I Cani - Come Breaking Bad

Nel primo disco ha raccontato la sua città e i suoi coetanei, con "Glamour" si è concentrato su se stesso. E poi i videogiochi, Tiziano Ferro, la nostalgia e la paura del successo. E' uscito il nuovo album dei Cani, ecco l'intervista a Niccolò Contessa.

I Cani ritornano con il secondo album "Glamour": l'intervista a Niccolò Contessa
I Cani ritornano con il secondo album "Glamour": l'intervista a Niccolò Contessa - Foto di Claudia Pajewski

Nel primo disco ha raccontato la sua città e i suoi coetanei, con "Glamour" si è concentrato su se stesso. E poi i videogiochi, Tiziano Ferro, la nostalgia e la paura del successo. Sandro Giorello e Marco Villa intervistano Niccolò Contessa in occasione dell'uscita del nuovo album dei Cani.

 

Il primo disco l’avevi fatto completamente da solo. Con “Glamour” come è andata?
Sono partito da dei provini fatti da solo come per il primo disco, però non volevo rifare tutto allo stesso modo, volevo provare a fare un disco che suonasse bene. Mi sono sempre piaciuti gli Offlaga Disco Pax e mi è piaciuto moltissimo il suono di “Gioco di società”, quindi ho chiesto a Enrico Fontanelli se gli interessasse lavorare a quest’album.

Se avessi avuto più soldi a disposizione, avresti provato a chiamare qualcuno di completamente diverso dal tuo mondo?
No, non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello di pensare a una produzione più pop di questa. Non so che senso avrebbe potuto avere provare a fare suonare da pop radiofonico un pezzo come “Introduzione”. So di poter suonare più friendly, ma non avevo assolutamente in testa l’idea di fare un disco più pop. Ho pensato a Enrico Fontanelli perché le cose che ci sono nei dischi degli Offlaga sono molto vicine al mio modo di concepire la produzione, tipo le basse frequenze, un amore per il suono analogico che suoni bene in sé, mentre io spesso distorco, faccio lavoro in digitale, effetti strani. E questo è il motivo per cui secondo me questo disco suona meglio: ci sono cose mie e altre che mancavano nel primo disco.

C’è un punto fondamentale da toccare, in questo album ti sei concentrato molto su te stesso. In redazione c'è chi l'ha apprezzato e chi no. Tu come vedi la differenza tra questi dischi?
Io non sono in grado di dire: “adesso scrivo un disco su questo” e poi riuscire a farlo. Come le canzoni del primo erano venute spontaneamente su quei temi, così le canzoni di questo sono venute su altri. Non c’è stata da parte mia una scelta a priori, anche perché i pezzi sono stati scritti nell’arco di moltissimo tempo e poi sono stati risistemati. Non c’è stato un momento in cui ho detto: “adesso scrivo il disco e lo faccio tutto su di me”.

Una differenza grossa tra gli album però la vedi anche tu.
Sì, sicuro. Evidentemente per me è stato inevitabile. Se sia un passo indietro oppure no, non sta a me deciderlo. Sono le canzoni che so scrivere adesso, in questo modo.

Nel primo disco raccontavi tante cose con uno stile molto vicino a un fumetto, che prende una cosa con leggerezza, ma poi se deve menare, mena. Qui invece parli di una sola cosa: tu che ti confronti con l’idea di glamour. Non è un po’ limitante come cosa?
Sicuramente non mi metterei a fare altri dischi su questo tema (Ride, NdR). A me piace insistere e questo credo si fosse già capito dal primo disco. In tanti mi hanno detto che quelle canzoni erano musicalmente e tematicamente molto uguali. Mi dicevano che parlavo sempre di Roma e dei miei coetanei romani che fanno sempre le stesse cose. Evidentemente mi piace prendere un tema di petto e scavarlo fino a che non so più che cazzo dire e poi passare ad altro. Forse è un metodo. In parte rispondo nel disco stesso, con “San Lorenzo”, in cui parlo dell’universo: è l’ultimo pezzo che ho scritto, poco prima di andare a registrare e in qualche modo apre una prospettiva su quello che farò in futuro.

