Dimartino - Cara maestra, forse possiamo vincere ancora

Dai Famelika ai “Giorni buoni”, Dimartino ha attraversato vent’anni di musica italiana con l’indole di un poeta in battaglia, che alla fine, forse, ha vinto.

Dimartino (foto di Michela Forte)
Dimartino (foto di Michela Forte)

Cantastorie degli anni zero, cantautore tra amore e sconfitte generazionali, poeta delle piccole cose di provincia, quella provincia che l’ha visto muovere i primi passi in ambito musicale: era la fine del 1998 e a Misilmeri, comune della città metropolitana di Palermo che non arriva a 30 mila abitanti, nascono i Famelika. Con Antonio Di Martino ci sono Enrico Orlando (chitarra), Giusto Correnti (batteria) e Pippo Guagliardo (chitarra), e nel 1999 registrano la prima demo, “Davanti al plenilunio”. Antonio ha 16 anni e le idee già molto chiare: i brani della band segnano l’inizio di un percorso artistico improntato su una costante ricerca stilistica, sul giusto peso delle parole e sull’uso misurato e intenso di una voce riconoscibilissima e duttile, che si presta alle profondità come agli inimitabili giochi cristallini della sua estensione.

Nel 2002 pubblicano il primo album vero, “Storie poco normali” (Consorzio Operatori Artistici), dove il suono è decisamente rock, il piglio forse ancora confondibile, ma i testi contengono già in nuce il seme di ciò che sarà l’immaginario di Dimartino: un universo di innamoramenti, quotidiano filtrato tra toni di grigio, eleganza verbale che non diventa mai artificio. Non mancano elementi di critica sociale e di denuncia, già presenti in brani come “Giovà” e qui con “La villa del boss”, "Anonimo" e "Il blues del benessere". Negli anni successivi suonano tanto, su diversi palchi e con molti artisti, aprendo tra gli altri per Afterhours, Meganoidi e Caparezza. Nel 2006 il secondo album “Maschere felici”, nel 2008 l’ingresso di Simona Norato e un anno dopo la doppia vittoria di Arezzo Wave Sicilia e di Primo Maggio Tutto l’Anno, che li porta dritti a esibirsi al Concertone di Roma. Eliminano la kappa diventando Famelica, e poi la storia cambia.

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Nel 2010 nasce il progetto Dimartino, composto da tre ex Famelika: Antonio Di Martino (voce e basso), Giusto Correnti (batteria, percussioni e melodica) e Simona Norato (tastiere e chitarra). C’è chi li presenta al plurale, chi invece con quel nome si riferisce ad Antonio, centro di gravità del gruppo, anima, spirito e motore di qualcosa destinato a ritagliarsi uno spazio ben definito nel panorama italiano. È un anno di cose belle e diverse per la musica nostrana, di “Cattive abitudini” e “Mistici dell’Occidente”, di “Primitivi del Futuro” e momenti in cui “Per ora noi la chiameremo felicità”, e proprio Vasco Brondi, allora da poco tra i bagliori notturni de Le Luci della Centrale Elettrica, è uno dei tanti artisti che partecipano al disco d’esordio dei Dimartino, “Cara maestra abbiamo perso”.

Fuori per Pippola Music nel dicembre del 2010, l’album è coprodotto da Cesare Basile (presente anche nel brano “La ballata della moda”, cover di Luigi Tenco) e ci sono dentro anche Alessandro Fiori ed Enrico Gabrielli, allora entrambi nei Mariposa, e Lorenzo Corti. Microstorie di fallimenti, la sconfitta come ripartenza, un concept che gira intorno ai passi falsi per renderli formidabili agganci per una rivincita: come racconta Dimartino in un’intervista su Rockit, “L'ammissione di una sconfitta per me è la più grande affermazione di libertà, in fondo sono stati i perdenti a fare la storia. Napoleone dopo Waterloo nel memoriale di S. Elena, da esiliato, guarda con più lucidità alle battaglie, sia perse che vinte. Alla fine degli anni 70 si assiste alla Sconfitta Sociale per eccellenza, è lì che iniziamo a perdere una serie di pezzi che oggi ci mancano, ed è lì che vanno cercati. Per me gli anni 70 sono un pretesto per parlare dell'oggi, senza soluzioni preconfezionate si intende”.

