Massimo Volume intervistati da Alessandro Baronciani

L'intervista a cuore aperto fatta da un fan: Alessandro Baronciani intervista Emidio Clementi dei Massimo Volume

Alessandro Baronciani intervista Emidio Clementi dei Massimo Volume sull'uscita del nuovo album "Aspettando i barbari"
Alessandro Baronciani intervista Emidio Clementi dei Massimo Volume sull'uscita del nuovo album "Aspettando i barbari" - Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi, disegni di Alessandro Baronciani

“Vivo in un posto dove tutto quello che accade sembra accadere per caso. Una strada attraversa il paese, il paese è quella strada. Nessuno ha scelto di vivere qui, ma c'è qualcosa che ci trattiene, perché anche se non c'è amore a volte, a volte c'è qualcos'altro”.
Se c'è una cosa che mi manca della scuola elementare è imparare a memoria le poesie. Mi piaceva, moltissimo. È una cosa che ho continuato a fare fino alle superiori. Mi ricordo che all'esame di quinta avevo imparato a memoria Baudelaire per impressionare la commissione. Mi piaceva anche ricordare a memoria gli incipit dei libri. Oggi non mi ricordo neanche i testi delle canzoni degli Altro. Ma c'è qualcosa che mi trattengo: ricordo “Da qui” dei Massimo Volume. La recito in auto quando ufficialmente ci perdiamo in qualche cazzo di paesino dove c'è una strada con due case e quattro gatti e le signore anziane sedute con la sedia del salotto per strada.

Ho chiamato Emidio Clementi al cellulare, quando mi ha risposto “Pronto!” sembrava che stesse già cantando.

Pronto Emidio?
Ciao Alessandro! Sei giù in Sicilia? Con Colapesce? O non sei ancora partito?

Vado la prossima settimana.
Me lo saluti?

Certo. Ti piace Colapesce?
Sì, mi piace, anche lui come persona.

Una vera pasta d'uomo.
Sì, sì!

Allora Emidio, hai abbastanza tempo? Io ho fatto tipo 25 domande!
Porca puttana!

Devi sapere Emidio, emh... ma posso chiamarti Mimì?
Certo, ...come vuoi.

Dicevo che, da quando avevo vent'anni i Massimo Volume sono uno dei miei gruppi preferiti. Non solo miei ma anche di tutti e tre gli Altro. Gianni soprattutto. A Matteo glieli abbiamo attaccati dopo e c'è rimasto sotto. Quindi questa è un'intervista che aspetto da una vita. Ho una domanda praticamente per ogni anno passato ad ascoltarvi.
Mi fa piacere!

Pensa che il primo concerto che ho visto dei Massimo Volume è stato a La Fuente di Fano. Era appena uscito “Lungo i bordi” da pochi mesi e noi sapevamo già i testi a memoria.
La Fuente era una vita che non lo sentivo pronunciare, era un locale che all'epoca andava molto!

Pensa che “Stanze” invece l'avevo comprato all'Underground di Bologna, in un formato allora introvabile: il cd. Si trovava solo in vinile e avevo paura che si rovinasse.
Ma adesso vale quello, perché è l'unico che non è stato ristampato, adesso volevamo portarli tutti su vinile con la Tannen. L'Underground invece era un posto molto inglese, anche la vetrina, era molto bello, poi ha cambiato posto, si è trasferito in Via Petroni. Ha vissuto poco, in quel periodo si vendevano solo cd e non ce l'ha fatta. È l'unico vinile che abbiamo fatto perché appunto non andavano più di moda.

Però ricordo il vinile di “Club privè”, o mi sbaglio?
No, nessun disco Mescal è uscito in vinile. E non abbiamo mai provato a stamparli perché poi ci sono stati una serie di passaggi, incasinamenti vari con i master, spero che venga bene ma...

I master di che cosa? Dei dischi vecchi?
Erano tutti della Mescal che poi è stata venduta e ha venduto tutto il catalogo alla Sony che poi l'ha venduto alla EMI e in tutti questi passaggi non si sa dove son finiti. Sono andati persi.

