Massimo Volume - Cattive Abitudini, la seconda parte, 12-11-2010

Da Pierpaolo Capovilla a Massimo Giletti, passando per Jonh Cage, gli Afterhours e i Baustelle. L'indie americano, quello italiano, le polaroid. Continua la chiacchierata tra Emidio Clementi e Michele Vaccari.



In un documentario, Capovilla de Il Teatro degli Orrori ripete una frase che può parere ingenua, tenera, ma che detta con la sua convinzione, con il suo senso di realtà, non puoi fare a meno di crederci e ti viene da invidiarlo per la forza con cui, è chiaro, lui confidi in questo: la poesia salverà il mondo. Io ho provato ammirazione per lui perché la vostra generazione ha visto le illusioni passargli davanti alla finestra. Alla mia hanno le hanno soffocate nella culla e dalla finestra si vedevano solo le antenne della tv commerciale.

Non credo in quello che dice Capovilla nel senso che probabilmente il mondo andrà a picco; ma non sono del tutto negativo, nutro speranza, lo vedi anche tu: siamo qui a parlare intorno alle parole, non hai nemmeno trent'anni eppure c'è un filo tra me e te, così distanti anche generazionalmente, un filo che lega quelli come noi, oltre a tutto. Non possiamo però pensare che tutto il mondo diventi come me e te, o come i pochi altri che credono nelle parole, nel valore delle parole. A 16 anni avevo qualche amico con cui mi scambiavo i dischi, ma erano due o tre. Quando mi sono trasferito a Bologna, eravamo venti a pensarla allo stesso modo, a vedere le cose nella stessa maniera. Credo nell'uomo, ma per ciò che concerne la poesia, l'arte in generale, purtroppo solo pochi ci credono, la capiscono, riescono a sentirla come un bisogno quotidiano. E non è del tutto un male.

Io, te lo dico onestamente, non mi vergogno di credere in un'aristocrazia intellettuale. Io so che può sembrare molto da puzza sotto il naso sto fatto, ma poi altrimenti se non la vedi così, sai cosa succede? Che ti viene fuori, come è successo, decine di poeti che probabilmente non lo erano, ma che si autodefinivano così e, senza esserlo, hanno ucciso la poesia, il valore umano della poesia, il ruolo sociale della poesia perché nessuno aveva il coraggio di destituirli coi fatti dal loro luogo di potere. Sono andati in giro con l'etichetta di poeti ma, nel frattempo, i veri poeti erano altrove. Erano tra i songwriters, e tutti si ostinavano a chiamarli cantanti, per sminuirli. Ma senza questi songwriters la poesia sarebbe rimasta un involucro, e grazie ai poeti ufficialmente chiamati come tali, la poesia, quella vera, non sarebbe più risorta da nessuna parte. Le canzoni hanno salvato la poesia. Non vogliono banalizzare la questione, ma mi sembra come quando mangi un piatto e subito ti sembra molto molto buono, poi vuoi scoprire cosa c'è dentro e scopri che ha i suoi segreti quel piatto, e invece certa arte contemporanea, certa poesia, non ti sembra molto molto buona quando la assaggi, ma riesci a fartela piacere, ad amarla, quando scopri cosa c'è dietro, il suo segreto però il piatto, in sé, l'arte, non c'è. C'è il prima, c'è il dopo, ma manca l'oggetto, la ragion d'essere dell'arte. L'ho provato sulla mia pelle con Cage. Le cose che ho letto di lui mi hanno fatto innamorare della sua musica. Quando poi ho ascoltato le sue cose, non ho provato la stessa sensazione. Il perché aveva sostituito il cosa, ma a me non soddisfaceva.

Il messaggio focale che secondo me manda "Cattive Abitudini" è: concentrati sul presente. Dimenticati della nostalgia per il passato. Smettila di farti venire l'ansia o di costruire castelli di carta sul futuro. Dedicati al povero presente, che tutti mettono in secondo piano perché è impossibile lavorarci non dà né le sicurezze del passato né le speranze del futuro. Il presente è un salto nel buio continuo. Penso a pezzi come "Coney Island", dove dici, si possiamo anche aspettare, la vita è a una fermata da qua, ma forse è meglio non perdere tempo. Mi sbaglio?

