Ultraviolet Makes Me Sick - via mail, 21-04-2004

Vengono da Pavia e il loro stile li aveva già fatti notare con il precedente album “Soundproof”. Gli Ultraviolet Makes Me Sick di Alberto Anadone, Gianmaria Aprile e Davide Impellizzeri erano già stati infilati artisticamente in quella categoria che oggi si vuol chiamare post rock, anche se i diretti interessati non sono proprio di questo parere. Il nuovo album, “No Freweway, No Plan, No Trees, No Ghosts”, è il nuovo capitolo di un viaggio tra suoni raffinati e rarefatti, questa volta con l’aggiunta della componente vocale. Ne abbiamo parlato con Gianmaria Aprile e Alberto Anadone.



La vostra musica è stata definita a cavallo tra post rock, sperimentazione con richiami jazz, corrisponde al vero? Quali sono le sonorità e gli artisti cui vi siete ispirati?
AA: è sempre difficile parlare di ispirazione, anche perché l’ispirazione, o meglio, l’influenza di altri artisti c’è ma è sempre latente, nascosta nei cumuli di ascolti nelle nostre teste. Chi compone è sempre convinto di aver inventato qualcosa di nuovo ma sbaglia anche se è bello crederci. Per la sonorità che è uscita, pur non essendo un disco acustico ma molto più stratificato, direi che Neil Young, Nick Drake e sonorità americane alla Yo la Tengo sono rimaste nel lavoro, altre influenze magari si sentono meno come ambientazioni, ma sono comunque presenti come motore, come spinta.

Per la definizione del genere, credo che con il termine post-rock non si indichi nulla se non un contenitore con dentro di tutto, dall’ambient al math, mi trovo spaesato ad entrarci dentro, di sperimentazione ne facciamo ben poca se la vuoi rapportare a gruppi “sperimentali” come Starfuckers o A short Apnea, direi un rock cinematico con richiami jazz, potrebbe essere una definizione vicina a quello che facciamo, rock per sensazione, che non vuol dire rock sensazionale!

Che musica ascoltate?
GMA: personalmente, ho avuto la fortuna di ereditare una discreta collezione di vinili, che spaziano dal jazz al kraut rock, passando per la new wave…un po’ di tutto insomma. Poi ci sono molti ascolti derivanti dalla nostra web’zine…mi arrivano a casa diversi cd, rigorosamente di gruppi italiani, molto interessanti. Ascolto molto jazz, in particolar modo quello un po’ più ‘sperimentale’ di etichette come la Ogun, Enja, ECM.

Quali sono le differenze maturate dal primo ep al nuovo album, passando “Soundproof”?
AA: Tante, soprattutto nell’esperienza accumulata. Siamo partiti con un atteggiamento mentale davvero r’n’r’, nessuna sovraincisione e registrazioni in presa diretta. Così è stato per i nostri primi ep autoprodotti e per “Soundproof”, c’era una certa “urgenza” di esprimersi. Con il nuovo disco le cose sono davvero cambiate e abbiamo avuto il desiderio di ampliare le nostre conoscenze di studio, incidendo traccia a traccia, aggiungendo arrangiamenti anche durante le lavorazioni e chiedendo l’aiuto di Fabio Magistrali per mixaggio, editing e post-produzione. Sono cambiate molte cose nel corso dei vari episodi, soprattutto è cresciuta la nostra esperienza e la voglia di sperimentare non solo in fase di scrittura ma anche in realizzazione.

Cosa vi ha portato ad inserire la voce di Andrea Ferraris?
AA: Abbiamo lavorato aggiungendo arrangiamenti durante le lavorazioni, e tra i vari strumenti abbiamo pensato anche alla voce, non una voce portante, ma usata come strumento, ad arricchire e non catalizzare. Poi Andrea è un amico e una gran persona davvero con cui collaborare.

Che differenza c’è tra il mercato musicale italiano, quello inglese, quello Usa e quello australiano?
AA: Non so nei dettagli ma, visto che in Italia ci viviamo, mi piacerebbe un’esplosione dell’indie italiano, più risposte per noi dal mercato, più dischi venduti, più concerti e soprattutto più gente ai concerti. Ma il tutto è vincolato dal gusto comune, dovrebbe esserci più attenzione verso le realtà piccole e meno per MTV, ma è una questione di rovesciare le regole del mondo, non è per niente facile di questi tempi…
In ogni modo abbiamo avuto per lo scorso disco più feedback all’estero con la difficoltà logistica di risiedere in Italia: per assurdo ci ha recepito meglio il mercato estero ed è stato frustrante perché alcuni americani ci hanno pure chiesto via mail quando passavamo in tour dalle loro parti noi sapendo di non poterci permettere un tour dall’altra parte dell’oceano!

Che riscontri avete avuto dalla distribuzione all’estero?
AA: Buoni, Camera Obscura è un’etichetta indipendente molto stimata nel suo circuito, poi all’estero si consuma più musica in termini di dischi e concerti, e soprattutto penso ci sia più apertura mentale nell’accostarsi agli artisti. Se vogliamo rapportare il tutto in funzione del numero di copie vendute, beh, non c’è paragone pure essendo italiani, resto del mondo- italia: 20-0!

GMA: le vendite funzionano di più all’estero anche perché c’è la mentalità dell’acquisto on-line. Sono diversi i mailorder nei quali siamo stati inclusi, da quelli americani, ai cecoslovacchi e persino in Giappone…

Chi dovrebbe ascoltare la vostra musica e chi non dovrebbe farlo?
AA: Tutti i “vecchi” sentimentali in ascolto, su una sedia a dondolo di paglia davanti alla veranda con una birra in mano: sarebbe perfetto… sconsigliato per chi non sopporta il lento, credo. Un po’ come chi non ballava i lenti alle feste a scuola o ha la giacca di jeans con gli Iron Maiden sulla schiena… diciamo più consigliato a chi ha la scimmia sulla schiena che gli Iron…
GMA: sicuramente agli amanti del genere può piacere molto, altri lo troveranno un po’ troppo ‘post’, ma per noi è un concentrato di emozioni e di piacere; un disco spontaneo, che suona come noi volevamo.

Spiegatemi il significato del titolo “No Freeway, No Plan, No Trees, No Ghosts”.
GMA: è legato allo stato d’animo e alle atmosfere che abbiamo respirato durate le incisioni. Non avevamo nessuna strada da seguire, nessuna strategia e nessun fantasma che ci seguiva. Abbiamo lasciato la completa libertà alle nostre idee, cercando poi di ottimizzarle durante le incisioni. Credo che questa situazione sia una prerogativa di molti gruppi indie, avere la libertà di incidere quello che si vuole è una gran bella cosa…

E “Intimacy is jazz, disturbance is art”?
GMA: personalmente trovo che sia uno dei titoli e dei brani più belli del disco… Come dicevo prima, ascoltiamo molto jazz, e in parte credo che si possa percepire dall’approccio musicale che hanno alcuni brani. Pensiamo sia una forma di espressione molto intima, legata alle sensazioni di chi suona, vera come l’arte, che allo stesso tempo può infastidire, disturbare e manipolare le nostre menti.

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L'articolo Ultraviolet Makes Me Sick - via mail, 21-04-2004 di Carlo 'Ka' Mandelli è apparso su Rockit.it il 2004-04-28 00:00:00

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