The Carnival of Fools - A zonzo nel caos: l’epifania degli stolti



Non ricordo la prima volta in cui conobbi i Carnival of Fools di persona. Negli anni ottanta milanesi, il furioso movimento tellurico sotto la superficie della musica di plastica era chiaramente percettibile a chiunque desiderasse mettersi all’ascolto. Cercavamo di capire come sarebbe stato possibile creare un’alternativa alla musica italiana “sanremese”, ai cantautori che ancora se la menavano con le solite storie idelogiche (tranne un caso di notevoli eccezioni), al vuoto lasciato dai grandi gruppi degli anni ‘70 come gli Area e la P.F.M. I fermenti sono interessanti perché suggeriscono potenzialità, disegnano ipotesi di sviluppo creativo. A Milano si stava consolidando una nuova casa discografica indipendente, destinata a fare storia nella discografia italiana, la Vox Pop. E così, grazie a un amico, un giorno mi avvicinai curioso a un EP intitolato “Blues get off my shoulders”, firmato dai Carnival of Fools, band che ruotava attorno alla figura di Mauro “Gio” Giovanardi, già noto nella scena underground nazionale. Un EP (ah, bei tempi del vinile!) che conteneva una cover malatissima di “Summertime” (giù il cappello per George G) e sei canzoni di impatto notevole, escursioni tra il blues e i capillari più nascosti dell’animo umano. Un vero bozzolo vasodilatatore di musica. Con il nome della band preso da una poesia di Patti Smith (appena tornata alla ribalta dopo otto anni di “ritiro” con “Power to the people”, stesso messaggio di “vox populi”…) e un impatto live unico in Italia, questa formazione si apprestava a farci credere, a noi scrittori di articoli musicali, che anche l’Italia poteva contribuire al grande fiume della musica contemporanea internazionale.

A quel vinile lavorarono anche Manuel Agnelli (Gio mi ha ricordato che, scrivendo le note per questa antologia ha “scoperto che Manuel era sempre tra le balle. .. su 18 brani in 12 cè lui che canta (cori) o suona (piano). ..”) di lì a breve destinato a dare il via alla saga-Afterhours e a una carriera di produttore, e l’ex-Weimar Gesang (ma anche bassista degli Afterhours a inizio anni ‘90) Paolo Mauri, che sarebbe divenuto uno dei tecnici del suono e produttori di riferimento della scena italiana del decennio seguente, che co-produsse i Carnival of Fools; il batterista dei Fools, Max Donna, sarebbe poi stato batterista dei primi Afterhours: quando si dice disco seminale … ditemi voi se è un caso che Gio abbia scelto per questa antologia proprio il titolo “Blues get off my shoulders”. Io credo di no.

Un gruppo e la sua opera devono avere un valore intrinseco per durare. I due album seguenti (“Religious folk” del 1992 e “Towards the lighted town” del 1993) tra il lusco e il brusco, i Carnival of Fools ce li fecero aspettare a lungo. Ma ne valse la pena. Davvero, non sto esagerando perché son più vecchio e mi piace ricordare. Non fa parte di me. Credetemi, restano ancora oggi due delle produzioni di punta della musica rock internazionale alternativa di quegli anni. Anni in cui il mondo musicale “alternativo” non era organizzato come oggi, ma ancora in maniera molto dilettantesca (non lo si legga come un complimento, i ritardi che la musica italiana paga ancora oggi sono dovuti a troppi errori, presunzioni, arroganze e superficialità della scena “alternativa” degli anni ‘80). I Carnival of Fools ottennero riconoscimenti importanti, suonarono in Europa (prima che Gio lasciasse per i La Crus fondati assieme a Cesare Malfatti che, toh, fu anche chitarrista degli Afterhours, mentre gli altri Carnival si trasformavano in Santa Sangre) e anche come supporto per Nick Cave a Milano, scelti dal dinoccolato australiano in persona. La stampa specializzata li adottò indicandoli come gruppo di riferimento alla ricerca di radici musicali non propriamente italiane, radici che però facevano parte eccome del dna musicale della nostra generazione. Per Gio, che ama il blues e i grandi vocalist (da Elvis a Scott Walker, Jim Morrison, L. Cohen), l’esperienza di successo coi La Crus (che continua oggi), fu come trascinare a forza in superficie queste radici, per mescolare il magma creativo intriso di terra ricca con gli umori elettronici di quella prima metà dei novanta. La zuppa di personaggi che gravitarono attorno al progetto, diede vita a un ricco piatto che sfociò nella fremente scena milanese di inizio anni ‘90. Queste, in una nazione molto “primadonna” come la nostra, non sono quisquiglie, direbbe Totò.