Descrivere il presente è la cosa più difficile perché, rispetto a passato e futuro, non c'è distanza prospettica ed è difficile trovarci fascinazione. Noi abbiamo lavorato nella logica del presente, dell'oggi, usando anche proprio il tempo verbale presente. "Cattive abitudini" nasce perché non avevamo urgenza di ricordare o di proporre soluzioni per il domani. "Cattive Abitudini" nasce per raccontare ciò che vediamo ora, qui, intorno a noi.

Dopo dieci anni, nonostante non siate mai rimasti fermi (tra romanzi, collaborazioni, progetti personali NdA), ma, dal mero punto di vista del disco inedito, sono passati dieci anni; siete usciti di scena in un '99 in cui la scena indie era ancora molto underground e siete tornati in un momento in cui la scena indie è molto più mainstream del mainstream stesso, oltre al fatto che, comunque, l'underground in generale adesso è più professionale, ben organizzato, corposo, forse meno sperimentale e innovativo di quando è uscito "Club Privé", ma di certo c'è più valore aggiunto, nonostante però i compromessi che molti hanno fatto, forse compromessi che possiamo chiamare sacrifici fatti per aprire una pista, per aprire una finestra su un mondo che per la maggior parte degli italiani nemmeno esiste. Penso agli Afterhours vanno a Sanremo, i Baustelle in heavy rotation su MTV, la Bandabardò ai dieci anni per la FNAC. Non guardo la cosa con disprezzo snob. La guardo e, trovandomi a parlarne con Emidio Clementi, che c'era prima di tutto questo, che ha visto quando le radici di questo fenomeno sono state piantate, e ha visto gli arbusti del rock indie italiano incominciare a germogliare di fronte ai suoi occhi e mi chiedo, quindi, che cosa pensi di tutto questo. Come Massimo Volume, in che modo avete guardato a questa strada inaspettata che ha preso l'indie italiano?

Nella maggior parte delle interviste che abbiamo rilasciato per "Cattive Abitudini", di solito i giornalisti ci dicono: Voi che avete visto il meglio dell'indie italiano, come vedete ora questa scena così triste, povera. Ecco, io, invece, sono d'accordo con te. La musica italiana adesso ha più credibilità. Vedo anche nelle discografie dei ragazzi della mia generazione, se c'erano dentro cinque sei dischi in totale era tanto. Adesso invece le cifre sono importanti, sono usciti tanti e variegati prodotti di valore. Certo, non siamo ancora al livello di considerazione pubblica dell'indie nordamericano, ma quasi. Ci siamo, e finalmente aggiungo, con in più un nostro bagaglio italiano di esperienza e di tradizione che ci caratterizza più che altrove.

Io a Sanremo non ci andrei mai. Non me ne frega, non ne ho voglia però secondo me è giusto mescolarsi, andarsi a prendere anche le fette di mainstream. Non ha più senso, nel 2010, fare distinzioni, mettere barriere. Per me, resta qualcosa di molto faticoso andare in una trasmissione come Domenica In ma è una mia cosa il fatto che sono uno snob e non ci andrei mai a parlare, che so, con Giletti, ma non ne farei mai un discorso ideologico intorno alla questione o porrei, per questa mia visione delle cose, dei limiti alle altre band dell'indie italiano. Se un altro ci va, sente di volerci andare, sta bene in quel contesto e in quelle situazioni, ben venga. Fa bene a tutto il movimento, secondo me.

Io sono per lasciare la libertà a chi vuole, a chi gli viene naturale, di abbattere il muro tra mainstream e underground, così magari si potrebbe tornare ad avere tutta la musica sullo stesso livello di scelta, quindi stessa promozione stesso lavoro di produzione eccettera, come negli anni '70 con i dischi da classifica e commerciali che partono dallo stesso piano dei dischi di Fossati o del primo Dalla, il cantautorato di qualità insomma, gli esperimenti e la ricerca; così, anche inaspettatamente, è il pubblico e non i discografici a scegliere chi fare arrivare al primo posto, quali dischi meritano e quali no. Ci vorrebbe una sorta di uguaglianza di partenza per tutti, e che sia l'ascoltatore a poter decidere e nessuno si lamenterebbe dicendo che non c'è stato supporto, siamo una piccola etichetta, le radio non ci passano il pezzo. Abbatterei i muri perché tutti abbiano le stesse probabilità di fare successo o di fallire. Sarebbe un bene per la musica italiana in generale, senza distinzioni. Sono mondi molto separati però sai che bello sarebbe un De Gregori che dice: Porca miseria ma sai che per questo disco mi prendo un gruppo, tipo il Teatro degli Orrori. Cioè poi Capovilla è uno che, beninteso, magari ci vomita sopra alla cosa, però io, sono sincero, un esperimento di questo tipo me lo ascolterei molto volentieri.