Ecco, se sul disco ci siamo divisi, su una cosa in redazione siamo stati compatti: “San Lorenzo” non ci è proprio piaciuta.
Ci sono persone che la adorano.

Tienitele strette.
Ci sono anche dei famigliari, in effetti, quindi me li tengo stretti sì (Ride, NdR). Comunque ormai ho fatto pace con il fatto che non metterò d’accordo nessuno, mai. Anzi, sono molto contento di scatenare reazioni polarizzate: quello che per voi è una merda, per altri è il pezzo migliore del disco. Tutti quelli a cui l’ho fatto ascoltare mi hanno indicato brani diversi come loro preferiti. Sarebbe brutto fare un disco in cui ci sono due pezzi che piacciono a tutti e gli altri fossero filler che non interessano a nessuno.

Che tipo di reazione ti aspetti per questo disco?
La reazione che ho già visto, molto diversificata. E’ stato molto difficile scegliere con quali brani lanciare “Glamour” e infatti non abbiamo fatto una scelta. L’idea originale era di fare uscire il disco tutto insieme in streaming e sticazzi, tanto non sapevamo scegliere i brani più rappresentativi e sapevamo che le preferenze non si sarebbero coagulate intorno a un brano o a un altro. Siccome però c’erano i concerti da annunciare e i promoter avevano bisogno di tempo tra l’annuncio delle date e le date stesse, abbiamo deciso di fare uscire un pezzo in anticipo per fare tutti contenti. Abbiamo scelto “Non c’è niente di twee” perché io avevo scaricato l’emulatore dell’Atari ST, volevo fare il video in quel modo e “Twee” era il pezzo che si prestava di più. Fosse stato per me, però, il disco sarebbe uscito direttamente in streaming integrale e totale.

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“Lexotan” ha un punto di vista solitario o di coppia?
Avevo in mente una prospettiva di coppia quando l’ho scritta, però mi fa piacere pensare che si applichi tale e quale anche a un singolo. Mi sembra veramente una canzone semplice, in cui non c’è nulla da spiegare. Il senso è andare a cercarsi la felicità nei posti giusti e non nell’ambizione di cercare di essere qualcosa che non si è.

Le nostre lettrici vogliono sapere se sei innamorato.
Sono domande che normalmente leggo sulle riviste femminili, non sui portali di musica. (Ride, NdA)

Perché citi Vera Nabokov?
Per caso, come quasi tutto. Sapevo di questi aneddoti, che poi tra l'altro sono stati confutati ampiamente, pare che fossero tutte cazzate, di questa moglie leggendaria e di Nabokov che pare fosse una persona che non sapeva vivere, con lei che lo accudiva come una badante. Sono cose che ti stimolano l'immaginazione, ti rimangono in testa e dopo qualche tempo ti esce una canzone.

Una Vera Nabokov tu la cerchi o scapperesti da una così?
Non c'è nulla né di bianco, né di nero. Cioè: io non lo so, io scrivo canzoni su cose che in realtà non so. Non scrivo mai canzoni su cose che non mi turbano, che non mi lasciano un senso di dubbio: Calderoli mi fa schifo, quindi so che non scriverò mai una canzone su Calderoli.

A narcisismo come sei messo?
Quando si parla di se stessi, nel 99% dei casi si dicono bugie. Se accetti una cosa di te, non ne parli, perché le cose che veramente devi accettare sono quelle pesanti e di cui non vuoi parlare nelle interviste.

La parola “Glamour”. Da una parte lo critichi in quanto tale, dall’altro sembra che tu lo critichi perché ti spaventa e hai paura di fallire.
Più che parlare delle mode, che tutto sommato sono poco interessanti e anche molto passeggere, mi interessa parlare di persone. Negli ultimi anni ho visto molta ossessione per il successo e per l’apparire, a tanti livelli: in me, nel mondo, in Italia, nella gente che frequento e che più o meno si interessa di musichine, filmini eccetera. Ho visto anche esplodere in Italia un certo tipo di rap ossessionato dal successo e dal poter dire “sono meglio di te”. Mi interessava raccontare da una parte questo mito, che va dal mito dell’essere artista a quello del lavoro creativo e dell’essere famoso. Di questa cosa ho raccontato diversi aspetti e uno è quello a cui ti riferisci, ovvero al fatto che io, come persona, ho vissuto questa paura del successo e l’ho messa in una canzone.

