmi un po' chi siete e perché vi chiamate Siberia.
La band nasce come classica band adolescenziale di amici e piano piano, anche con qualche cambio di formazione, abbiamo raggiunto una più forte identità che ci ha portato alla realizzazione del primo album, "In un sogno è la mia patria", uscito nel 2016 per Maciste Dischi. L'idea del nome è stata mia, e giuro che non conoscevo l'album dei Diaframma, anche se è difficile crederlo perché effettivamente c'è un'affinità non solo musicale ma anche territoriale e tematica. Fra l'altro io so che Fiumani era portiere e faceva la boxe, cose che anche io ho fatto. Insomma, ci sono delle analogie abbastanza folli, si vede che probabilmente abbiamo lo stesso retroterra sia a livello culturale che musicale, quindi abbiamo scelto riferimenti simili. Ad ogni modo, il nome Siberia deriva dal romanzo "Educazione siberiana" di Nicolai Lilin, però il nostro progetto non vuole essere lo spin off di "Educazione siberiana" nel mondo della musica. Io sono abbastanza ossessionato dall'estetica e Siberia mi piaceva foneticamente.

Il 23 febbraio esce il vostro nuovo album, "Si vuole scappare", sempre per Maciste Dischi. Parlando dei testi, penso a che a livello di scrittura tu sia stato spudorato, e la spudoratezza è una qualità fondamentale per chi fa arte, o no?
Sai, una cosa che ho imparato dal primo album è quello di essere un po' più chiaro a livello di scrittura. Usavo termini aulici, espressioni volutamente criptiche ed elusive, invece con "Si vuole scappare" ho cercato di essere molto contemporaneo. Noi viviamo in un mondo ossessionato dalla pornografia e volevo che ci fosse a livello testuale una cosa simile, ho evitato infatti di mettere molti filtri. Noi abbiamo voluto fare una cosa piuttosto forte e, come hai detto tu, piuttosto spudorata, pur sapendo che di fronte alla spudoratezza una persona o la asseconda, e nasce una grandissima intimità, o invece la rifiuta, perché non sempre si è pronti a confrontarsi con un soggetto che ti si apre senza barriere.

Vasco Brondi ne "La gloriosa autostrada dei ripensamenti", che è una specie di diario di lavorazione allegato al suo ultimo album, scrive: “Se nessuno ti insegue non stai scappando, ma stai solo correndo”. Ascoltando il vostro album si avverte che voi non state semplicemente correndo, ma che è in atto una vera e propria fuga: com’è nato il titolo "Si vuole scappare"?
Quello che ho notato, in me e nella mia generazione, è che c'è un grande desiderio di scappare. Scappare prima di tutto dalle responsabilità dell'età adulta e dalla presa in carico di un certo tipo di maturazione. L'eterna adolescenza, infatti, è uno dei temi dell’album. Oggi c'è una costante fuga verso un mondo immaginario, distante dal mondo reale. Pensa per esempio all'uso dei cellulari e di internet, verso i quali io stesso mi sento abbastanza schiavo: come non considerarli spesso un comodo rifugio, una facile consolazione? Inoltre, questa fuga dalla responsabilità e dalla realtà la trovo anche a livello musicale. Se un tempo la musica si inseriva o si voleva inserire nel mondo reale - penso non solo agli anni '70, ma anche ad artisti come il Teatro degli Orrori o allo stesso Vasco Brondi, e quindi a una generazione di artisti immediatamente precedente la mia -, adesso invece la nuova generazione, di cui noi stessi Siberia facciamo parte, rifugge abbastanza dai temi sociali a favore di temi molto più sognanti da un lato, e individualisti dall’altro. Diciamo che la cosa migliore però sarebbe riuscire a mediare fra queste due tendenze.