Venendo a un discorso più estetico, com'è nato il layout di questo disco?

Se parli del libretto interno, l'idea di utilizzare la carta intestate dell'hotel ce l'avevo ancora da prima di iniziare a pensare al disco. Lo ricordavo in un vecchio disco di Nick Cave, forse "Tender Play". In questi due anni ho raccolto ogni foglio di ogni hotel in cui sono stato. Per la copertina, all'inizio doveva essere un patchwork di nostre foto che ci descrivevano stampate in Polaroid perché c'era questa cosa del ritorno della Polaroid. Poi, però, non c'è stato il ritorno delle Polaroid in commercio, come si presupponeva, così abbiamo completamente cambiato strada e abbiamo provato a fare lo stesso discorso con le foto digitali. Un disastro: cadiamo in un discorso pericoloso però cazzo c'è poco da fare. L'analogico crea un'altra fascinazione. Il grafico ci ha mostrato il lavoro finale e sembrava una copertina del '96. Così abbiamo deciso di rivoluzionare tutto e destrutturare al minimo l'immagine. Ho proposto il lettering del segno, è piaciuto a tutti e Stefano Domizi ha realizzato il prodotto finito che vedi adesso.

Ora mi devi perdonare. Siamo in fondo all'intervista, quindi, domanda marzulliana per forza. Posso?
Vai. Sono pronto.
Le cattive abitudini: cattive abitudini o le abitudini sono cattive?
No! E' veramente marzulliana!
Già. Purtroppo non scherzavo. Quanti giornalisti idioti come me te l'hanno fatta?
No, nessuno. Comunque a dire il vero non ritengo le abitudini cattive, in generale. Ho un feroce bisogno quotidiano di abitudine. Per scrivere, per trovare la creatività, per dare delle regole alla mia vita giornaliera. A me questo titolo piaceva perché i vari personaggi che raccontiamo nel disco si portano dietro un certo vissuto che li accomuna, un vissuto fatto di quelle che, a nostro parere, sono cattive abitudini esistenziali.
Ah, quindi emettete un giudizio su queste storie, non le mostrate e basta?
Sì ma è un giudizio così leggero e così buttato lì che ci sta, anche perché tutto si può dire di buono di loro, dei personaggi che raccontiamo in questo disco, tranne che, a conti fatti, non abbiamo cattive abitudini.

Ci alziamo. Ci abbracciamo. Ci siamo voluti bene per un'ora. Ce lo diciamo con onestà. E' chiaro per entrambi che sia stato salutare ritrovarsi senza essersi mai visti prima. Fuori, la pioggia tenue continua a farci da compagna ideale. Prima di andarcene, arriva l'amico scrittore Jadel Andreetto per salutarci. Gli chiedo se ci può scattare una foto, che, nella mia testa che sorride mentre stringo timidamente Emidio a me, diventa subito una metafora di ciò che, in fondo, è stata questa giornata, di ciò che è, con estrema e vivida semplicità, "Cattive Abitudini" dei Massimo Volume: un'istantanea dal presente.

Rileggi la prima parte

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L'articolo Massimo Volume - Cattive Abitudini, la seconda parte, 12-11-2010 di Michele Vaccari è apparso su Rockit.it il 2010-11-12 00:00:00

COMMENTI (2)

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  • vanabass 14 anni fa Rispondi

    Bella intervista, condotta molto bene. E Clementi è un grande. E'IL grande.

  • mestessocredo 14 anni fa Rispondi

    intervista interessante...m'ha fatto capire un po' meglio quest'album che devo assolutamente riascoltare.
    poi un de gregori feat. teatro degli orrori....si sarebbe una figata !