Nicolò Carnesi - Vogliamo anche le stelle

In un periodo in cui sappiamo tutto nell'istante in cui succede e l'America è così vicina da non bastarci più, l'unico modo per scappare è guardare alle stelle e provare a raggiungerle. Marco Villa intervista Nicolò Carnesi dopo l'uscita del suo secondo album "Ho una galassia nell'armadio"

In un periodo in cui sappiamo tutto nell'istante in cui succede e l'America è così vicina da non bastarci più, l'unico modo per scappare è guardare alle stelle e provare a raggiungerle. Marco Villa intervista Nicolò Carnesi dopo l'uscita del suo secondo album "Ho una galassia nell'armadio"
In un periodo in cui sappiamo tutto nell'istante in cui succede e l'America è così vicina da non bastarci più, l'unico modo per scappare è guardare alle stelle e provare a raggiungerle. Marco Villa intervista Nicolò Carnesi dopo l'uscita del suo secondo album "Ho una galassia nell'armadio" - Foto di Manuela di Pisa

In un periodo in cui sappiamo tutto nell'istante in cui succede e l'America è così vicina da non bastarci più, l'unico modo per scappare è guardare alle stelle e provare a raggiungerle. Marco Villa intervista Nicolò Carnesi dopo l'uscita del suo secondo album "Ho una galassia nell'armadio"

 

Il disco è uscito già da un po’, il tour è iniziato: come stanno andando le date?
In realtà finora c’è stato solo un accenno di tour: al Magnolia a Milano, poi un paese in Veneto e uno in Toscana. Una serie di date zero, diciamo. In veneto è stato un po’ difficoltoso, mentre a Milano è andata bene nonostante fosse una serata in cui c’era davvero di tutto.

Quello di Milano è stato un bel concerto e anche prima del live di Brunori all’Alcatraz, quando hai suonato in acustico era andata bene: la gente cantava i pezzi.
Sì sì… sta crescendo, lo vedo. Poi il disco sta piacendo a tutti, recensioni super positive. Dal vivo ci eravamo già fatti conoscere con l’altro disco, abbiamo fatto un tour lunghissimo. Adesso c’è Pasqua e poi torniamo a suonare, le prossime date saranno tutte in Sicilia. Sarà bello. Facciamo Catania, Palermo, Messina e poi risaliamo passando per Bari, Caserta, eccettera, fino a tornare a Milano.

Il disco mi è piaciuto molto, però rispetto al primo album ci sono meno canzoni con la c maiuscola. Quando lo ascolti va via alla grande, si sente che è molto studiato, però manca il pezzo in grado di farti saltare sulla sedia.
È vero, ma è stata una scelta mia. Volevo fare una cosa diversa. Il primo album era una sorta di best di cinque anni di vita, durante i quali non avevo nemmeno idea che alcune canzoni che scrivevo sarebbero potute finire dentro un disco. L’ho scritto in tanto tempo, quindi ogni pezzo è diverso dall’altro ed è uscito anche più lungo, con canzoni che spezzano un sacco l’ascolto. È uno dei pregi de “Gli eroi non escono il sabato”, ma secondo me anche uno dei difetti: manca di compattezza, di coerenza. Con il secondo disco avevo la possibilità di provare una produzione migliore e avevo le idee ben chiare: volevo che fosse tutto un’unica cosa. Il primo disco mi piace, ma non mi ha mai soddisfatto fino in fondo, perché sentivo le differenze di suono, di scrittura: tra un pezzo e l’altro erano passati anche tre anni e si sente, prendi ad esempio “Ho poca fantasia” e “Levati”. “Ho una galassia nell’armadio è stato scritto in un arco di tempo ben definito: è nata l’idea, ho scritto le canzoni e si sente che hanno una scia comune. Anche nel suono ho cercato di fare lo stesso, infatti più che le singole canzoni bisogna valutare l’album nel suo insieme, perché ogni canzone è legata a un’altra, pur non essendo un concept vero e proprio.

Visto che dici che non ti soddisfa, cosa cambieresti del disco vecchio se lo registrassi oggi?
La scaletta non la cambierei, sono contento delle canzoni, dalla prima all’ultima. Cambierei la produzione per dare più coerenza, ma mantenendo sempre la differenza tra le canzoni.

