Vasco Brondi - Con te le stelle sono buone: di realtà e di tragitti conclusi

Vasco Brondi racconta la fine del progetto Le luci della centrale elettrica, parlando anche di tante altre cose, dalla politica alla musica italiana, dalla provincia all'importanza delle piccole cose.

Vasco arriva su una mountain bike uscita direttamente dagli anni '90. Smonta con tutta quella barba che sembra pesantissima e appoggia la bici a un palo alto quasi come lui. È mattina, c'è il sole e siamo praticamente dietro al suo appartamento, in una piccola zona franca del quartiere di Isola dove c'è pace, la curva della strada, un solo bar e una chiesetta via via circondata dalla città. Dice che d'estate scrivono sugli avvisi "chiuso per ferie". Non sembra di essere vicini né a Viale Zara né a Porta Garibaldi. Da qui, oggi, sembra un posto tranquillo, con molta luce. Io sono vagamente malinconico, vagamente assonnato, lui parla moltissimo, scopro che non serve essere particolarmente brillanti per ascoltarlo: parlarci ti tira dentro al mondo, con tantissimi avverbi, delle frasi incastrate in modi stranissimi, ma allo stesso tempo con grande trasparenza. Quello che succede sulle spiagge del mediterraneo, sulle barche degli scafisti, nelle cabine elettorali, è profondamente connesso con la "questione privata" che Le luci della centrale elettrica è stato fino ad ora: con gli amori, i banchetti del merch e i commenti sotto le recensioni di Rockit. Persino con questa colazione alle 11 e quest'ora e un quarto di parole tra vicinissimi sconosciuti. Niente escluso, tutto ciò che è reale, adesso, è fondamentale.

Perché Salvini è al governo?
È un argomento molto complesso. Io, onestamente, sono per ridimensionare la sua figura. Non credo sia un genio della comunicazione, né della politica, ma credo che la situazione si sia evoluta in un modo per cui lui risulta l'eroe di un momento del genere. E questo anche per via del percorso visto negli ultimi decenni, che ha a che fare anche con i governi che lo hanno preceduto: hanno intuito una direzione sulla paura, sulla sicurezza, hanno cominciato a spostarsi verso quella cosa e alla fine la gente ha votato l’originale.
È una situazione che comunque cambierà. È un momento storico di incrocio tra questo tipo di rabbia e una semplicità discorsiva che alimenta paura e frustrazione, trasformando tutto in una lotta fra poveri: è allucinante pensare che chi non ha niente creda di non avere niente perché si prendono tutto gli immigrati, che tra l'altro hanno meno di loro. È una cosa che non sta in piedi.

E cosa pensi sia successo negli anni precedenti per creare questa situazione?
Pasolini diceva che gli anni '50 e '60 erano più fascisti del periodo fascista, perché solo alla fine del regime fascista Mussolini era riuscito a mettere i suoi uomini ovunque nelle istituzioni, e, caduto Mussolini, questi erano rimasti dentro il sistema: gli anni '50 risentivano del fascismo più degli anni '40 che risentivano invece del periodo liberale che l'aveva preceduto. Così oggi risentiamo di quei vent'anni di berlusconismo, di cui Berlusconi è stata assurdamente la prima vittima.
Questo per parlare anche del contesto di cui faccio parte: sono stati vent'anni in cui la cultura è diventata puro intrattenimento, dove chi avrebbe dovuto fare cultura si è limitato a fare intrattenimento. Questo ha delle conseguenze, e queste conseguenze sono anche il governo di adesso: siamo davanti a giovani che hanno vissuto tutta la loro vita sotto il ventennio berlusconiano, dove i riferimenti culturali, se non te li andavi a cercare o non ti venivano dati, erano "Buona Domenica". La cultura è il vero anticorpo, la cultura e l'empatia. E anche l'empatia non è che la insegnano a scuola. Sono cose che uno deve coltivare un po' da solo. Io credo che una buona missione politica nel nostro piccolo sia coltivare queste cose e condividerle: la cultura e la gentilezza verso gli altri. Quindi anche non rispondere a questo clima con altra rabbia, altra frustrazione, altre rivendicazioni, perché tanto il fuoco non lo spegni con un altro fuoco, lo spegni con l'acqua. Dovremmo essere tutti acqua in questo momento.

