Man On Wire: America oggi

La provincia veneta e l'America, ma anche i grandi dischi, le immagini che scorrono una in fila altra, il silenzio sotto. I Man On Wire intervistati da Marcello Farno.

Puoi partire da una domanda classica come quella sul rapporto di una band orgogliosamente attaccata alla propria provincia friulana e ad un suono così internazionale, il bello è ottenere risposte come “è che quando si ha tanto silenzio attorno si cerca altro” oppure che “le emozioni non sono mai circolari”. Insomma, nei Man On Wire c'è sicuramente una passione per il grande West e tutta una serie di immagini americane, ma la loro bravura, il loro talento, li porta un passo più in là. E' stato uno degli esordi più fulminanti dell'inizio dell'anno, ora è partito il tour. Marcello Farno li ha intervistati.

Inizierei da una cosa. Venite tutti e quattro da band con percorsi diversi, com’è che vi siete trovate assieme uniti sotto il segno del folk rock all’americana?
Cristiana: Ci conosciamo da diverso tempo e pur avendo esperienze musicali diverse ci siamo resi conto della nostra età e abbiam pensato di far qualcosa da vecchi.
Stefano: Non posso smentire Cristiana, ma posso aggiungere che ci accomunano interessi e passioni non soltanto musicali e questo è raro nella "scena". Il vino, con la V maiuscola su tutti.

Oltra a quello, cos’altro è che vi unisce?
C: La buona tavola, l'amore per le cose semplici e nascoste e l'aria della nostra terra.

Da quando suonavate assieme come Man On Wire?
C: Da un anno circa.

Quindi la cosa di fare l’album è stata una decisione presa da subito?
C: In realtà il tutto si è concretizzato dopo la visione del documentario sul funambolo Philippe Petit, dal quale poi prendiamo il nome (“Man On Wire", di James Marsh, NdA). Le bozze dei pezzi erano in lavorazione da qualche tempo, e così la decisione del nome ha dato il via alla formazione definitiva del gruppo e alla volontà di entrare al più presto in studio. Diciamo che è stato tutto un po’ come un parto improvviso.

Che legame avete sentito tra voi e quel documentario?
S: L’idea di fare qualcosa di più alto delle nostre teste.

Che bella immagine.
S: Me l’ero preparata da mesi (ride, Nda)

Provo a indovinare, ma c’è stato tipo un gran disco che vi ha fatto scoccare la scintilla e dire ‘facciamolo’ anche noi?
S: Non proprio un disco, ma l'attitudine semplice e solare del folk di inizio anni settanta.

Avrei giurato di più su robe tipo gli ultimi Wilco o Arcade Fire
S: Sinceramente no. Sappiamo che è una cosa che pensano in molti. È che però crediamo che l'ispirazione parta dalle origini di una sonorità e non dalla sua ennesima, per quanto buona, rivisitazione.

Cosa ascoltate? Qual è l’ultimo disco che avete comprato?
C: Dire che ascolto di tutto può sembrare scontato, ma è la verità. L'ultimo disco acquistato è il primo EP di Omid Jazi (il quarto Verdena). Notevole, davvero.
S: Ultimamente mi piace molto Connan Mockasin, cantautore psichedelico neozelandese, e il gruppo The War On Drugs, che miscela il folk classico americano con le sonorità tipiche dei The Jesus and Mary Chain. L'ultimo disco acquistato è l'LP "Electric warrior" dei T.Rex, il suono più bello di quegli anni... forse di sempre.

Con che cosa ha a che fare il titolo dell’album, “West Love”?
C: È il titolo della quarta traccia del disco. Suonava bene.

Nient’altro?
C: Beh, il brano "West Love" parla dell'occasionalità che alle volte contraddistingue il nostro modo occidentale di approcciarci all'amore. Come titolo del disco invece "West Love" assume il significato di contenitore delle molteplici possibiltà di rapporto tra le persone in questo sporco mondo.