L’antologia. Un viaggio sul filo delle sfumature, ora intime ora esuberanti ma sempre languide; una selezione che riesce a darci un’idea precisa di cosa accadde, discograficamente, tra il 1989 e il 1993, tra un EP e due album. “Not the same”, “Blah blah blues”, quel capolavoro di struggente inafferrabilità che è “Shehellshell”, l’amore per il paradosso, “Waltzing to nowhere”. Immagini nitide di paesaggi comunque inafferrabili. Ma oltre a tutto questo, alcune varianti troppo importanti per non esserci: ecco una versione straordinaria, forse superiore all’originale, di “Love will tear us apart” dei Joy Division, apparsa nel 1990 in un album-tributo prodotto dalla Vox Pop che fece rizzare i peli pure agli snob (stronzi suona meglio) della stampa rock inglese. Uscì come singolo con gli Afterhours (ma ancora toh!) sull’altro lato del vinilino, a rompere l’attesa per il primo vero album (“Religious folk”) del gruppo. Che ci azzeccava Ian Curtis con il blues e le radici? C’entra(va), soprattutto con l’ampiezza dello sguardo di queste incisioni che coprono un periodo di soli cinque anni. No, non mi dimentico “The fly”, firmata da un cantautore sfortunato chiamato Nick Drake, padre di alcune delle più belle canzoni della musica d’autore internazionale. C’è una canzone di Charlie Feathers e anche una dei Sonic Youth apparsa in un tributo alla banda di NYC. Ci sono dodici canzoni che non abbiamo mai potuto ascoltare in cd. C’è anche una traccia video per “Not the same”. Un’antologia come si deve, non la solita fuffa della discografia italiana che non sa cosa siano note di copertina, rimasterizzazione, ma conosce bene il prezzo, quello sempre pieno. Quindi speriamo che sia un precedente.

Tutto qui. Volevo solo ricordarvi di ricordare che in quegli anni, quando i Carnival of Fools arrivarono sulla scena, la nuova generazione di scrittori di articoli musicali e autori di libri rock, della quale ero tra i protagonisti, sentì che le cose potevano, dovevano, stavano per cambiare. E un po’ cambiarono. E un po’ lo dobbiamo anche a gente che sudò l’anima e bruciò un po’ di vita per regalarci la mappa al passaggio segreto verso strane inquietudini generazionali, scegliendo forme metaforiche invece che slogan da manifestazione di piazza o da stadio.

A me questo piace(va) da impazzire. Proprio come il Carnevale degli Stolti.

Davide S. Sapienza, Orobie Orientali, 5 gennaio 2003

La discografia :
- “Blues get off my shoulder” > minilp Vp4, Vox Pop (1989)
- “Religious folk” > Lp, Vp12 Vox Pop (1992)
- “Towards the lighted town” > Cd, Vox Pop (1993)
- “Blues get off my shoulder - The anthology” > Cd, V2/Sony (2003)



In occasione della pubblicazione di “Blues get off my shoulder” (l'antologia in uscita per V2/Sony il 7 febbraio 2003), pubblichiamo il testo scritto da Davide Sapienza che era inizialmente destinato solo alle copie promozionali del cd.

Qui a Rockit abbiamo invece pensato fosse molto più 'istruttivo' renderlo pubblco, grazie alla disponibilità dello stesso Davide.

Buona lettura...

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L'articolo The Carnival of Fools - A zonzo nel caos: l’epifania degli stolti di Davide Sapienza è apparso su Rockit.it il 2003-01-29 00:00:00

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