Te lo chiedo perché sembrerebbe che dopo 10 anni abbia vinto tutto ciò che Le luci della centrale elettrica non era.
(Sorride) Torno a bomba sul "ridimensionare questa figura". La Lega non ha il 100%! Poi sicuramente avrà sempre più consenso, ma questo darà anche la sveglia a tutti gli elementi della nostra società che siano comunicatori, artisti, giornalisti, per sentirsi la responsabilità di essere forze del bene. Questo dà una svegliata a tutti. E comunque i periodi cambiano, tramontano e passano. Bisogna guardare oltre e non pensare che questa persona abbia tutto questo potere, perché non ce l'ha. Glielo si dà. E glielo danno anche quelli che dovrebbero essere un’opposizione. Mi sembra che in ci generale ci sia una sorta di omertà, sia nei giornali, tra gli artisti, che tra le persone, nel prendere una posizione perfettamente serena: non è che uno deve fare il guerrafondaio, ma ho l'impressione che tra i giornali prendere le distanze sia il minimo - anche se capisco che non ci sia qualcuno con cui schierarsi dall'altra parte.
È un momento in cui torna fondamentale anche dire l'ovvio. Dire "io sono contro il razzismo", una banalità che io non avrei mai detto nella mia vita perché è limpida, non è più banale. Quindi vorrei che anche gli artisti ricominciassero a parlare (non dico nelle loro opere), a rivendicare l'ovvio: che siamo per un clima di pace, che dovremmo essere grati di vivere in un paese che per ora è in pace, e che ci sono delle cose di base che vanno ribadite. Forse non si dice molto a riguardo perché si pensa "ah io non lo dico perché tre quarti dei miei lettori o delle persone che mi seguono, che vengono ai miei concerti, la pensano già così, meglio se sto zitto". Invece no. C’è da non fare sentire solo chi la pensa in un altro modo, è una questione di empatia.
E soprattutto bisogna anche capire che siamo davanti a un odio perfettamente virtuale. Io sono sicuro al cento per cento che tre quarti delle persone che dicono cose razziste, che votano Lega (e ne conosco, io vivo in provincia, alcuni sono anche miei amici, persone con cui sono cresciuto), metà di questi, che dicono cose razziste su Internet, cose che ovviamente mi disgustano, è gente che se ci fosse una casa a fuoco si lancerebbe dentro a salvare una persona, che sia bianca o nera o di qualsiasi colore. Perché siamo così, gli italiani in realtà sono così, gli esseri umani sono così. Quindi io non voglio neanche dare troppo peso a quelle robe, perché è tutto una distorsione mentale, uno sfogo d'irrealtà nato dalle distanze: non c'è l'identificazione con l’altro. Bisogna cercare di capire cosa genera tutta questa paura, ascoltare anche questo, non solo prenderli per il culo perché sono ignoranti, e lo dico innanzitutto a me stesso. 

(Foto di Max Cardelli)