Il pezzo del primo album che dal vivo hai cambiato di più è “Voglio tornare a Zanzibar”, che inizia con una parte elettronica che non c’entra nulla con la versione originale.
Volevo cambiare anche perché i pezzi li ho suonati talmente tanto che sarei impazzito a rifarli uguali. Poi in questo tour sto usando la chitarra elettrica perché mi piace di più, mi diverte ti più, quindi tutti i pezzi vecchi sono stati riarrangiati in una veste più elettrica.

Foto di Starfooker

Dal vivo emerge la vena più new wave: tu sei chiaramente un cantautore, ma a livello musicale sei da tutt’altra parte.
Sì è vero e con questo album sono riuscito a far uscire di più questo aspetto, grazie a un produttore artistico come Tommaso Colliva, che è bravissimo con i suoni. Io gli ho detto l’idea che avevo, lui l’ha colta subito perché i provini già erano abbastanza definiti. Volevo fare uscire una parte del mio gusto musicale che è lontana rispetto al classico cantautore: quella è una definizione che mi andava stretta, perché gran parte delle canzoni non sono state scritte chitarra e voce. Nonostante fossi da solo, ho sempre avuto un’attitudine da band, anche se poi, uscendo con il mio nome, sono stato subito accostato ai cantautori. Certo, c’è un po’ di Battiato, di Battisti… ma Rino Gaetano no. Rino Gaetano me lo stanno facendo diventare antipatico: io conosco i suoi pezzi più famosi, ma non l’ho mai ascoltato. Per gusto personale non sono mai riuscito a finire un disco intero, però puntualmente in molte recensioni mi paragonano a lui. Basta avere un po’ di grana nella voce, magari solo perché fumi, ma come riferimento non c’è. Viene da chiedersi dove l’abbiano sentito.

Invece c’è qualche riferimento che ti saresti aspettato, ma che nessuno ha tirato fuori?
Ognuno può sentire quello che vuole, ma molti riferimenti sono corretti, anche perché sono io ad averli indicati. Ad esempio i New Order nel giro di basso de “Il disegno” e poi altre ritmiche esplicitamente new wave, quindi Cure e Joy Division. Negli arrangiamenti invece è più contemporaneo: uno dei riferimenti più grossi a livelli di suoni sono stati i Phoenix, mentre le parti più riverberose vengono da nomi come Washed Out o Toro y Moi, questa gente qua. Poi ovviamente i Flaming Lips. Ho fatto un miscuglio, con Tommaso ho cercato di dare dei tocchi che ricordassero robe estere.

Ne avevamo già parlato nell’intervista prima dell’uscita del disco, quando ci hai detto che avevi suonato praticamente tutto da solo. Come si fa a un certo punto a uscire da questa modalità di lavoro per confrontarsi con qualcuno estraneo alla realizzazione dell’album?
È una cosa che è accaduta senza difficoltà, anche perché Tommaso ha capito subito cosa avrei voluto fare. Poi devo dire che mi piaceva molto passare da un “solo sono io” a un confronto con qualcuno che mi facesse rimettere in gioco. Io sono molto sicuro, ma quando capisco che un consiglio è buono sono pronto a stravolgere tutto. In alcuni pezzi è successo, ad esempio in “Cassandra”: in origine il ritornello arrivava dopo due minuti, le strofe erano invertite, insomma abbiamo cambiato tutto. “Illuminati” invece era un pezzo rock, con chitarroni e urla, ma abbiamo messo un drum machine e una slide suonata da Roberto Angelini che hanno caratterizzato tutta la canzone.

Se questo è l’approccio, perché sei uscito come Nicolò Carnesi e non come cantante di una band?
Avevo provato a suonare con delle band, ma quando si tratta di scrivere e di arrangiare sono un po’ fascista, non riesco a confrontarmi. Le cose vengono fuori perché io sono da solo e mi dedico al massimo a quella cosa lì. Le canzoni venivano bene in solitudine e ho continuato così. Non c’è mai stata l’intenzione di una band.

Foto di Manuela di Pisa

Dappertutto, anche nell’altra intervista, si è parlato della fisica quantistica nei testi, ma non è vero, non ce n’è tanta.
Ma infatti, in molti hanno scritto che è un disco dedicato alla fisica quantistica, ma non è così. L’ho usata come metafora, ma alcuni hanno commentato dicendo “ah, ma questo dice un sacco di cretinate, la fisica quantistica è un’altra cosa”. Ma è ovvio: io non sono un dottore, non sono uno scienziato. L’idea è nata leggendo dei libri, ma volevo usarla solo come metafora e su come i fenomeni cambino con la presenza o meno di un soggetto che li osserva. Mi piaceva questo concetto di non essere sicuri, che poi è quello che succede sempre nella vita: hai un’infinità di scelte e sei sempre costretto a prenderne una, in base anche a fattori esterni. E magari scegli qualcosa di completamente diverso rispetto alla decisione che avevi preso prima. E poi mi piaceva il dualismo tra fisica classica e quantistica, un dualismo che torna in ogni canzone, perché c’è il mio punto di vista che si confronta sempre con una sorta di punto di vista universale: sono semplicemente due modi di vedere la stessa identica cosa.