Quindi il disco non è una macrocritica ma un racconto di questo tema?
“Critica” è un termine che uso sempre con le molle, uno prova sempre a raccontare e nel racconto c’è anche quella cosa lì. Ho sentito anche la paura e mi sembra onesto dirlo, perché non mi sento nella posizione di dire: “il successo è una merda, fate i francescani”. Nel mio vissuto c’è anche la paura, che poi è un tema che ritorna molto in questo disco. E’ tutto un discorso sul glamour e sul concetto del dover arrivare, che mi pare non ci fosse quarant’anni fa.

Forse quarant’anni fa era meno facile fare questo lavoro, c’era meno concorrenza dal basso. Adesso è una lotta tra cani.
Sì, perché ci sono i talent, c’è il rap, c’è la gente come me che fa i video su YouTube e poi fa un disco.



In un’intervista dopo il primo album hai detto "l'idea di diventare un personaggio dell'indie italiano mi terrorizza".
Faccio un discorso che spero non offenda nessuno, perché non c’è da offendersi. Nella musica è molto facile entrare in una logica tipo fare il disco, poi in tour per moltissimo tempo, poi inizi a fare i featuring - lo so che siamo usciti nel disco dei Perturbazione, ma l’abbiamo registrato a ottobre 2011 - poi fai il secondo giro di concerti acustici, poi la nuova formazione, poi la presentazione del libro. E’ un baraccone che non si ferma mai e io volevo il più possibile tenermi fuori da questo baraccone, anche se poi è un baracchino, non è come quello che c’è quando uno esce dalla casa del Grande Fratello. E’ molto più piccolo, ma per me è comunque importante. Per questo ho smesso totalmente di fare qualsiasi cosa legata alla musica quando è finito il tour del primo disco.

Però “terrorizza” rimane una parola molto forte.
Sì la parola era un po' forte, ma penso che ora sia chiaro, non è che esco di casa e - come Tiziano Ferro a Latina - non riesco a fare la spesa perché la gente mi ferma. Non capita mai questa cosa, ovviamente. Ma l'idea che se non c'è il disco c'è il concerto, se non c'è il concerto c'è il featuring, se non c'è il featuring c'è la comparsata del video, se non c'è la comparsata nel video c'è che ti chiamano alla presentazione del libro dell'amico tuo, se non c'è l'amico tuo c'è il concerto il finale del gruppo che ti chiama a cantare, capito?

Hai iniziato a fare concerti con il sacchetto in testa: era per nascondersi o per creare un personaggio?
Era entrambe le cose, da una parte era un po' una voglia di separare il gruppo dalla persona fisica in carne e ossa, perché la persona fisica in carne ossa è diversa e volevo tutelarla. E poi tipo "Breaking Bad": all’inizio c’è questa idea di mantenere degli spazi privati, che sono fondamentali. Poi il protagonista di "Breaking Bad" non ce la fa e non ce l’ho fatta nemmeno io, anche se poi non ho questo gran rischio di diventare troppo personaggio. Non sono uno che sta in tv tutti giorni, sono uno che conoscono forse diecimila persone in tutta Italia.

Alcuni di noi sono rimasti un po’ spiazzati: quando è stato citato da Saviano, il primo album ha raggiunto il punto di esposizione più grande. Mediaticamente era come se ne avesse parlato il papa. Da questo disco invece riparti da cose piccole, di nicchia, come il twee o la citazione dei Fine Before You Came: sembra quasi che volessi resettare tutto, che volessi tirarti fuori da quello che era successo.
In realtà avrei potuto pensare la stessa cosa del primo disco. Lo so che è assurdo da dire, con tutto il casino che c’è stato dopo, però quando scrivevo un pezzo sui ragazzini di 18 anni del mio quartiere che pippavano, sulle cose che facevo la sera non pensavo “mamma mia, sto facendo l’analisi antropologica della mia generazione”, pensavo “boh, provo a fare queste canzoni e vediamo che succede”. Le scrivevo perché mi sembravano diverse da quelle che si scrivevano in Italia, ma non pensavo di avere un ruolo di cantore di una generazione. Di fondo stavo sempre a parlare di cazzi miei pure nel primo disco, quindi non vedo tutta questa discontinuità. Poi non volevo sentire pesi generazionali, anche perché se diventa forzato è sicuro che viene male. Mi fossi messo a pensare “oddio, adesso gli hipster come sono fatti?” di sicuro sarebbe venuto male. Poi cosa ne penserà Saviano sinceramente non lo so. E’ da un po’ che non lo sento (ride, NdR).