Ieri ci siamo messi a guardare il vecchio materiale di Rockit su di te, dalla recensione del primo demo, ai commenti, a tutte le interviste. Nella primissima intervista, 2007, Marco Villa ti chiedeva: "Tu ti definiresti cantautore? Cosa vuol dire oggi essere cantautore?". Cosa risponderesti ora?
In questi giorni mi è proprio venuto in mente il momento in cui ho dato questo nome al progetto. C'era un festivalino a Ferrara organizzato dai ragazzi che avevano questo studio di registrazione (che adesso è un sexy shop) dove ho realizzato il primo disco, chiamavano dei gruppi noti e in apertura ci mettevano qualcuno di Ferrara. A un certo punto hanno chiamato me: era rimasto un posto libero perché tutti suonavano crossover in quel momento in quella sala prove, e io ero veramente l'ultima ruota del carro. Ero visto come un alieno: cantavo in italiano, con la chitarra, urlavo... Io stesso non accettavo assolutamente di essere un cantautore: venivo da una band che si era sciolta, suonavo il basso, ascoltavo De Gregori di nascosto e non lo dichiaravo. Avevo un'altra attitudine: andavo ai festival hardcore, mi piaceva quella roba lì, pogare. C'erano i La Quiete, The Death of Anna Karina, sono cresciuto andando a Musica nelle Valli e i primi concerti della mia vita li ho visti lì, dove l'attitudine era quella e mi piaceva di brutto. Quindi proprio di reazione è andata così: avevo appena scritto "Piromani" e c'era questa frase con dentro "Le luci della centrale elettrica", ho detto "questo nome assurdo va bene", una parte di me pensava "non sono un cantautore, è un'altra cosa”. 
Adesso devo fare pace con questo. È vero che nel mio DNA ci sono il punk, i CCCP e tutto il resto, ma ci sono anche De Gregori, Battiato, De Andrè, Claudio Lolli, Leo Ferrè, e quello che è venuto dopo, come i Non voglio che Clara… sicuramente c'è questa cosa del cantautore ormai. Cantautore è una parola che adesso ha tante dimensioni diverse: uno si immagina proprio Guccini (chitarra acustica, due musicisti a caso, suoni quella canzone lì che è bella con le parole...), io l'ho pensata sempre un po' diversa la mia figura: comunque immersa nella musica per quanto le parole poi d'impatto risultano predominanti, ma sono predominanti perché c'è un contesto sonoro di un certo tipo. 

E sulla parte "cosa vuol dire oggi essere un cantautore", versione aggiornata 2018? Forse non vuol dire più niente.
Sì, forse sì, credo che non voglia dire niente. Quando si parlava di cantautori era perché da una parte c'era De Andrè e dall'altra c'era Heather Parisi che faceva "Cicale Cicale". Quindi poi esce un gruppo come gli Afterhours e si dice "rock cantautorale", perché sa scrivere e c'è attenzione alle parole. Ma se quello è il punto adesso sarebbero tutti "hip hop cantautorale" o "pop cantautorale”. Secondo me "songwriter", scrittore di canzoni, è proprio il termine giusto: te la scrivi e te la canti. È un termine asciutto, ha meno connotati.
Il mese prossimo esce questo libro: da un lato c'è un monologo di avventure di questi dieci anni, con in mezzo le foto, le locandine, gli appunti vari, le liste dei viaggi fatti, dei libri letti; dall'altro lato c'è la storia parallela che è quella del mio rapporto con questo lavoro, con questa identità, con l'idea di fare questo. La regola fondamentale secondo me resta una, è quella che diceva Pazienza: "viscere sul tavolo".
A me viene naturale che nelle canzoni ci entri la realtà. Mi dispiace quando sento dei brani che suonano completamente avulsi dalla realtà: dico "ok, però sta succedendo questo e quest'altro", non dico che devi fare "Bella Ciao" o i 99 Posse, però mi sembra strano. Poi certo bisogna avere rispetto della poetica e del talento di ognuno: anche una canzone d'amore può essere un inno rivoluzionario; è una roba grossa l'amore, sarebbe anche quello un grande antidoto alla rabbia e alla paura.

In effetti nel 2007 rispondevi più o meno così.
Menavo il can per l'aia, quindi. (ride)

Dicevi: "Se cantautore vuol dire parlare delle cose che ho attorno allora sono cantautore, come lo sono Il Teatro degli Orrori". Definivi cantautore come "parlare della realtà che mi sta attorno". Noto che resta il tema centrale questa cosa della realtà. E più questo tema è rimasto presente in te, più la realtà ha fatto passi indietro. Sembrerebbe ormai offuscata, sempre più lontana, sempre meno scontata.
Secondo me questo è dovuto al fatto che spesso siamo portati a vivere la realtà in modo filtrato, cioè attraverso gli schermi e quello che ci viene raccontato. Credo che adesso bisognerebbe vivere le esperienze non attraverso quello che ci raccontano gli altri, che siano artisti, che siano giornalisti. Bisogna muoversi, andare lì, sentire che odore fa quel posto lì. Questo è fondamentale. Basta leggerlo dagli altri! È questo che crea quella distorsione. Su Internet sembra un posto terribile, qui è tutt’altro: c'è la gente pacifica. Vige una modalità di comunicazione molto irruente, che poi nella realtà non c'è. Le persone sono molto meglio di quello che sembrano dalla massa informe di Internet.