Anche sui testi avevi già le idee molto chiare?
Sicuramente avevo intenzione di parlare più di me, perché nel primo disco raccontavo storie che a volte non erano molto vicine a me. Le vedevo, le filtravo con la mia sensibilità, però di fondo non mi appartenevano.

Qual è il tuo approccio alla scrittura? Da dove parti?
Non è mai successo che partissi dicendo: “adesso faccio una canzone su questo tema”. Spesso in questo disco è nata prima un’idea di musica, di melodia, da cui poi uscivano anche le parole. Abbozzata la prima strofa, capivo bene o male la linea che la canzone stava prendendo e quindi arrivava tutto il testo.

I testi sono pieni di parole molto lunghe e strane, che di solito non si trovano nelle canzoni pop, in cui si cerca sempre di troncare il più possibile.
Ci sono perché ci stavano bene, perché mi accorgevo che magari “antigravitazionale” entrava alla perfezione nel “nananana” della melodia che avevo in testa. Sono lunghe, ma non sono forzate: a livello di metrica vanno bene, non superano mai la battuta. È tutto molto quantistico.

Non avevi paura che i ritornelli fossero troppo difficili da cantare?
Sì, ci ho pensato e sapevo che non sarebbe stato un disco facilmente cantabile. Quando senti Brunori ti chiama proprio la cantata da stadio, questo no. Però alla fine è una cosa che devi accettare, pure i Baustelle sono amati dal pubblico ma non è facile cantare le loro canzoni. Alla fine è sicuramente bello da musicista sentire la botta di gente che canta, però fondamentalmente suoni per farti ascoltare. Nei concerti dovrò mischiarle bene con quelle del disco vecchio, però non puoi scrivere le canzoni in base a come la gente potrebbe cantarle.

Foto di Starfooker

I pezzi mi sembrano anche meno narrativi: quello più legato a una storia è “La grande fuga di Alberto”, me lo racconti?
Alberto è Albert Einstein. In quel periodo leggevo molte cose in cui saltava fuori il suo nome. Anche perché lui è quello famoso, la popstar dei fisici. Mi piaceva questa idea di fuga, di scappare da tutto con la mente, anche perché le grandi idee arrivano dalla follia e dall’isolamento mentale, non fisico. Mi divertiva questa cosa della grande fuga di Alberto perché mi immaginavo una sorta di Einstein contemporaneo, tipo un 18enne ad un concerto che scappa via da tutto quello che lo circonda. Semplicemente questo. È la storia di una fuga mentale che porta delle idee. Tutta la canzone è una sorta di pensiero che ti porta via dalla realtà, che nella maggior parte dei casi è noiosa, a meno che tu non abbia bevuto.

Il 2014 è iniziato con l’uscita di tanti dischi di cantautori italiani. Qual è quello che ti è piaciuto di più?
“L’amore fin che dura” dei Non Voglio Che Clara. Mi è piaciuto tutto di quel disco, la scrittura, le immagini, anche il modo in cui lo hanno arrangiato, che è molto vicino al mio gusto. Poi mi sono piaciuti anche Brunori, Dente, Le Luci della Centrale Elettrica, però quello per me è un po’ più in alto.

A proposito de Le Luci: tu hai una galassia nell’armadio, lui parla di “Costellazioni”, è un caso?
No, non è un caso. Anche nell’arte, nella grafica, nei film, in questo periodo c’è una tendenza a uscire dal pianeta. Siamo così bombardati di informazioni da tutti i lati che sappiamo praticamente tutto nel’istante in cui succede, non ci incuriosisce più nulla. Anche l’America non sembra più così lontana come poteva esserlo 10, 15 anni fa: quindi dove si può andare? Vai verso i misteri assoluti che non verranno mai risolti, come la vita, la morte, l’anima, le cose che non puoi toccare e rimarranno sempre avvolte dal mistero. Oppure te ne vai lontano e credo sia naturale che in questo periodo storico ti venga da guardare alle stelle o che molti siano affascinati da questi mondi così lontani, ma che riusciamo a percepire grazie ad alcune tecnologie. Per dire, il telescopio Hubble ha mandato immagini pazzesche di posti lontanissimi: in un buchetto di Giove ci entrano tipo 5 Terre, sono concezioni di spazio e tempo che non possiamo nemmeno immaginare. Nel mio disco ho avuto un approccio più matematico, Vasco Brondi più astronomico. Ma non è un caso, l’ho visto in tante altre cose.