In "Nuovo pop italiano", primo singolo estratto dall’album, emerge la difficoltà di fare i conti tanto con le cose passate quanto con le cose future, che non viene affrontata, ma anestetizzata ( “Eccoti alternando delorazepam e vino”) o semplificata ( “ma che differenza fa non prenderla sul serio”, “sai che a volte la tristezza è quella che vogliamo”). I protagonisti della canzone sembrano perennemente sospesi, è così?
Noto che in me e in molti miei coetanei c'è una sorta di stanchezza di fondo, come se venissimo sempre da una lunga corsa, da qui per esempio il verso “Noi siamo senza fiato”. Mi sembra che non riusciamo a prendere il respiro, viviamo di cose piccole. Una cosa che mi piacerebbe fare è parlare anche delle cose grandi. Mi piacerebbe coniugare una poetica delle cose piccole, che oggi c'è tantissimo e a me piace molto, con una poetica del grande. Noi siamo senza fiato è questa cosa qui, è come se davvero avessimo poco fiato per parlare di cose importanti.

Alcuni tuoi versi mi ricordano Battiato, esemplare nel coniugare una poetica del grande e del piccolo. Penso per esempio ai versi “Eccomi misurando a passi lenti il mio destino” oppure “Ma la vecchia come fa con il rosario in mano?”. Quest'ultima è un'immagine fortissima che entra a gamba tesa nella canzone perché improvvisamente ci mette di fronte una vecchia, anche lei con la sua dose di anestetico: il rosario, cioè la fede.
Io con Battiato, ma anche con De André, insomma due grandissimi della musica italiana, ho sempre avuto un rapporto strano perché ho avuto paura di essere influenzato, per cui li ho ascoltati con grande parsimonia. A De André per esempio mi ci sto avvicinando ora, ovviamente le canzoni più famose le conosco e le ho ascoltate con grande piacere. Comunque è vero, quel verso della vecchia e del rosario è molto in stile Battiato, però il verso ”Eccomi misurando a passi lenti il mio destino” mi sembra più vicino a Giovanni Lindo Ferretti.

Sì, comunque Ferretti e Battiato sono, quanto meno in un certa produzione, cugini di primo grado.
Sì, ma forse Ferretti lo sento più vicino perché è rimasto più all'interno di una band, io mi sento più autore e meno cantautore. Io cerco sempre di scrivere dei testi per una band. Infatti sia nell'uso di alcune parole che nella descrizione di alcune immagini cerco sempre di lasciare tutto più sfumato perché voglio che tutti gli altri membri dei Siberia sentano quelle parole e quelle immagini appartenere anche a loro.

Ti va di dirmi qualcosa sul titolo "Nuovo pop italiano"?
Il ‘nuovo pop italiano’ è certamente un fenomeno in atto, e un fenomeno che ha portato nuovamente la canzone italiana nelle teste e nelle vite quotidiane di tanti ragazzi e ragazze. Noi sentiamo, per identità, ascolti, intenti, di farne parte e di volerlo cantare: ma vorremmo idealmente collocarci come i ‘cugini cattivi’ all’interno di questa onda, pur rimanendo all’interno di una fruibilità tipicamente pop.

In "Yamamoto" dici “Sono tornate le stagioni delle serie americane / dei pomeriggi proletari passati assieme allo skate park” e “Questa moda dei 90 / è desiderio dell'infanzia”: abbiamo paura della maturità?
"Yamamoto" è un testo molto fitto e, quanto meno a livello di scrittura, è quello che mi piace di più dell'intero album. Questa canzone è l'unica che abbiamo scritto in maniera corale, almeno a livello musicale. Mi ricordo che provammo a scrivere qualcosa insieme in sala prove e il testo è stato fatto in modo impulsivo per non perdere quel momento magico. Il tema centrale è anche quello di una donna. Yamamoto è proprio una donna vera, una ragazza che mi rendevo conto essere un po’ bambina, sia in senso positivo che negativo. Da un lato ha ancora addosso i segni della bellezza, dell'innocenza e della spontaneità, segni tipici dell'infanzia, dall'altro lato questa presenza costante dell'infanzia è inevitabilmente una gabbia che non le permette di accedere alla maturità. Ma come sempre nelle mie canzoni, i ruoli si fondono, e queste caratteristiche che attribuisco a lei possono facilmente applicarsi a me, così come divenire corali. In generale nel disco, ecco, ho cercato di parlare di pregi e difetti comuni, corali, di me, dei miei coetanei, delle persone che amo.