Mimi, ma nella vita vera cosa fai? Il tuo lavoro serio.
Nella vita vera insegno all'Accademia di Belle Arti, ho un corso di Scrittura, anzi due.
...Va beh! L'anno scorso ho girato molto perché era uscito un libro, ho girato tutto l'inverno con Corrado Nuccini, siamo stati a fare dei reading in giro, la musica, cerco di mettere insieme più cose possibili, vabbè, ma tu lo sai meglio di me.

Eheheheheh! Certo! E' che volevo fare la classica domanda che ti fanno quando sei invitato ai matrimoni e ti mettono al tavolo con persone che non conosci e ti chiedono che lavoro fai e più vai avanti e cerchi di spiegarti e più non ti capiscono. Per molti parenti fare fumetti vuol dire disegnare Topolino.
Mi ricordo l'estate scorsa ero con tutta la famiglia al Lido di Spina, sai il tempo di conversazione tra ombrelloni è quello di un mondo molto lontano da quello nostro, e mi chiedevano “Ma quindi allora tu suoni, so che stasera fai qualcosa a Ferrara”, “Sì c'è questo festival a Ferrara, suonano Il Teatro degli Orrori, i Tre allegri ragazzi morti” e poi ho pensato “Ma fammi star zitto dai...” Ahahah!

Ahahahahahhah!
Prima parlavamo di Mescal, mi ricordo nel libro di Andrea Pomini (“Tutto qui”, Arcana ed.), c'è stato un momento, prima di “Club Privè” dove vedevate tutti i gruppi diventare giganti, importanti, e invece i Massimo Volume sempre sul solito cavallo... Quindi avete provato a cambiare le carte in tavola registrando “Club privè”. Probabilmente è stato il periodo più difficile per voi. Oggi, invece, molti di questi gruppi, in un certo senso, sono del tutto scomparsi - parlo in un circuito rock – e invece voi siete tornati giovani un'altra volta. Penso soltanto ai La Crus, con cui avevate condiviso la copertina di Rumore. Oggi sembra che sia una scena completamente diversa da vent'anni fa, e voi ancora on the road con un nuovo disco forse quasi più bello di “Da qui”. Tu cosa pensi di questo?

Dici che abbiamo aspettato i cadaveri lungo il fiume? (ride)

Ahahahah! Ottima capacità di sintesi.
Credo che per accettarci ci volesse più tempo che per gli altri. E' vero che quel periodo, come raccontiamo nel libro, lo vedevamo con una certa frustrazione, perché poi c'era una scena florida, si vendevano tantissime copie di dischi, cominciava anche a richiederci una certa professionalità che prima non c'era e noi ci sentivamo un po' arrancare. Poi magari eravamo anche finiti in un mondo che in realtà non ci apparteneva. Mi ricordo che all'epoca si parlava dei singoli, ci chiedevano sempre se avevamo il singolo! Oggi non ne parla più nessuno, ma all'epoca non facevi un disco, dovevi fare un singolo, ma ce l'avete il singolo? Evvabbè! Noi adesso magari siamo più fortificati in quello che facciamo, mentre all'epoca un po' ne soffrivamo, eravamo un po' più schiavi dei nostri limiti e del nostro stile.



Quindi meglio Tempesta oggi che Mescal ieri? Come affinità intendo. Magari Tempesta è un po' più simile -per rimanere nel periodo storico – al Consorzio dei Produttori indipendenti.
Io non credo, credo sia anche diverso dal Consorzio. Noi non abbiamo mai fatto un disco con loro, però forse pure loro risentivano di questo momento florido e bisognava piazzare dei colpi, no? Invece mi sembra che il rapporto che c'è ne La Tempesta da un certo punto di vista sia molto più disincantato, dall'altro più vicino ai musicisti, non è che mi devo mettere a discutere con Enrico o con Davide del profilo artistico del gruppo, per esempio. Ed è una situazione che ci mette molto a nostro agio. Però devo dire il primo periodo della Mescal noi l'abbiamo vissuto ed era un bel momento, perché mi ricordo quando misero sotto contratto i La Crus, poi arrivarono anche gli Afterhours, si respirava una bell'aria. Poi s'è persa, come s'è perso tutto quel mondo, il mondo discografico, alla fine.