(Foto di Max Cardelli)

Un mio amico che è stato tra i primi con cui ho ascoltato Le Luci al liceo, mi ha fatto notare che c'è questo frammento di "Un Weekend postmoderno" di Tondelli in cui racconta di un vagare in macchina per l'Emilia nel tentativo di agganciarsi alle frequenze di una radio. È un'immagine che pensi ti possa ritrarre? Quanto questi anni sono stati un po' un vagare in un'auto da solo?
Be' è un'immagine bellissima, è rimasta in mente anche a me sebbene sia un librone. A parte che mi è successo a Napoli: ero su un taxi e stavamo salendo al Comicon, andando su in collina prendeva meno, e il tassista stava sentendo gli ultimi minuti della partita del Napoli, che sarebbe valsa la Champions League. Prendeva male e quindi era agitatissimo, smadonnando e fregandosene di me è riuscito a sentire com'è finita, ha accostato e si è fermato per telefonare un amico e festeggiare la vittoria. È stato un grande momento. C'era anche lì questa cosa di sintonizzazione: aveva molta fretta di arrivare su perché sapeva che durante la strada non avrebbe preso.
C'è un verso di "40 km", "senza volere raccogliamo le risonanze del nostro tempo dentro di noi”. Adesso che ci penso quello che faccio nei periodi dopo i tour, quando sembra che stia viaggiando cazzeggiando, è in realtà andare a cercare (non con il bastone da rabdomante perché non funziona), andare a sintonizzarmi con quello che succede. Perché le canzoni è quello: tu capti delle cose, le filtri attraverso di te, ed escono. Poi sei solo un risuonatore, una cassa armonica della realtà. Sì, quando sono da solo in macchina, camminando, andando in bici, o da solo in casa a meditare e fare yoga... sotto sotto il lavoro interno è quello di sintonizzarsi con quello che c'è attorno.

Quindi anche per questo Vasco Brondi intimista la vera protagonista è la realtà.
Sì, poi la parola "intimista" è assolutamente fuorviante, perché solo quello che conosci molto intimamente può essere universale e planetario e assolutamente reale: solo quello, perché se no fai un telegiornale. È indispensabile andare molto nell'intimo delle cose per essere universale, parlarle anche di cose piccole.  

È comune per qualsiasi musicista che abbia raggiunto un'identità impegnarsi per levare con ogni mezzo l'etichetta di "cantore di una generazione". Nel tuo caso gli anni zero hanno definito il progetto Le luci della centrale elettrica, i protagonisti dei tuoi racconti sono sempre stati i ragazzi degli anni zero. Che fine hanno fatto gli anni zero? Cosa rimane di quell'epoca in un mondo che sembra diversissimo e cosa ti resterà addosso?
Sicuramente mi aveva molto colpito questa cosa del cantante generazionale perché, figurati, le prime canzoni della mia vita sono quelle di "Canzoni da spiaggia deturpata", quindi le ho scritte in camera mia prima di andare a lavorare al bar, dalle due alle sei parlando dei miei quattro amici, di me e di cinque chilometri quadrati attorno alla casa dei miei genitori: essere definito "generazionale" mi ha sconvolto, non era il mio intento, non credo di esserci davvero riuscito. Qui torna il discorso di prima, secondo me molto importante: cioè che se uno parla di qualcosa che conosce intimamente, bene, diventa universale. Mi sono reso conto che è vero quello che dicevano i CCCP: "Non a Berlino ma a Carpi". Non avevo bisogno di andare a New York o sull'Himalaya per raccontare qualcosa, bastava raccontare Ferrara. A me dispiaceva essere additato come "cantore generazionale”, mi sembrava irrispettoso anche verso gli altri della mia generazione dire che io la rappresentassi: "questo qua arriva, fa la sua roba e dicono che parla di noi". Non è vero! Era già abbastanza complessa la società e, anzi, io parlavo di una minoranza della minoranza. Credo che non sia una cosa giusta dare questo peso a qualcuno. Allo stesso tempo ho capito che le canzoni, le opere d'arte in generale, anche senza avere questo intento, possono rappresentare un'epoca o un anno, proprio per il fatto di non averlo cercato. "Altri libertini”, scritto probabilmente di getto parlando di una minoranza, di tossicodipendenti omosessuali nella provincia di Reggio, in realtà è un documento storico di quegli anni più potente dei saggi degli storici. Nel captare la realtà alle volte gli artisti, senza l'intento di essere didascalici, raccolgono l'aria di quel momento, come le bottigliette con l'aria di Napoli che ti vendono a Napoli. 