A proposito dei pezzi, a livello di immaginario sonoro, in tutte le canzoni si sente molta natura, molti colori. Quanto ha influito il posto dove vivete con l’atmosfera dell’intero album?
S: Se guardo da questa finestra vedo solo vigneti, cielo e montagne. Penso siano in ognuno dei brani del disco.

Che poi si viene a creare anche uno strano paradosso, se ci pensate. Essere così legati alla vostra terra, e suonare così ‘stranieri’ a livello musicale. Riuscireste a rinunciare alla prima, scegliendo di andare a vivere per sempre fuori?

C: Mai e poi mai. Sicuramente questa sarà sempre la nostra base.

Non è una risposta comune. Avete comunque in previsione di portarlo in giro all’estero il disco, con qualche data?
S: Ci stiamo lavorando, non nell'immediato, ma vediamo questo tour in Italia come una palestra per poi uscire.

Come sta rispondendo qui il pubblico?
S: Stiamo destando curiosità, per il nostro piglio sicuramente poco "nostrano". La gente in Italia è abituata alle urla e al rumore, anche nelle cene di famiglia. Forse proprio per questo il pubblico delle grandi città sembra esser più pronto a questo diverso ascolto.

In provincia dici si tenda a essere più caciaroni?
S: Non credo questo, è che quando si ha tanto silenzio attorno si cerca altro.

In realtà è una domanda semplice, anche banale forse, che però non possiamo evitare di fare a tutte le band che hanno un suono più internazionale che italiano, proprio come voi. Cosa manca qui rispetto ad altre realtà europee?
S: Le conoscenze. L'Italia è piena di artisti meritevoli di attenzione e talentuosi. La cosa che manca di più è un supporto tecnico capace, e un approccio tecnico consapevole da parte dei musicisti stessi. La figura mancante nell'indie rock italiano è il produttore.

Torniamo alle canzoni. Qual è il pezzo a cui siete più affezionati?
C: "Dust" e "Bare-Footed", perchè contengono quelle sfumature e quei dettagli che rendono così frastagliato il nostro sound.
S: "Autumn", perchè rappresenta l'equilibrio ricercato all'interno dell'intero disco

I testi di cosa parlano?
S: Sono fotografie di piccoli momenti di vita, la maggior parte di relazione

Me lo spieghi il “When I was a child I went to a church” di “Autumn”?
S: La relazione di cui parlo nel brano la accomuno alla sensazione che si ha da bambini entrando in una chiesa: non ti chiedi se è tutto vero o meno. Lo accogli.

Ho notato che i pezzi si sviluppano un po’ tutti sulla stessa scia. Iniziano con questi strani crescendo, e poi si adagiano su un mood dove l’elemento a essere sempre presente è la chitarra acustica, che dallo sfondo pare dettare il cammino. Ho notato che non cercate mai una struttura circolare che chiuda con un ritornello ben preciso. Perché?
C: Perchè sono brani nati da un susseguirsi di emozioni. E le emozioni non sono mai circolari.

Parlando invece della vostra etichetta, la Knifeville, che rapporto c’è? Molto familiare immagino.
S: Beh, il nostro bassista Marco Pilia è uno dei fondatori dell'Etichetta/Associazione Culturale maniaghese, assieme a Enrico Molteni che è un nostro grandissimo amico. Quindi il nostro rapporto è quello che c'è fra "quattro amici al bar".

Che futuro avete in mente per i Man On Wire? Che aspettative riponete nel disco?

C: Che porti ad un secondo disco. C'è già della carne al fuoco. Concluso il tour ci metteremo al lavoro.

Ultima cosa: Philippe Petit sarebbe contento di voi?
C: Crediamo che a Philippe Petit non importi poi molto di quello che accade intorno. Per questo ci piace.
 

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L'articolo Man On Wire: America oggi di Marcello Farno è apparso su Rockit.it il 2012-03-26 00:00:00

COMMENTI (1)

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  • 12 anni fa Rispondi

    avete sbagliato a linkare la pagina wikipedia dei The War On Drugs