Tra sparare a Capossela e cercare un’anima, ecco l’urgenza espressiva e la forza di un cantautorato saldo e ostile ai luoghi comuni, una manciata di ballate che sanno come mescolare morbidezza e spigoli, cosa che diventerà nel tempo un tratto distintivo di Dimartino: la poesia e i calci sui denti della vita, l’amore come ascesi e lotta, fotogrammi sbiaditi di ordinario che diventano protagonisti assoluti e vincenti in un ipotetico, lontanissimo altrove.

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Dopo aver partecipato al “Volume 2” di Brunori Sas con “Animal Colletti”, nel 2012 arriva “Sarebbe bello non lasciarsi mai, ma abbandonarsi ogni tanto è utile”, coprodotto proprio da Brunori e fuori per Picicca Dischi. Disco dell’anno per noi di Rockit, l’album segna il momento esatto in cui il progetto diventa qualcosa di più grande, delineando uno spazio preciso dove collocarsi e fare fortuna. Brani come “Non siamo gli alberi”, “Non ho più voglia di imparare”, “Amore sociale” esprimono un condensato emotivo dirompente e quasi liquido, e ancora la deflagrante intrusione di Giovanni Gulino dei Marta Sui Tubi in “Cartoline da Amsterdam”: gocce di sentimenti che esplodono per restare, pezzi divenuti ormai dei classici dove rifugiarsi la sera per ripensare un po’ alle cose, e a distanza di quasi dieci anni rigano ancora le guance come allora. In qualche modo la consacrazione, l’inserimento per merito in una scena in continuo mutamento, dove i cantautori si muovono per trovare una strada che sia allo stesso tempo personale e contemporanea. Nel 2012 anche gli esordi di Colapesce e Nicolò Carnesi, così, per ricordare.

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Dopo la parentesi elettronica con l’ep “Non vengo più mamma”, proposto insieme a un fumetto con illustrazioni di Igor Scalisi Palminteri e soggetto e dialoghi di Antonio Di Martino, arriva nel 2015 “Un paese ci vuole”: la provincia adorata e temuta, sterile eppure madre, culla e viatico, densa nella sua distanza dai nostri desideri. L’album si può ascoltare in anteprima in 350 paesini, a rimarcare l’appartenenza, nei contenuti e nei modi, a quel mondo a parte che è tutto ciò che non sia città. Registrato in campagna nei pressi di Misilmeri, il titolo è preso da una frase de “La luna e i falò” di Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Anticipato dall’intenso singolo “Come una guerra la primavera”, il disco esce ad aprile ancora per Picicca e vede la partecipazione di Francesco Bianconi e Cristina Donà, oltre alla voce narrante di nonno Nino in “A passo d’uomo”. Un lavoro che è un concept su chi rimane e chi va via, con le montagne a fare da freno e scudo, le amicizie e i sogni che restano, un’ulteriore conferma di uno stile ormai riconoscibilissimo e ricco di elementi originali.

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Nel 2017 c’è lo spazio e il tempo per un viaggio in Messico con Fabrizio Cammmarata, per un libro e un disco a quattro mani dedicato a Chavela Vargas, “Un mondo raro”, e arriviamo piano a oggi, a un presente che sembra, e in fondo è, così lontano dagli esordi di quel ragazzino siciliano che vent’anni fa decideva che in qualche modo la sua strada sarebbe stata questa: l’ultimo lavoro è “Afrodite”, uscito a gennaio per 42 Records (in collaborazione con Picicca), ed è viaggiare verso nuovi approdi, guardare al futuro, diventare padre e restare comunque quel ragazzo coi sogni stampati bene nella mente. Portato in tour nel mese di marzo, lo canteremo con Dimartino anche al MI AMI Festival il prossimo 26 maggio, per sciogliere col suo gusto e la maniera sempre giusta una domenica di piena primavera nel verde, e nella poesia delle piccole cose. 

 

 

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L'articolo Dimartino - Cara maestra, forse possiamo vincere ancora di margherita g. di fiore è apparso su Rockit.it il 2019-03-28 11:43:00

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