Ho vissuto quel periodo da ascoltatore ed era un momento bello per l'Italia perché c'erano moltissimi dischi validi, registrati bene, alternativi e soprattutto – senza sembrare patriottico – cantati in italiano. Era divertentissimo capire subito cosa diceva la canzone. L'ho capito al concerto dei CSI, nel tour di “Ko de mondo”, la gente felice che urlava “Vai Giovanni!”, “Forza Zamboni!”. Penso sia stata una delle prime volte che ho sentito lo stadio ad un concerto. “Dai Mimì!”.
E poi – credo - c'era già stata la stagione precedente: quella dei Litfiba, dei Diaframma, forse la prima, se non vuoi andare troppo indietro nel tempo a costruire una tradizione di musica indipendente alternativa italiana. Anche perché adesso vedo nelle collezioni di dischi di ognuno di noi molti più dischi di musica italiana rispetto all'epoca in cui mi sono formato io da ascoltatore, dove invece ce n'erano pochissimi. C'erano gli Area, ma quelli secondo me sono gruppi che sono stati recuperati in un secondo momento, ma che all'epoca appartenevano a nicchie e che forse erano già veramente preistoria.

Per non parlare delle registrazioni. Mi ha fatto molto strano leggere in “Tutto qui” della registrazione di “Lungo i bordi”, della difficoltà di registrare il disco, degli studi professionali costosi. Anche delle ingenuità come quelle di pensare che Fausto Rossi sarebbe stato un ottimo produttore soltanto perché si amavano i suoi dischi. Oggi è diventato facilissimo avere un prodotto discografico registrato in ambiente domestico. Penso che in quegli anni fosse difficile anche ottenere una registrazione e soprattutto distribuire la propria musica. Ogni volta che ci penso mi viene in mente Paul Dark Coppa, non so se lo conosci, è uno dei più grandi musicisti di Pesaro, lui suonava in un gruppo che si chiamava A.V. Gerenia. Pura psichedelia-punk e funk come andava sporco in quel periodo. È stata una delle prime persone che ho conosciuto in ambito musicale ancora oggi lo vedi in giro col Ciao tutto storto, non lui, il Ciao è tutto storto. Un giorno mi ha detto: “Cazzo, se la mia generazione avesse avuto Youtube quando avevo vent'anni, oggi il mondo sarebbe stato migliore”.
Infatti le registrazioni erano quasi uno spartiacque, riusciva a registrare chi era un professionista. Quel passaggio oggi non esiste più. Adesso è quasi l'inizio, oggi appena possono t'allungano subito un cd, registrato bene, che vabbè, lo fanno tutti! Mi ricordo che all'epoca guardavo a Parisini dei Disciplinatha che aveva pubblicato un disco, e per me era già un musicista, un musicista vero e proprio. Allora lo diventavi quando c'avevi il disco in mano. Adesso invece...

Oggi la prima cosa che fa un gruppo è andare a registrare le canzoni. Se queste canzoni funzionano, ad esempio, su Soundcloud, allora poi iniziano a chiedere di suonare in giro. Una volta invece i gruppi chiedevano di fare i concerti nei locali alla cieca. Era un po' una situazione a “uovo di Pasqua”, cioè con la sorpresa. Organizzavi un concerto dei Massimo volume, e chissà che cazzo suonano.
Ora passiamo al disco. Abbiamo iniziato parlando di Colapesce, ti volevo chiedere: ma questa cosa dei barbari, a me inizia a girarmi troppo per la testa, Colapesce ha scritto una canzone che si intitola “Barbari”, poi “Le invasioni barbariche”, il film, la trasmissione televisiva, Baricco che parla dei barbari, ma perché ce l'hanno tutti con i barbari?

