Morose - telefonica, 23-11-2006

(Davide e Pier - Foto di Marc Mameaux)

Una lunga conversazione telefonica, Davide ha un tono di voce del tutto particolare e un modo di parlare più che forbito. Se mai facesse un reading incanterebbe tutti. Le sue parole scorrono ragionate, chiare e semplici. Ci racconta del lavoro in studio di registrazione, dei cambiamenti che hanno segnato la formazione della band e di cosa può voler - o non voler - dire scrivere un disco come "On The Back Of Each Day".



Partiamo da questo: avete avuto un incidente stradale appena arrivati a Torino, poco prima di entrare in studio per registrare. Centra qualcosa con la tragicità di questo disco?

Eh, è tragico perchè siamo costantemente nel centro di una tragedia. Il disco è tragico perchè è nostro.

Volevate conferirgli questo aspetto?
Non è che siamo partiti con un’idea precisa del disco. Avevamo dei pezzi che suonavano in un certo modo e un’idea di quello che si poteva fare. Direi che il disco fotografa bene quello che siamo e che siamo stati in questo ultimo anno.

E un disco “narrativo”? Vuole raccontare, se non proprio storie complete, piccole parti di un racconto?
Non penso che sia come intendi tu. Io penso che la qualità migliore del disco sia di riuscire con degli stimoli, degli input, a far sì che qualcuno ci trovi qualcosa di preciso.

Spiegami, deve trasmettere qualche messaggio a chi lo ascolta?
No assolutamente no, non vogliamo assolutamente che passi un messaggio e non ci sentiamo portatori di nessun messaggio preciso. Ecco, cerchiamo di disseminare qualche scintilla. Non mi è mai piaciuta la natura descrittiva che può assumere l’espressione artistica, io ricerco il lato evocativo. Penso che sia più stimolante, soprattutto per il fruitore.

Cos’è per te un disco “evocativo”?
Innanzitutto deve lasciare uno spazio all’ascoltatore così che lui possa inserirvi la sua storia, parte delle sue fantasie, i suoi desideri e le sue aspettative.

E’ stato pensato molto?
E’ stato sicuramente un disco più ragionato rispetto agli altri due, sempre, comunque, in una prospettiva musicale, non teorica. Non c’erano piani o programmi prestabiliti. Semplicemente abbiamo suonato insieme più spesso rispetto agli altri dischi, nella fase di composizione i pezzi sono venuti fuori suonando assieme. Questo ha dato più coerenza, anche perchè il periodo di composizione dei pezzi è stato piuttosto breve. E’ naturale che ci sia un aspetto maggiormente organico rispetto agli altri dischi che abbiamo fatto e quindi capisco che possa sembrare più costruito con un certo raziocinio.

E un “concept” album?
Nella misura in cui la parola “concept” parte da un’idea attorno alla quale poi ruotano i pezzi, ecco questo non lo è. I pezzi sono venuti semplicemente fuori. Poi il disco è stato creato dai pezzi, diciamo che è un lavoro più “dal basso” che dall’alto come invece dovrebbe essere un concept. Non c’è stata un’idea programmatica alla quale poi piegare la creatività per costruire i pezzi. E una proprietà che a volte esce fuori: più cose unite insieme fanno emergere qualcosa di diverso dalla semplice somma delle parti. E credo che in una qualche misura questo sia avvenuto, anche in virtù delle condizioni e delle contingenze che ci hanno circondato nella fase della composizione dei pezzi.

Cosa vuol dire “On The Back Of Each Days”?
E’ una frase che è uscita mettendo insieme delle parole tirate fuori a caso da un scatola. Io credo che rappresenti il disco perchè questo è un disco notturno.

In tutte le recensioni che ho letto questo disco è continuamente paragonato a “Drinking Songs” di Matt Elliott o a “Horses in the sky” dei A Silver Mt. Zion. Come vivete questo paragone?
Mah, ogni volta bisogna fronteggiare degli accostamenti impietosi, dal nostro punto di vista c’è ancora molta strada da fare. Io sinceramente non l’ho ancora sentito “Horses in the sky”, Matt Elliott ci piace moltissimo, diciamo che questa volta ci è andata bene...