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Ci vuoi spiegare il titolo?
Il nome Yamamoto deriva da una mia fascinazione per il Giappone che ho avuto negli ultimi mesi. Yohji Yamamoto è uno stilista che mi piace molto, e questo nome, foneticamente per me così affascinante, mi è rimasto in testa per mesi. Facendo poi alcune ricerche su internet ho scoperto che Yamamoto in giapponese significa "pendici del monte". Pendici del monte è un'immagine molto bella e da lì infatti deriva il verso “alle pendici della vita” che fa riferimento proprio all'incontro determinante che ho avuto con la ragazza di cui ti ho appena parlato.

"Epica del dolore" è invece una canzone in cui si affronta la costante rimozione del dolore nel mondo occidentale.
"Epica del dolore" è una canzone che sento molto vicina e che ha che fare, come dici tu, con il dolore e con la sua rimozione. Mi rendo conto che a livello di scrittura nelle mie canzoni c'è un costante riferimento alla sofferenza, detta così sembro un tipo depresso, in realtà sono tutt'altro (ride). Ti spiego, io ho avuto un'educazione cristiana e forse la cosa che mi è rimasta più impressa è che il Cristianesimo si fonda sulla croce. Se ci pensi vuol dire che tutta la civiltà cristiana, e quindi se vogliamo l'Occidente, ha al centro questo simbolo che alla fine è un simbolo di tortura. A prescindere dal fatto che si sia o meno credenti, la nostra cultura ci ha insegnato a considerare la croce un simbolo salvifico, pensa per esempio alla Croce Rossa. Per me "Epica del dolore" è una riflessione che muove da questo concetto, dal fatto che dalla sofferenza si possa trarre un accrescimento e, per certi versi, una salvezza. Una canzone che mi piace molto e nella quale rivedo un'analogia di temi con "Epica del dolore" è "Spingere" dei Ministri. Trovo anche io per esempio che nella nostra contemporaneità ci sia un grande valore dato al benessere, mentre la sofferenza è relegata a un ruolo secondario, perché è uno stato d'animo il più possibile da evitare. Che poi è chiaro che l'uomo voglia avere il bene e fuggire il male ma secondo me, secondo la mia esperienza, una società che dia una giusta importanza alla sofferenza permette degli accrescimenti personali non indifferenti, nonché un senso di comunità maggiore.

L'ultima canzone di cui voglio parlare è che mi ha colpito molto è "Tramonto per sempre", parlamene un po'.
"Tramonto per sempre" è una canzone molto personale, il primo verso è quello che la incornicia, e la descrive per intero: “Quando avevo diciassette anni una stella durava per sempre / Ora resta nel cielo una notte, cicatrice che parte dal ventre”. Fa i conti, detto banalmente, con la difficoltà di amare una donna sola. Nell'innocenza primigenia dell'adolescenza gli amori duravano per sempre, ora invece restano una notte, e sono amori che sono dettati dal ventre, ma che comunque lasciano una cicatrice. Con "Tramonto per sempre" ho voluto inoltre descrivere la tendenza che hanno tanti che come me sono aspiranti artisti di crogiolarsi in una facile malinconia, in una facile tristezza. Questa canzone si ricollega al "Si vuole scappare" del titolo: noto infatti che c'è un desiderio di stare in una terra di mezzo tra il giorno e la notte, tra l'adolescenza e l'età adulta, tra il disimpegno e l'impegno, così parlo della tendenza a rifugiarsi nella malinconia, tendenza verso la quale auspico una grande reazione, anche se spesso ne sono io stesso incapace.

Come nascono le vostre canzoni?
Molti amici mi chiedono se per scrivere aspetto l'ispirazione. Io penso che l'ispirazione sia un po' come l'araba fenice: “che vi sia, ciascun lo dice, dove sia, nessun lo sa”. L'ispirazione la devi un po' provocare, quand'ero più piccolo scrivevo solo quando veramente ne avevo voglia o quando avevo qualcosa da dire, è così che è nato il primo album. "Si vuole scappare" invece è un album cercato. Io non sono una persona che scrive tantissimo, in un anno scrivo se mi va bene 25-30 canzoni. Inoltre, rispetto a grandi autori del nostro passato, è molto raro che decida di fare una canzone su un tema particolare, spesso mi metto semplicemente a scrivere. La mia scrittura è come se fosse una jam: prendo la penna e a furia di scrivere vengono fuori dei temi, dei ritornelli e poi faccio un po’ collage tra tutte le soluzioni trovate. Poi per la musica uso sia la chitarra che il pianoforte. Questo album è stato scritto maggiormente col piano, il primo invece con la chitarra.