E me lo chiedevo anch'io! Alla fine dopo che avevo scritto il testo della canzone, perché poi è nato da lì, quando è stato scelto come titolo del disco ho pensato che da un lato potesse essere troppo letterario, dall'altro anche piuttosto sfruttato. Nello stesso tempo ho pensato che potesse raccogliere un po' tutta l'inquietudine che c'era nel disco, e fosse anche abbastanza ambiguo, visto che dietro ai barbari è vero che uno può vederci sia un momento di inquietudine, di paura, ma anche perché no di speranza, di cambiamento. E alla fine abbiamo detto dai, rischiamo, buttiamola lì anche noi. I nostri barbari. E poi una volta individuata l'immagine di copertina anche quella mi richiamava un po' l'avvento dei barbari, questo sguardo spaventato che si gira verso l'ingresso, così almeno io credo, qualcuno che entra, e ci stava molto.

Potevi chiamarlo “Economia” e avresti spaventato molto di più.
(ridono)
Parlando sempre del disco penso veramente che “Aspettando i barbari” sia il primo vero disco dopo il vostro silenzio discografico. “Cattive abitudini” mi era piaciuto ma era un po' come quando ci si incontra dopo tanto tempo e ci si dice le solite cose: Tutto bene, come stai, ti sei sposato? Figli? Ma dai? Cacchio, son contento di rivederti, era da tanto che non ti si vedeva – come diceva Bugo. “Aspettando i barbari” invece è come se si fosse congelato il tempo appena finito di ascoltare “Da qui”.

Mi fa piacere, io li ho ascoltati uno accanto all'altro, ora senza dare dei giudizi, ma sai alla fine i pezzi sono come dei figli, anche se ho le mie preferenze poi non le dico mai, ma li ho riascoltati di seguito e “Cattive abitudini” è lentissimo, cioè mi sembrava lento, ma non così lento come mi è sembrato paragonato a “Aspettando i barbari”.



“Aspettando i barbari” segna anche l'ingresso delle tastiere, penso all'inizio di “Da dove sono stato” con quella Farfisa sgonfia a marcia bassa prima della batteria. Penso siano queste piccole introduzioni che cambiano canzone dopo canzone tutto il corso del disco, ma soprattutto quello che mi piace in “Aspettando i barbari” è la tua voce, che non è più confidenziale.
Sì, ok, quello è un passaggio, in realtà tutto quello che hai elencato ha a che fare con il modo con cui abbiamo registrato, per esempio per “Cattive abitudini” abbiamo utilizzato questo analogico estremo, alla fine c'era un suono molto caldo, molto bello, ma non abbiamo lavorato tanto sulle singole tracce, questa volta invece che avevamo più libertà d'azione, abbiamo usato il digitale e cromaticamente l'abbiamo lavorato molto. Anche la voce è più “secca”, gli strumenti anche. Abbiamo cercato di renderlo spigoloso. Una operazione che secondo me è riuscita, il problema è che quando siamo arrivati alla fine delle registrazioni di “Cattive abitudini” eravamo già pronti per il live perché avevamo provato i pezzi un'infinità di volte, visto che sono tutte take; stavolta invece ci siamo presi un periodo prima del tour per imparare a suonare il disco. Perché raramente siamo stati insieme nella stessa stanza quando registravamo tutti e quattro.
C'è stato veramente questo momento in cui gli elementi c'erano tutti ma era come avere un paziente che gli avevano aperto la panza, capito? E dici, porca miseria, adesso che dobbiamo richiudere per bene lo riporteremo tutto come era prima? C'era quel dubbio, no? C'erano tre chitarre di qua, un basso di là, la voce che avevo fatto a casa... e poi invece...

La voce l'hai fatta a casa, non l'hai fatta in studio?
Più della metà dei pezzi li ho registrati qui in casa, c'è una buona acustica, solo che sotto casa c'è un garage e quindi ci sono sempre macchine che vanno, vengono, litigi tra garagisti, quindi bisogna sempre ricominciare: “Questa è venuta bene”, “Aspetta, ah! Cazzo, no si sente l'auto!”. Registrare a casa è comodo, ma anche molto lungo. Abbiamo iniziato a novembre 2012 le prime batterie e abbiamo finito a giugno, e poi c'è stato il missaggio.