E cosa credi sia rimasto di quel periodo, dei ragazzi, delle cose che cantavi di quel periodo lì?
Ah, niente, ognuno ha preso le sue strade (lunga pausa). Io non riesco a parlare per gli altri. Per me, personalmente, rimane l'idea dell'evoluzione. Penso a "Piromani" e poi a "Macbeth nella nebbia”, “nel disastro il futuro era sempre lì a sorriderci". Le cose cambiano, cambiano i tempi, cambiamo noi; e questo è una cosa che mi rende ottimista: che sia bella o brutta una situazione cambia, questa è una banalità, ma è quello che mi rimane di quei tempi lì. È l'unica certezza che c'è.
Con il tempo che passa riesci a vedere i processi, come quello che è partito da lì e che è diventato qualcosa, parlando anche del contesto musicale, di com'è cambiato: quando io sono uscito con il disco c'era la figura degli hater, ed erano considerati con riverenza, mentre adesso a fare l'hater sei solo un rosicone, un poveretto. E ce l'hanno insegnato i ragazzi di vent'anni, che hanno portato questa serenità. Invece chi è cresciuto negli anni '90 faceva questo recinto intorno ai gruppi, dove se uscivi basta, ti odiavano. Cambiano persino queste cose: quello che era considerato l'esperto di musica adesso è solo uno sfigato. Infatti sono spariti tutti. Mi dicevano che avevo ricevuto minacce di morte sul forum de Il Mucchio Selvaggio: delle cose allucinanti che mi facevano ridere anche allora, adesso non esiste più né il forum né il giornale credo...
I giornalisti cercano di tirarmi fuori qualcosa contro Calcutta, contro Tommaso Paradiso, che sono diventati le ossessioni del periodo. Mi dispiace deludervi, ma non ho niente contro di loro. Anzi, avrei voluto che quando ero ventenne io invece di Ramazzotti e della Pausini ci fossero Calcutta e Tommaso Paradiso, che scrivono canzoni che a me piacciono di più, che lo fanno in modo sincero e che non hanno chiesto permesso a nessuno per uscire, non hanno aspettato l'appoggio di nessuno per farlo, perché vengono dal niente, come è successo a me. Credo che abbiano un grande talento nello scrivere e che l'uno con l'altro non c'entrino niente, anche solo accorparli mi sembra irrispettoso. Ci tenevo a dirlo, e credo sia anche un momento di fioritura di talenti, alcuni di questi non si evolveranno, spariranno, altri sono bravissimi. Per esempio quando ho sentito al MI AMI per la prima volta Franco126 e Carl Brave ho visto che era proprio tanta roba, nonostante quel concerto fosse ancora molto sgarrupato, ma questo non mi interessa: mi interessa che scrivono da paura, la reazione delle persone… brividi. Ho visto due grandi talenti, che spero si evolvano sempre di più, che da parlare di Roma e di serate fuori a bere amplino il panorama. Un processo che ho fatto io è proprio allargare la periferia, che è arrivata fino alle colline e poi a un barettino sulla Via Lattea. Ad esempio mi piacciono molto i Coma Cose: anche per loro vorrei, da fan, vedere che da Milano amplino le cose di cui parlano, i luoghi, i momenti, e sicuramente riusciranno a farlo.