Parentesi “economica”: come siete messi a soldi?
Assolutamente male. L’aspetto economico è assolutamente catastrofico, è meglio non pensarci.

Passiamo oltre allora. Come è andata in studio, come è lavorare con Fabrizio (Fabrizio Modenese Palumbo il produttore del disco, NdR) ?
E’ stata la nostra prima volta in studio, siamo arrivati totalmente impreparati. Alla fine il lavoro è venuto come volevamo venisse, e sicuramente è stato merito di Fabrizio che ci ha prodotto e di Marco Milanesio che ci ha registrato. Ci hanno dato una mano per arrivare a quello che volevamo fare.

Com’era il rapporto, vi sentivate a vostro agio?
Diciamo che le condizioni sono state da subito avverse. Diciamo che bastava una birra e un po’ d’aria condizionata per riuscire a “lenire il dolore”.

Secondo me in questo disco siete meno originali, a tratti sembra quasi un disco dei Larsen, sembra che abbiate sacrificato un po’ la genuinità che era presente nei lavori precedenti. Tu che ne pensi?
Il fatto è che mentre tu vedi 2 momenti noi abbiamo vissuto tutto quello che c’è stato in mezzo. E’ stata una cosa abbastanza lenta, tra le due registrazioni sono passati due anni, nel tempo due componenti del gruppi se ne sono andati. Il passaggio più brusco l’ho visto quando, un’annetto fa, abbiamo iniziato a suonare senza batteria. Ormai mi sono abituato all’idea e non mi trovo sorpreso di quello che è uscito perchè questa cosa l’abbiamo costruita abbastanza lentamente. Perchè poi una parte considerevole delle atmosfere che ci sono adesso risalgono all’esperienza di un paio di anni fa quando Pier non suonava ancora nel gruppo e insieme a lui e insieme a Marco Monica degli In My Room avevamo messo in piedi un progetto che sicuramente era molto più vicino alle parti ambientali di questo disco. Alla fine quando Pier è entrato definitivamente nei Morose e abbiamo perso la batteria le due cose si sono unite. C’è stata questa unione di fattori che hanno portato a quello che siamo adesso.

Ma ti piacciono i Larsen?
Io li ho ascoltati poco, l’ultimo non l’ho ancora sentito se devo essere sincero.

Fabrizio è una persona “ingombrante”?
Lui ha fatto il suo, noi abbiamo fatto il nostro. L’obbiettivo era comune e siamo stati entrambi soddisfatti, almeno, noi sicuramente. Semplicemente ci ha dato una mano a mettere in piedi questo disco.

Sinceramente, quali sono i gruppi che ti hanno influenzato ultimamente?
Sicuramente i Current 93, sono un gruppo che negli ultimi anni ho ascoltato parecchio. Poi uno può ascoltare delle cose e suonarne delle altre. Sto ascoltando i Pan American, mi piacciono molto i Labradford, mi piace Matt Elliott. E' chiaro che quel poco che ho imparato per suonare la chitarra l’ho imparato suonando le canzoni di Leonard Cohen, mi piace molto Nick Cave.

Un po’ di nozionismo:
Cosa significa per te la parola “sperimentale”?

Sicuramente è una parola... [pausa NdI] Quando ripeti una parola in continuazione poi questa perde di significato, questo succede con tutte le parole. Sperimentale dovrebbe essere qualcosa che mette un piedino fuori dalla normale amministrazione, questo, poi, può accadere in qualsiasi modo.

“Post-rock”?
Sincermente non ho mai capito cosa sia [ride NdI]. Ho sempre trovato inutili le etichette in ogni campo e sopratutto nella musica. Io ne ho due: mi piace o non mi piace.

Ci congediamo, progetti futuri?
Adesso cercheremo di suonare un po’ in giro. Spero in marzo di riuscire a fare un tour in Italia con Alina Simone, la cantantessa con cui abbiamo suonato in Francia. E' veramente meravigliosa, spero di riuscire a portarla in Italia.

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L'articolo Morose - telefonica, 23-11-2006 di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2006-12-13 00:00:00

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