Volevo chiederti sul “Recitato” - è una delle domande che mi tengo dai miei vent'anni di ascolto dei Massimo volume - se per te è vero, io ci ho sempre pensato, ed è questo: se vogliamo essere punk, e in un certo senso minimalisti, dobbiamo togliere tutto quello che non è necessario. In questo senso il parlato dei Massimo volume è stato un passo avanti forse ancora più estremo di certo hardcore e screamo, perché comunque i punk cantavano, cantavano anche stonati, però cantavano, e invece la sottrazione ultima è stata la musicalità alla voce. Cosa rispondi?
Infatti io mi lamento sempre quando mi dicono che i pezzi sono “recitati”, no, sono parlati. È vero, specialmente in “Stanze” c'era l'idea di essere proprio i più concreti possibile, arrivare diretti. E' vero però pure che la voce - se non ci fosse più una distanza prospettica - ce l'hai proprio addosso. Bisogna stare molto attenti alle parole perché è un attimo che diventa tutto molto fastidioso, potrebbe diventare troppo continua, troppo vicina, e capisco chi dice che trova fastidiosa la nostra proposta, perché è sempre lì, la vorresti un po' allontanare da te 'sta voce, e non si riesce. Lavoro molto sull'utilizzo delle parole, per cercare di ridare una distanza prospettica a questa voce, però secondo me il limite estremo del parlato è la voce confidenziale di “Cattive abitudini”. Il passaggio successivo è che poi diventi veramente, troppo Alberto Lupo, troppo crooner, troppo una roba che comunque non ci appartiene, che non voglio che mi appartenga più di tanto, perché poi più passa il tempo più carichi la voce di basse, e lo vedo già l'angoletto dove vai a infilarti.

Infatti una delle cose che non mi piaceva di El Muniria era questa cosa che mentre ti ascoltavo mi sembrava di averti affianco, no! Cavolo, per favore rimani sul palco. Quindi, confermi la mia domanda? E' un'intenzione punk, di rottura, di limite?
E' nata così, innanzitutto da un limite, io non sapevo cantare, ma lì siamo ancora in ambito punk, e col tempo è diventato uno stile. Oggi è diverso, vedo variazioni in questo disco. Nelle registrazioni mi sono mosso molto sull'atmosfera dei pezzi, ho cercato di assecondarle il più possibile. Rispetto al passato ci son molte più rime, prima non le utilizzavo quasi mai, però alla fine mi sembrava che potessero aiutare anche - non mi piace come termine - una godibilità di fondo. Perché questo è un disco che nel suo essere spigoloso torni ad ascoltarlo con una certa facilità. Ti prende abbastanza per mano rispetto ai nostri dischi passati. Penso specialmente al primo, a “Stanze”, ma secondo me anche “Lungo i bordi” dove c'era, più che una freddezza, un certo distacco. Era difficile essere empatici con quei dischi.

L'altra cosa che mi piace di questo disco è il “non tirare le somme” che in “Cattive abitudini” sentivo. Quel: “(chi l'avrebbe mai detto di ritrovarci qui, giugno 2010 in un pomeriggio di pioggia e di sole seduti di fronte alle nostre parole?)” di Robert Lowell, che mi dava un po' troppo l'idea di “ritorno”. Qualcosa che forse ti è venuta in mente scesi dal palco dopo la reunion al Traffic Festival di Torino.
In realtà era più un'immagine mia che c'avevo in testa e mi ritrovavo a scrivere i testi dopo tanti anni che non lo facevo, e poi assume un significato più ecumenico, però è vero quello che dici, era un ritorno anche per noi.

Quello invece che mi stupisce di “Aspettando i barbari” e, non so bene come dire, ma immagina un ragazzo di vent'anni oggi, e per lui è come se ascoltasse per la prima volta “Lungo i bordi”. Fa lo stesso effetto.
Sono d'accordo e mi fa piacere come riflessione. Chiaramente lo sai, quando arrivi alla fine di un disco ci sono delle cose che torneresti a correggere, però se penso a tutte le cose che ci hanno stupito durante la lavorazione, che nessuno si aspettava e che alla fine sono uscite fuori, secondo me è venuto meglio di come ci aspettavamo che venisse, se ci pensi, su “Silvia Camagni” a un certo punto c'è una chitarra di Stefano che apre a metà il pezzo, una chitarra molto onirica, straordinaria perché è venuta fuori a canzone ormai chiusa, eravamo già in fase di missaggio. Così come anche il feedback molto controllato che apriva “Compound” e che poi trascina tutta la canzone; anche lì è una chitarra che è venuta a pezzo finito. Penso a tutti gli imprevisti positivi che ha avuto il disco che hanno creato il disco meglio di come ce lo immaginavamo.