Lo hai sempre fatto, e sicuramente non te lo sei inventato tu: nelle canzoni migliori succede qualcosa per cui da un dettaglio minuscolo all'improvviso tutto si ingigantisce e si finisce a parlare di cose enormi.
Diventa epica. Ma questo io l'ho imparato probabilmente da Gianni Celati e da Luigi Ghirri, che hanno trasformato dei posti che potevano sembrare modesti e umilissimi in epica moderna, l'Odissea. Tragedie greche in provincia.  

Chiudere un progetto musicale non è scontato. Soprattutto adesso, soprattutto in Italia, dove cominciano a girare un po' di soldi e ci si attacca coi denti a tutto, non si fa nessuna eutanasia, fino al punto che le cose si snaturano un po'. Persino il modo in cui dici "raga basta, questa cosa non è più quella di dieci anni fa"  testimonia che fai questa roba a modo tuo.
Per me era importante proprio chiudere questo progetto, intanto comunque sopravvissuto all'hype — questo già potrebbe essere scritto sulla mia effige (ride). Ma non solo; adesso è il momento in cui Le luci della centrale elettrica è più grosso come progetto, anche dai numeri: "Terra" (e rispetto al 2008 si vende il mille percento in meno di dischi) ha venduto quattro volte quello che ha venduto "Canzoni da spiaggia deturpata". Ma anche l'attenzione dei fan: il tour nei teatri, dove per la produzione e l'affitto il biglietto costa molto, sta andando benissimo sulle vendite, e non conveniva farlo nei teatri, dove non c'è il bar e le spese sono altissime. È una cosa che mi andava di fare così, soprattutto per salutare volevo fare quello: io seguo le cose che ho voglia di fare in quel momento, non le cose utili, seguo anche le cose controproducenti, ma che mi fanno fare le scintille rispetto a questo lavoro, per tenerlo vivo.
Esattamente per questo motivo volevo chiuderlo prima di sentirmi stretto lì dentro, di sentirmi obbligato a portare avanti un immaginario che in effetti avevo già abbandonato dopo il secondo disco. In questo senso questo progetto poteva finire dopo "Per ora noi la chiameremo felicità", da "Costellazioni" in poi è un’altra cosa, è rimasta solo la percezione che io sia quello che canta delle periferie e delle cose malconce. Riascoltando il disco dei dieci anni, a cui stavo lavorando prima di decidere questa cosa di chiudere il progetto, ho capito che il ciclo era chiuso, che questo piano decennale era esaurito. Che Le luci della centrale elettrica, che erano diventate delle stelle in "Costellazioni", hanno fatto tutto il loro tragitto. Arriveranno altre canzoni ma semplicemente non avranno questo nome, arriveranno altri tour e qualche canzone delle Luci continuerà a seguirmi comunque.

Questa cosa delle stelle resta una fissa costante. Credo sia una delle parole che usi più in assoluto.
Penso che la prima canzone di De Gregori che ho sentito nella mia vita fosse "Niente da capire", e inizia con "le stelle sono tante”... quindi c'è tutta questa tradizione. Mi ricordo che ero in un camping a Lido Delle Nazioni, non so se con gli amici, forse ancora con i genitori: i camping sono posti assediati da zanzare, fanno ridere perché sono spianate di erba, non è che sei in Corsica, però hanno un loro fascino... lì poi era incredibile perché la leggenda voleva che fosse il camping dove andava Morgan da bambino con la famiglia. Comunque: da una tenda a un certo punto è uscita questa canzone e io sono rimasto in piedi ad aspettare che finisse.

Anche la scelta di "Bene" come cover è un occhiolino a quel bistrattato disco di De Gregori.
Lui mi ha detto che quel pezzo sembra più mio che suo, non solo nella mia versione. Mi ha detto: "io l'ho scritto e mai più suonato". Quel pezzo è incredibile, è un film, c'è una vita dentro. È una stella fissa anche quella canzone.