Quali differenze trovi tra il comporre col pianoforte e farlo con la chitarra?
Io ho studiato da piccolo il pianoforte e, anche se poi a livello tecnico non mi è rimasto molto, è lo strumento con cui ho maggiore intimità. La chitarra certe volte mi sembra che sia lei a possedere me piuttosto che il contrario. Io il pianoforte lo guido, mentre con la chitarra è lei a guidarmi. Il pianoforte mi consente di scrivere canzoni un po' più pensate, un po' più cercate. Quando mi impongo di scrivere tendenzialmente uso il pianoforte. La chitarra la trovo più istintiva e quindi le canzoni che hanno ritornelli più forti le ho scritte con la chitarra, e penso proprio per via di questo fattore impulsivo.

Parliamo adesso dell'arrangiamento e della produzione di Federico Nardelli, già produttore di alcune canzoni di Gazzelle e di Galeffi.
Federico Nardelli
ce l'ha fatto conoscere Antonio Gno Sarubbi, fondatore di Maciste Dischi, ed è stato un fulmine a ciel sereno. Federico ha la grande capacità di riuscire a fare le cose con una grande spudoratezza, e questo è stato fondamentale per ottenere dalle canzoni tutto il potenziale che avevano. Per esempio noi avevamo un po' paura dei ritornelli, avevamo paura di esagerare e questo secondo me deriva dal fatto che veniamo da una città come Livorno in cui la scena musicale è di nicchia. A Livorno c'è l'hardcore, ci sono gli Appaloosa, insomma quelli col cazzo duro (ride). Non dico che noi Siberia fossimo visti con sospetto, anzi, però già il fatto che cantavamo in italiano era una cosa che a Livorno era un po' strana. Federico è stato molto bravo a toglierci la paura di fare pop. Io sono convinto che la mia scrittura abbia proprio bisogno di qualcuno che la tiri fuori, che la enfatizzi, è una scrittura che ha bisogno di una band con una forte componente tecnica e un produttore che capisca appieno il nucleo emotivo del pezzo.

Parlami della parte musicale.
Io sono cresciuto con i Joy Division, con la new wave. Pensa che persino mio padre suonava new wave, in Francia. Sono cresciuto quindi con quei riferimenti lì, e non solo ovviamente, e questo comunque ha avuto il suo peso. Ad ogni modo, secondo me questo album ha il pregio di avere sonorità più moderne, abbiamo cercato di non volerci infilare in una nicchia. Noi sentiamo che la nicchia non è la nostra comfort zone, noi non siamo i classici musicisti puristi che vivono di pedali, effetti e amplificatori. Tutto questo per dire che rispetto al primo album c'è stata in noi la famosa svolta elettronica (ride): abbiamo infilato dei bei sintetizzatori, ma in generale abbiamo cercato di connotarci in maniera da una parte più personale, da un’altra più contemporanea, per andare a incidere maggiormente sul pubblico moderno e sulla realtà che ci circonda.

Maciste Dischi da qualche anno sta facendo un ottimo lavoro e che ormai è una delle etichette di punta della scena musicale italiana.
Noi Siberia abbiamo avuto la fortuna di essere dentro da prima che uscisse il primo album di Maciste Dischi. Siamo stati proprio tra i pionieri. Questo fa sì che in qualche modo sentiamo nostro ogni successo degli artisti dell’etichetta, perché ci identifichiamo molto nelle sue sorti. Noi sappiamo che Maciste Dischi è nata dal basso e questo in sé è un valore, abbiamo trovato un lato umano molto appagante, ma soprattutto Maciste Dischi è Sarubbi, e Sarubbi è una persona molto determinata, un grande professionista che riesce a trasmettere questa personalità anche agli artisti che lavorano con lui. Ci ha insegnato che ragionare e comportarsi da professionisti è importante e necessario ben prima di diventarlo effettivamente! E speriamo di essere all’altezza di questa frase (ride).