Ora ho un po' di domande stupide. La prima è: pausa autogrill. Cosa fate?
Dipende da che ora è. Ora di pranzo: io sono tra quelli che vuole sedersi, e mangiare al tavolo, al contrario c'è comunque chi vuol fare in fretta e gli basta un panino. Però soprattutto grandi pisciate. Io ho una vescica molto ...come si dice? Tutti si lamentano perché ci fermiamo spesso perché io devo pisciare.

Un pappagallo per Mimì! (ridono) Ma quindi scusami mangiate in autogrill, non vi monta la tristezza?
Dici uscire dall'autostrada? Ogni tanto uno ci prova, dice: perché non usciamo dall'autostrada e ci infiliamo... solo che poi - lo sai - si perde un casino di tempo, anche se becchi un posto alla prima, poi fin quando t'arriva il piatto... una volta lo facevamo, avevamo una gestione abbastanza socialista e ci eravamo procurati anche una specie di guida Michelin e uscivamo, spendevamo delle centinaia di euro, dopo tutta la gestione economica è passata ad Egle e lì da socialisti siamo diventati sovietici.



Seconda domanda, non so se conoscevi i Kundry's love, un gruppo di San Benedetto con cui abbiamo suonato diverse volte - molto Massimo Volume. La loro canzone più bella diceva ad un certo punto “San Benedetto del Tronto, la riviera delle salme” dove salme era al posto della parola palme. Ecco la tua infatuazione per l'Africa, penso a El Muniria registrato in Africa, e alle note che hai lasciato su Rockit su “Il nemico avanza” e a tutti gli altri riferimenti nelle tue canzoni, vengono dalle Palme di San Benedetto del Tronto?
Cavolo! Sai che si stanno ammalando tutte? Porca miseria! Io soffro tantissimo di questo fatto, San Benedetto ha un paesaggio esotico incredibile. È un avamposto, che in qualche maniera sento che mi appartiene, dove potrei vivere. A me affascina tantissimo. È una Beirut, mi affascina e al tempo stesso mi intimorisce. E tutto quello che parla ...vabbè chiaramente sono stato diverse volte in Africa ma non è che l'ho viaggiata tutta. Ho una buona conoscenza, non dico da Salgari, però è un po' che lavora sul mio immaginario. San Benedetto, invece, specialmente il porto, un po' mi da quell'impressione lì.

Ma ci torni mai?
Non tantissimo però ha un grosso potere su di me. Mi affascina. Ho mia madre, i miei fratelli e degli amici. Quando ci invito gente che non c'è mai stata mi dice che gli sembra la classica cittadina della riviera adriatica, e per me non è così perché la zona del porto come c'è a San Benedetto è un po' più strutturata, se vai ad Ancona trovi il porto coi container, gli hangar, però a San Benedetto c'è quella realtà da porto mediterraneo, è bello.

Concordo. Rispetto a tutte le altre località turistiche San Benedetto ha qualcosa di esotico che altre città della riviera Adriatica non hanno.
Mi ha fatto piacere questa chiacchierata.

Ma come ti ho detto era la telefonata dei miei vent'anni.
Uno dei miei sogni, tu dirai chisse-ne-frega, però è una cosa che sento molto, mi piacerebbe andare a San Benedetto con un disegnatore a chiedergli di disegnare degli scorci della città. Perché le foto non sono mai poi così evocative, soprattutto per una San Benedetto mia, privata, dove si è creato tutto il mio immaginario, ci sono delle vie del porto che per me, per esempio, è la Monterey di Steinbeck, poi c'è un'altra strada dove io immagino, che ne so...

Scusami quella frase lì che c'è anche su Rockit, la Monterey di Steinbeck, ma non l'illustratore.
No, quello di “Vicolo Cannery”, vabbè poi “Uomini e topi”.