Per come è strutturata, “Corso Trieste” l'hai scritta pensando di essere nei Gazebo Penguins?
Pensa che la musica l’ho scritta due anni e mezzo fa, con il primo disco appena uscito, mentre stavo ancora facendo le interviste. All'inizio la struttura era totalmente diversa, ma il giro di accordi e la melodia della voce era tutta uguale, quindi paradossalmente per me a livello musicale era una delle più continue con il primo disco, anche se poi è stato rimaneggiata parecchio. Volevo un pezzo potente, che riempisse e ho accettato i miei limiti: non lo sapevo fare. Grazie a dio però ho conosciuto gente che è capace di farlo e ho chiesto a loro. Capisco che possa suonare come un pezzo dei Gazebo Penguins, forse perché li stavo ascoltando in quel periodo. In realtà è molto mio e sono stato sorpreso di come sia stato facile per loro interpretarla e fare quello che bene o male avevo in mente.



Il pezzo e lo split con i Gazebo, la citazione dei Fine Before You Came: ti piace essere inserito in questa scena?
Quando è uscito il primo disco sembrava che quelli che fanno la musica vera, del sangue, del sudore, ecc, fossero quanto di più lontano anni luce dai Cani, anche se il sentimento di fondo per me non era poi così dissimile. Il fatto che poi si sia riconosciuta in qualche modo una certa sotterranea similitudine mi ha fatto molto molto piacere.

Fa anche un po' figo?
Boh, questo me lo dovete dire voi.

In “FBYC - Sfortuna” chiudi dicendo “vorrei stare sempre così, avere cose pratiche in testa, i soldi per mangiare, i dischi, i videogiochi e basta” e te lo ripeti tipo mantra. Ci credi davvero o stava semplicemente bene nella canzone?
Quello che uno scrive in una canzone non è la verità assoluta. In parte credo che sia sano occupare la propria mente con cose pratiche e in certe situazioni della vita ti può anche salvare. Poi non credo sia una cosa vera in assoluto: a me basta che suoni bene in una canzone. E mi suona bene perché ci trovo un grammo di verità: non c’è niente di ironico, anche se nelle recensioni dei Cani si legge spesso questa parola, usata anche a sproposito.

Cosa ti fa più paura del tuo lavoro?
Non saprei neanche se definirlo un lavoro, questo dei Cani. La differenza tra fare musica e fare il pane è che ogni giorno tutti comprano il pane fresco, mentre non c’è qualcuno che tutti i giorni ha bisogno di ascoltare canzoni nuove e la tua concorrenza è fatta da tutte le canzoni mai scritte. Quando ascolto un gruppo che mi sembra non abbia molto da dire o che copia in maniera evidente un altro, mi chiedo perché devo ascoltarmi loro e non direttamente l’originale. Hai l’esigenza di fare sempre qualcosa di nuovo e di stupire te stesso. Bisogna sempre mettersi in discussione, perché se faccio una canzone non ho un metro di giudizio oggettivo, che mi faccia capire se è una cosa che spacca o una merda. Ti devi fare mille domande faticose e usuranti.

Hai detto di non considerare i Cani un lavoro. Qual è il tuo lavoro allora?
Ho fatto un altro lavoro nei mesi scorsi e la differenza tra i Cani e l’altro lavoro è che questo aveva un contratto, dei contributi, la ragionevole certezza che sarebbe continuato più o meno a lungo. Lo so che siamo tutti più precari di qualche decennio fa e la musica lo è ancora di più. Per la musica si era precari prima e si è molto molto precari anche adesso.

Quindi quello che canti in “Storia di un impiegato” è vero?
Sì, è vero.