Una domanda riguardo l'attuale scena musicale italiana: cosa ne pensi, come la vivi?
Ecco la classica domanda in cui si fa la polemichetta (ride). L'Italia è uno dei pochi Paesi al mondo in cui nei primi dieci posti di Spotify ci sono solo artisti italiani, e a me questa cosa fa estremamente piacere, e ti parla uno che ha avuto un'adolescenza totalmente esterofila. Quando avevo 18 anni infatti ascoltavo al 95 per cento gruppi inglesi e americani, e a me adesso fa super piacere che ci sia questo grande interesse per la musica italiana. Se noi, pensando agli anni duemila, ci ricordiamo degli Interpol, degli Strokes e dei Franz Ferdinand, degli anni dieci ci ricorderemo di Calcutta, almeno una certa parte di pubblico. È chiaro che di questa scena non mi piace tutto, però mi piace la grande libertà che c'è. A noi come band questa libertà ci faceva paura, perché comunque siamo nati come band indie rock e intorno, quindi, avevamo confortanti barriere che facevano sì che tu ti dovessi misurare con gente che faceva cose come te, che ti confrontassi seguendo regole simili. Adesso invece questi codici sono davvero spariti, quindi da una parte è spaesante per chi scrive, ma dall'altra è molto stimolante. Passato il primo anno di assestamento, adesso io mi sto cominciando a divertire quando scrivo, quando vado a un concerto, quando parlo di musica, perché la stessa gente che ascolta Nick Cave spesso ascolta la Dark Polo Gang, tipo me. Se è chiaro che è giusto dare il suo valore ad ogni registro qualitativo, ho sempre avuto in antipatia coloro che guardano con eccessivo sdegno i prodotti più ‘per tutti’. Scrivere cose che apparentemente sembrano più basse richiede un altro tipo di talento, che è comunque un talento ed è fondamentale nel creare il gusto di una generazione.

C’è qualcosa che invece proprio non ti piace?
La cosa che forse non mi piace della scena attuale è che c'è una vastità enorme di offerta per via dell'abbassamento delle soglie di prezzo nel registrare un album e nel produrlo. Questa cosa ha dato anche tanti buoni frutti, ma ci ha costretto a fare i conti con una produzione esorbitante, e magari molte cose che varrebbe la pena conoscere si disperdono. Aggiungo poi che per quanto riguarda il rap, a me che scrivo, questo primato del rap mi stimola, vuol dire che la gente il testo lo ascolta, poi è chiaro che spesso i testi rap hanno stilemi e temi molto tipici, però a ben vedere dei topoi ci sono in qualsiasi genere. Comunque ci tengo a dirti che per me questo è un momento stimolante. Questa apertura e questa libertà quand'ero più giovane mi atterriva, ora come ora mi piace, mi sento che entro in un mondo più grande.

Prima di salutarci dimmi qualcosa del tour.
Per adesso le date non sono ancora uscite, c'è una prima data al Cage di Livorno e non vedo l'ora di suonare perché è da settembre che non suoniamo dal vivo, e quel club è proprio bello, siamo trattati bene, ed è bello suonarci. Poi in primavera faremo un po' di concerti, e io da musicista godo quando vado in giro perché noi siamo proprio un gruppo di amici, prima che essere una band. Una delle cose che mi rende bello questo lavoro è che io e i miei amici siamo insieme. Sono una persona piuttosto misantropa che si sceglie gli amici con molta cura e gli altri membri sono persone con cui io starei 24 ore su 24. L'idea di suonare e di passare il tempo insieme è eccitante, e credo nella comunione che si crea fra noi non solo sul palco e come musicisti, ma anche come persone.

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L'articolo I cugini cattivi del nuovo pop italiano: intervista ai Siberia di Francesco Sgro è apparso su Rockit.it il 2018-02-22 11:56:00

COMMENTI (1)

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  • tontonrachid1 6 anni fa Rispondi

    bellissima intervista domande pertinenti e risposte intelligenti.....
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