Mi sa che il mio è Steinberg... dei disegni incredibili con il mondo visto come su un piano, quasi.
Eh no, conosco un sacco di illustratori da quando insegno all'Accademia ma questo mi manca. Uno dei miei corsi è nel corso di fumetto, quindi tu Costantini lo conosci. Tra i miei colleghi, c'è Andrea Bruno...

Sì conosco tutti! Costantini fa un bellissimo festival a Ravenna che si chiama Komikazen. Dovevo andarci e invece sono in Sicilia. Ci vediamo spesso ai festival, e a Bologna al festival Bilbolbul.
Dai se vieni quest'anno per il festival sentiamoci.

Molto volentieri!
Tu dove sei, a Milano?

Sono a Milano e anche a Pesaro, anch'io subisco il fascino della riviera adriatica.
Una volta sono stato a Pesaro in un hotel di quei pochi attivi anche d'inverno, dentro era una struttura molto anni '70, molto da riviera adriatica. Il giorno dopo c'era un sole splendente e abbiamo fatto una passeggiata in spiaggia: meraviglioso. Tutti dividono l'Italia in Nord e Sud, bisognerebbe iniziare a dividerla est e ovest. Costa adriatica e costa tirrenica.

Il massimo della riviera Adriatica è vedere l'alba in treno, nella tratta Pesaro-Ancona che taglia le città fino a San Benedetto e oltre passando vicinissimo al mare.
E' meraviglioso. Cioè non so adesso se ecologicamente è stata una cosa terrificante, però è bellissimo passare proprio di lì.

In realtà mi hanno raccontato che nel periodo post unità d'Italia hanno cominciato a srotolare i binari della ferrovia e l'unico punto che i grossi proprietari terrieri avevano lasciato ai piemontesi era praticamente la costa, non volevano assolutamente che la ferrovia passasse in mezzo alle loro coltivazioni, ed è stata la ragione per cui i centri urbani più importanti prima dell'unità d'Italia, che ne so, penso a Urbino, Macerata, Ascoli Piceno, sono stati tagliati fuori e sono diventati meno importanti rispetto a Pesaro, Civitanova, San Benedetto, perché con la ferrovia hanno ingrandito improvvisamente il commercio e il loro mercato.
Grandi latifondisti e Stato Pontificio, sbattuti fuori dalla ferrovia!

-(ride) Li abbiamo fregati.
 

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L'articolo Massimo Volume intervistati da Alessandro Baronciani di alessandro baronciani è apparso su Rockit.it il 2013-10-03 00:00:00

COMMENTI (9)

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  • alessandrobaronciani 11 anni fa Rispondi

    @chickcoreadelnord, non ci crederai ma volevo sapere solamente soltanto se mangiava la caprese e invece è partito in quarta diretto per il bagno dell'autogrill.

  • chickcoreadelnord 11 anni fa Rispondi

    Molto bello il punto in cui si parla dell'incontinenza urinaria di Mimi.

  • francescogiubbilini.realizzazi 11 anni fa Rispondi

    Comunque a me El Muniria piace parecchio... ma parecchio :)

  • alessandrobaronciani 11 anni fa Rispondi

    Però se immagini i master dei dischi dei Massimo Volume come nella scena finale di Indiana Jones e i predatori dell'arca perduta fa meno male. Almeno a me fa meno male.

  • bussiriot 11 anni fa Rispondi

    io per la storia dei master persi sono rimasto più che male..... mi ammazzerei......anzi li ammazzerei

  • carteinregola 11 anni fa Rispondi

    nel mondo major non è per nulla una rarità che un master vada perso fra un cambio di catalogo e l'altro. la storia della musica è piena di dischi i cui master originali sono andati persi.

  • worlich 11 anni fa Rispondi

    ma solo io sono rimasto basito per la storia dei master vecchi andati persi?

  • federico.fiumanivirgilio.it 11 anni fa Rispondi

    Molto bella !

  • zagor 11 anni fa Rispondi

    ecco . le interviste dovrebbero essere sempre così . libere . bravi tutti !