Non per farmi i fatti tuoi, ma l'altro lavoro è stata una scelta economica o per sentirti maggiormente sicuro?
Entrambe le cose, ma non vorrei nemmeno che questo colorasse troppo la lettura della canzone.

E’ piuttosto importante sapere se sia vero o meno, in fondo è la differenza tra raccontare e basta e vivere dentro una storia.
Io penso che un bravo autore sappia far suonare vere le cose che non lo sono e un cattivo autore riesca a far suonare false delle cose che sono vere. A me è capitato spesso di sentire delle canzoni d'amore che magari erano state scritte da uno che veramente s'era lasciato con la ragazza e c'è stato malissimo, ma in qualche modo non ti suonavano, sembravano molto stereotipate. Quindi, capisco la domanda, capisco che la curiosità venga, di fondo però io spero che una canzone venga giudicata per i suoi meriti.

Certo, ma come si fa a essere credibili?
(lunga pausa, NdA) Eh, boh.

Non è una cosa da poco.
Sai è una di quelle cose che se uno avesse la formula infallibile per rispondere la potrebbe applicare.

Va bene, ma qual è l'ingrediente per scrivere una canzone che funzioni?
E’ una di quelle cose per cui potresti dire: non lo so, però lo so quando lo vedo. Per me è così, credo di saperlo riconoscere, perlomeno nelle mie cose. Spesso scrivo un pezzo, non mi convince, lo riscrivo, lo riscrivo, lo riscrivo finché non mi soddisfa. Non ho una formula per arrivarci, ma ho gli strumenti per provare a riconoscerla.

Ci racconti come è nata “2033” e perché la canta Matteo Bordone?
Ecco, prima ho detto che non c'è mai nulla di ironico nei Cani… a parte questa canzone. Matteo Bordone l'ho conosciuto un po' di tempo fa perché abbiamo amici in comune e lui spesso parte con queste gag continuate che fanno molto ridere: una di queste era proprio l'hipster invecchiato, che è una cosa geniale. La moda è una cosa che sta sempre nel presente o nel futuro, pensare a due modaioli che guardano con amarezza o rimpianto il proprio passato era molto molto buffo e quindi lavorando su questo personaggio, che Bordone aveva fatto del Nord, mi è uscita quella cosa. E’ un po’ come l’espansione nei videogiochi, applicata ai Cani: il primo disco è quello che racconta i giovani, proviamo a vedere da vecchi che cazzo fanno, ribaltiamo il loro immaginario. E sempre per questo ribaltamento abbiamo deciso di mettere uno di Varese che canta in romanesco.

Quando l’abbiamo intervistato, Max Pezzali ci ha detto che gli piace, ogni tanto, infilare a forza alcune parole in una canzone, per destabilizzare e per sapere di avere un margine di manovra. Hai fatto la stessa cosa con la parola “twee” in “Non c’è niente di twee”?
Per me non è per niente infilata a forza, per me in quel testo è molto più inaspettata la parola “stronzi”. Comunque credo sia interessante spiazzare l’ascoltare con una cosa che non si aspetta.

Cosa ti piace nello scrivere una canzone?
Mi piace quando è finita (Ride, NdR). E' quello, è il gusto di fare una cosa che spero sia fatta bene,

Sei un perfezionista, quindi?
No, sono un approssimativo. Per fortuna c'era Enrico, che è più attento alle cose. Non sono un perfezionista, ma sono uno a cui piace una cosa fatta bene. C’è soddisfazione nell’immaginarsi una cosa e poi vederla realizzata. E c’è anche un senso di sfida, ovviamente. Un anno avrei detto che questo disco non l’avrei fatto, che non sarei mai stato in grado, perché mi sarei scontrato con i miei limiti. Il gioco è sfidarsi di continuo: se hai imparato a fare una cosa, non la devi fare più. Se hai imparato a scrivere canzoni sui pariolini di diciott'anni non è che poi ne scrivi 10, è finita, una volta che ne hai una fatta bene finisce là. Dall’altro lato, se fai sempre cose diverse rischi di farne di sbagliate, come scrivere “San Lorenzo” che a voi fa schifo.

