La guerra di Roberto: medico (senza mascherine) e cantante nella sua Bergamo

Roberto Longaretti, voce degli Spread, visita venti pazienti al giorno in Val Cavallina, uno degli epicentri del contagio. Ascolta i Verdena per sfogare la rabbia, e fa tutto quel che può per la sua gente

La copertina di "Vivi per miracolo" degli Spread
La copertina di "Vivi per miracolo" degli Spread

"Io sento solo il mio medico, che peraltro è il cantante degli Spread. Me le racconta lui le cose, dice che i bollettini non sono così sicuri, che non fanno tamponi a tutti e bisognerebbe quintuplicare il numero di contagiati. Mi racconta cosa succede ai suoi pazienti, che cosa vede, che succede a quelli che muoiono. Stava per piangere. Sta impazzendo. I medici avranno bisogno di uno psicologo alla fine di questa cosa". 

Così svelava cinque giorni fa Alberto Ferrari, nel corso della sua intervista a Carlo Pastore. Questo confronto tra il leader dei Verdena e Roberto Longaretti, voce della rock band bergamasca degli Spread, che nel 2018 ha pubblicato l'album Vivi per miracolo, ci ha colpito. Ci siamo immaginati le telefonate tra i due, le domande e le risposte, le bestemmie, i silenzi. 

Così lo abbiamo contattato, senza pretendere la stessa intimità. Ma con l'ambizione di ascoltare cosa stia davvero accadendo dalla voce di un uomo e di un professionista che da un giorno a quello dopo si è ritrovato in mezzo a qualcosa di abbastanza simile all'inferno, per come ci è dato immaginarlo dai nostri divani Ikea. E, perché no, per dirgli che ciò che stanno facendo lui e i suoi colleghi è qualcosa di grande, che siamo molto fieri di loro.

Roberto è medico da 12 anni, dal 2016, dopo un corso di formazione in medicina generale, fa il medico di base a Borgo di Terzo, un paese di poco più di mille abitanti a venti chilometri di Bergamo, in Val Cavallina, terre in cui il virus si è abbattuto in una maniera spaventosa, e in cui sta lasciando ferite che ci vorrà parecchio tempo a cicatrizzare. 

Roberto Longaretti, selfie
Roberto Longaretti, selfie

Alberto ci ha raccontato dei vostri confronti telefonici serali. Cosa vi dite?

Il carico emotivo che ti porti dietro la sera, quando rientri a casa, è molto alto. Le situazioni che mi sto trovando davanti da giorni sono molto ardue, complesse, oltre che ricche di sfaccettature. Avere una voce amica con cui potersi confrontare in questi momenti, anche solo per uno sfogo, è una ricchezza. Aiuta non poco. 

Che immagine ti senti di usare per provare a farci capire la situazione della tua terra, la bergamasca?

Purtroppo tutti noi medici non possiamo fare a meno di pensare alla guerra. Una guerra contro un nemico invisibile, che ha coinvolto tutti quanti – fosse anche solo per il lockdown che tiene tanta gente in casa – e che è esplosa con una potenza travolgente, all'improvviso. Una guerra anche per le condizioni in cui stiamo combattendo. Dobbiamo lottare per ogni cosa, dall'ossigeno ai farmaci, fino alle mascherine.

Ti senti abbandonato?

Un po' sì, è innegabile. La prima necessità che abbiamo dovuto affrontare è stata quella di reperire i mezzi di protezione per noi stessi e per i pazienti. Senza mascherine, occhiali, copricapo e via dicendo non si può fare praticamente nulla. Le protezioni sono essenziali non solo per non farsi contagiare, ma anche per non trasmettere il virus, se no mica puoi visitare un paziente. Adesso sono passate sei settimane dall'esplosione dei primi casi, ma per le prime due non abbiamo ricevuto nulla: tutto quello che abbiamo utilizzato è stato grazie alle nostre capacità di reperire strumentazioni sul territorio, o grazie alla benevolenza di persone comuni, che ci hanno regalato delle mascherine per portare avanti il nostro lavoro. Io ho ricevuto le mascherine da un industriale del mio paese.

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Ora le cose vanno meglio?

Solo in un secondo momento ci sono state date alcune mascherine chirurgiche, ma erano già passate almeno due o tre settimane dall'esplosione dei casi. E comunque troppo poche: ogni giorno dovresti buttare la mascherina FFP2, invece abbiamo dovuto per forza di cose riciclarle, per farle durare almeno 2 o 3 giorni.

Com'è la tua giornata? 

Parlerei della mia settimana, che non ha mai fine: inizia il lunedì e finisce il lunedì successivo. La giornata inizia molto presto, intorno alle 7 del mattino e finisce la sera tardi. Le visite in ambulatorio vengono ridotte al minimo per evitare che la gente circoli, si prediligono contatti telefonici, per messaggio e visite a domicilio solo ai malati. La sera arrivo a casa, passo un'ora a disinfettarmi, mangio qualcosa e vado avanti fino a mezzanotte a rispondere alle decine di messaggi WhatsApp dei pazienti che ho in arretrato. 