Nel trafiletto che hai scritto per questo disco c'è una parte in cui ricordi quella volta che ti ha chiamato un numero sconosciuto ed era De Gregori.
...credevo fosse un call center e invece era lui. Io ero riuscito a mandargli "Per ora noi la chiameremo felicità", e lui mi ha chiamato e mi ha detto "è stato difficile trovare un tuo numero, ma il disco mi è piaciuto moltissimo. Guarda suono a Torino in Piazza San Carlo, vuoi venire a suonare prima e poi facciamo qualche pezzo assieme?". È stato veramente surreale. Mi fece persino cantare "Viva l'Italia" in chiusura del suo set.
Il giorno dopo suonavo all'Olimpico prima di Jovanotti, quindi sono stati proprio i tre giorni più nazionalpopolari della mia vita (ride). Giorni che mi hanno fatto anche molto bene perché mi hanno tirato fuori da quel circuito di riserva indiana senza indiani che si era creato, la mia, ma soprattutto la precente alla mia, erano generazioni un po' di astiosi o rosiconi nel mondo musicale. Spero che adesso che vanno per i quarantanni tutti abbiano trovato una buona sorte, dei buoni lavori che li abbiano rasserenati, perché c'era un astio veramente ridicolo.

Hai visto il revival di Nonno Indie su Instagram?
Sempre le stesse persone che si sono ritrovate, anche a me poi fa super ridere. Certamente c'è qualcuno delle mie zone che ricorda posti e momenti in cui c'ero anch'io. Fa ridere perché è la dimostrazione che hanno perso, e questo è un bene per l'umanità (ride). Fa ironia proprio su questo, senza recriminazioni: le recriminazioni dei geni incrompresi immagino saranno nei commenti, se nel frattempo c’è ancora qualcuno che non si è fatto una vita e continua a non avere il minimo rispetto o empatia per chi si espone e nella vita prova a creare qualcosa.

Nella nota sui social con cui hai annunciato tutto, dicevi che il nome Le luci della centrale elettrica era una cosa dietro la quale forse un po' ti nascondevi, ma con cui sei cresciuto. Tolto questo velo, il Vasco Brondi che è cresciuto lì dietro chi era?
Da un certo punto di vista, io ho sempre coltivato un sano distacco. Nelle canzoni ci metti sicuramente l'intimità più intima, poi questo lavoro è fatto di immagine e tutto il resto. Anni fa sembrava che fosse una bestemmia dirselo, ma questo è un lavoro. È il tuo lavoro: hai il tuo talento, devi coltivarlo, ma fortunatamente noi non coincidiamo con quello che facciamo. Avrei potuto fare il falegname, e dici "naturale che non coincidi con la falegnameria": con le canzoni, comunque, è lo stesso. E allo stesso modo qualsiasi lavoro fai ti permette di mettere dentro le tue qualità essenziali, di aprirti a quel lavoro e farlo al cento percento, e magari concepirlo come dono agli altri. Ma vale davvero per qualsiasi cosa: io quando facevo il cameriere lo facevo con attenzione, con concentrazione, stando con la testa, col cuore e il corpo nello stesso modo, e così faccio anche la musica; ma noi siamo più grandi della cosa che facciamo. Questo è ancora più chiaro se nella vita fai un lavoro che non hai proprio scelto.

E se non coincidiamo con quello che facciamo cos'è la cosa che ci descrive meglio?
Non è il lavoro che facciamo, forse le nostre azioni.

Eppure "se fai del male ti torna indietro centuplicato il bene".
(ride) Quella è una speranza strana del protagonista del brano. Non credo sia così.

In tante cose che hai scritto c'è questa cosa. Una sorta di redenzione persino nel male che si è: "felicemente al di sopra dei loro mezzi".
È più che altro un augurio. A me piacciono le contraddizioni, mi piace elogiare anche le nostre debolezze e i nostri difetti, perché la vera libertà è accettare queste cose qui. Però sotto sotto, poi, bisogna evolversi.

Certo, ero solo curioso di andare a cercare se esistesse qualche cosa che permette di ricevere bene centuplicato rispetto al male che si fa.
No, non esiste (sorride).

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L'articolo Vasco Brondi - Con te le stelle sono buone: di realtà e di tragitti conclusi di Pietro Raimondi è apparso su Rockit.it il 2018-10-12 11:00:00

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