Come hai lavorato con Fontanelli?
Ci siamo visti un po’ di giorni da me e poi un po’ di giorni in collina da lui. Lavoravamo ai progetti con il computer e parecchi dei suoi synth. Il lavoro era tutto un: “senti, ma tu cosa ne pensi di cambiare questo suono?”, abbiamo provato diversi sintetizzatori analogici molto belli e alcuni sono entrati nel disco.

Ma quindi avete fatto tutto voi due o anche gli altri che suonano con te dal vivo hanno partecipato?
Solo noi due.

Quanto è durato il lavoro?
In totale forse un po’ più di dieci giorni, divisi in tre tranche. Una cosa superintensiva. Sai, eravamo in collina, non c’era niente e quindi facevi quello per forza.

L’atmosfera un po’ 8bit di questo album è perché ti piacciono tanto i videogiochi o è un caso?
Sì, forse questa cosa è entrata più in questo disco che nel precedente. E’ da vent’anni che gioco ai videogiochi e poi questa elettronica vintage è anche tanto nell’estetica degli Offlaga Disco Pax.

“Introduzione” è una rivendicazione forte di come intendi fare musica e scrivere i testi. In che misura hanno inciso le critiche, anche durissime, che hai ricevuto dopo il primo disco?
Forse a livello inconscio: se del primo disco non si fosse parlato, mi sarei trovato a lavorare in modo diverso, ma nei testi di questo disco, l’unica frase in cui mi riferisco a quello che si è detto sul primo disco è quando canto “Non mi interessa l’opinione di chi la sa lunga”. E’ quella la mia reazione alle polemiche. “Introduzione” è una cosa che non si fa più, una dichiarazione d’intenti, ma mi piaceva l’idea di schiarirmi la voce prima di iniziare.

Cosa ti piace fare su internet?
Una cosa posso dirtela con certezza: da quando nel 1997 ho avuto il primo collegamento, non ho mai, mai, mai commentato nulla da nessuna parte, né in positivo, né in negativo. Un conto è commentare una cosa di un tuo amico su Facebook, ma commentare un video su YouTube o un articolo di un giornale è una cosa che non ho proprio mai capito.

In un’intervista avevi detto che gli hater li capisci benissimo.
Mi sarei preoccupato tantissimo se non ci fossero stati hater: avrei capito di aver fatto un disco sbagliato. Un disco senza hater è un disco innocuo e un disco che non dà fastidio a nessuno non ha molto senso. Molto meglio generare delle reazioni polarizzate che indifferenza o un tiepido “carino”.

In questi tre anni in cui hai fatto il musicista, c’è una cosa che non rifaresti?
Mi viene in mente una risposta molto stupida: non aprirei una pagina Facebook che si chiami ICani spazio LaBand. Era iniziata come profilo personale e quando l’abbiamo convertito non potevamo più cambiare nome. Questa cosa ci sta creando una quantità di casini, perché ci sono altre due pagine su di noi che non sono nostre ed escono sempre prima nelle ricerche. Ci tengo a raccontare questa storia come risposta a quelli che dicono: “I Cani, i genietti del marketing online”. Ma se siamo l’unico gruppo in Italia con una pagina Facebook con il nome sbagliato e che non si trova… A parte questa cazzata, non c’è nulla che non rifarei.
 

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L'articolo I Cani - Come Breaking Bad di Sandro Giorello e Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2013-10-29 12:35:13

COMMENTI (4)

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  • ilaco10 11 anni fa Rispondi

    cattiverrimi... poi avete chiesto di tutto tranne che della canzone su Manzoni (che è la mia preferita). Io sto ascoltando questo disco in loop, come col primo, solo che quello mi sembrava un vomitare acidità su tutto questo invece mi sembra cinico quanto basta e un po' più maturo. Sono arrivati comunque in due momenti perfetti della mia vita, due fasi, forse che non è in questo mood non lo apprezza punto.

  • federico.capone.52 11 anni fa Rispondi

    San Lorenzo migliore dell'album. No shit 'bout it

  • rasimettow 11 anni fa Rispondi

    anche a me piace un sacco San Lorenzo....
    ma 2033 dove si trova?io ho il disco preso da i tunes e non c'è.....

  • yvan81 11 anni fa Rispondi

    a me San Lorenzo piace tantissimo...