Ai tuoi pazienti è stato fatto il tampone?

Sui tamponi tocchiamo un altro tasto dolente: il tampone nella stragrande maggioranza dei casi viene fatto solo ai ricoverati. Quindi solo chi va in ospedale sa di essere positivo o meno. 

Questo significa che vai di continuo a casa di persone che non sai se sono positive, ma che molto verosimilmente lo sono.

90 su 100 sono positivi. Quelli tra loro che sono stati ricoverati e hanno ricevuto il tampone, sono quasi sempre risultati positivi. D'altra parte io visito in casa solo chi presenta febbre alta, tosse e difficoltà respiratorie. Mediamente sono tra le 15 e 20 visite ogni giorno. E quando entri in una casa visiti tutta quanta la famiglia. 

Roberto Longaretti, selfie
Roberto Longaretti, selfie

Le persone sono state curate adeguatamente in queste settimane?  

Io ho piena fiducia dei miei colleghi in ospedale, e del lavoro che stanno portando avanti. Tieni conto che facciamo molta rete, ci teniamo sempre in contatto, confrontandoci e aggiornandoci sulla situazione. Gli indirizzi terapeutici nelle settimane che sono trascorse si sono sempre più affinati, evoluti. Il problema è stato ed è la grande quantità di pazienti che hanno contratto questa malattia in brevissimo tempo, un'onda che ha messo in difficoltà le strutture ospedaliere. Il sovraccarico lavorativo è stato enorme, di difficilissima gestione. 

Hai avuto modo o tempo di domandarti "perché a noi"? 

No, mi sto chiedendo più che altro cosa posso fare per risolvere le cose. Quello sì, me lo chiedo tutti i giorni, a tutte le ore. Mi chiedo costantemente cosa posso fare per essere utile alla mia gente. 

Riesci a pensare al futuro? 

Sì. E ti dirò una cosa bellissima che ho visto in questi tempi così duri e difficili: nei paesi della mia valle ho trovato un'umanità e una solidarietà stupefacente. Ho assistito a infinite dimostrazioni spontanee di offerta di aiuto: per reperire l'ossigeno, per trovare le mascherine oppure qualcuno che facesse delle punture, o anche solo la spesa. Per me è come vedere ogni giorno germogliare un seme di speranza per questa società, una cosa che faticavi a pensare soltanto un mese fa. Questo mi dà fiducia, tanta. 

Stai riuscendo a suonare? 

Nelle ultime sei settimane no, il tempo è tutto dedicato ai pazienti. Sono stravolto, non so nemmeno come sto facendo a parlare con te ora. Ma spero di tornare presto a suonare: è la mia valvola di sfogo, ossigeno puro, mi fa ricaricare le batterie e mi aiuta a rielaborare le cose che vivo durante il giorno facendo il mio lavoro. 

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Farai una canzone su questa esperienza? 

Ci sarebbero da fare dischi e dischi su questa esperienza, sicuramente succederà qualcosa. Necessariamente. 

Che band servirebbe per raccontare il periodo che stiamo vivendo? 

È veramente difficile inquadrarlo in un'unica esperienza musicale, perché è un insieme di emozioni e di storie talmente varie e talmente intense che servirebbero tutti i generi, di tutto il mondo, degli ultimi 150 anni di storia, per poterle esprimere adeguatamente.

C'è una canzone che ti ha accompagnato, o che anche solo ti è rimasta nella testa in queste settimane?

C'è stata una domenica assurda, in cui ero rimasto senza mascherine e pure senza olio nella macchina e non sapevo come procurarmelo per andare a fare le visite. Fino a che con l'aiuto dei carabinieri sono riuscito a trovare una latta e ho potuto fare il mio lavoro. In auto, neanche a farlo apposta, avevo un cd del mio amico Alberto ed è partita Don Calisto (dall'album Requiem dei Verdena, ndr), che in quel momento era semplicemente perfetta. Dipingeva lo stato d'animo che stavo provando, che era rabbia pura per la situazione in cui siamo immersi. 

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Tu che sei il suo medico e suo amico, dì ad Alberto dei Verdena di finire questo benedetto disco. 

Lo faranno, sono sicuro. Ma sono i Verdena, e amano la perfezione.

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L'articolo La guerra di Roberto: medico (senza mascherine) e cantante nella sua Bergamo di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-04-09 15:03:00

COMMENTI (1)

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  • sebastianolongaretti 4 anni fa Rispondi

    Grande cugio! resistere, parola d'ordine per tutti soprattutto per chi come te ha fatto questa scelta di vita, essere medico non è aver scelto una professione, è aver scelto per una vocazione, Torneremo a sentirti urlare con la chitarra in mano e gli unici segni che avrai sulla pelle saranno quelli delle corde in fiamme della tua chitarra! ROCK