Hai già scritto qualcosa di nuovo o se in fase tabula rasa?
No, troppi impegni legati al disco. A Milano non sono ancora riuscito a scrivere una canzone, però adesso tornerò a casa qualche giorno e probabilmente inizierò a scrivere qualcosa. In queste settimane mi sono un po’ bloccato sulle accordature aperte, quei suoni che ricordano il deserto, il folk americano.

Le stelle e il deserto sono molto legate, in fondo.
Sì, poi questo disco ha avuto questi suoni, io voglio cambiare, mi annoio facilmente. Le cose mi sdegnano, come diceva mia nonna: quando ero piccolo lei sapeva che mi piaceva una pasta e me la faceva sempre per farmi contento, finché all’improvviso non mi andava più e non riuscivo nemmeno a mangiarla. Credo che con i dischi sia più o meno la stessa cosa. Spero che il prossimo sia completamente diverso.

Foto di Starfooker

Hai mai scritto per altri?
Per ora no, ma è una cosa che ho in programma, perché ho un contratto con la Warner come autore. È una cosa che mi affascina e che farò, anche perché mi piacerebbe togliere le vesti da Carnesi cantautore e fare altro. Però devo dire che la musica italiana non mi piace tanto e nemmeno il mondo che c’è dietro. Prima da Palermo lo vivevo per sentito dire, adesso invece l’ho visto in prima persona. Ci sono delle dinamiche che non mi piacciono e credo che alcuni artisti proprio non valgano, secondo me sono scarsi.

Ad esempio?
Non voglio fare nomi, però mi rendo conto che più cresco, più divento meno democratico per un certo tipo di musica. Prima dicevo “però il pezzo è carino”, ora proprio no. E le radio continuano a bombardare… perché poi fondamentalmente è colpa loro, è colpa di chi ci sta dietro, degli addetti ai lavori che continuano a perseguire la stessa cosa che ormai è diventata ridicola. All’estero noi non valiamo niente, mentre la Francia vince i Grammy con i Daft Punk, i paesi scandinavi hanno il loro filone musicale, anche la Germania ha fatto delle cose: noi invece siamo proprio ancorati a quel tipo di pop. Essendoci un po’ dentro, vedo che il problema è proprio la richiesta, non c’è nessuno che dica “proviamo a fare abituare il pubblico anche ad altre cose”. E non è più nemmeno la divisione tra pop e indie, perché una canzone mia o di Brunori potrebbe tranqullamente andare in radio.

Quindi mettiamo che tu scriva un pezzo, arriva la Pausini e ti dice “ok, lo prendo ma lo faccio a modo mio”. Tu cosa le rispondi?
Dipende. Io sono giovane e voglio fare della musica un mestiere, camparci. Non c’è l’ambizione di arricchirsi, semplicemente di riuscire a pagare l’affitto e poter uscire qualche volta a cena facendo l’autore di canzoni o il musicista. Però è chiaro che un minimo di coerenza artistica bisogna averla, o almeno io voglio averla. Se proprio il pezzo mi fa schifo, rinuncio al sushi del mercoledì. Però non si sa mai, è sempre un privilegio poter fare questa cosa, per cui dire per idealismo “non accetto” quando c’è gente che viene pagata poco o niente per fare altro… non lo so. Sempre su questa cosa: Antonio di Martino è stato ad Austin, al SXSW, e mi diceva che lì ogni nazione ha una sorta di edificio dove mettere in mostra la propria musica. Quello italiano era il più brutto, con zero credibilità. È un modo di lavorare da dilettanti.

Chiudiamo con il MI AMI: domenica 8 giugno sarai sul più grande, il Palco Pertini. Cosa ti aspetti?
Il palco è grosso, ma con il tipo di suono che abbiamo dal vivo ci può stare. Non vedo l’ora di risuonare a Milano, perché sarà quello il vero concerto milanese di questo tour. Un po’ come era successo al MI AMI ANCORA di due anni fa, dove iniziai il tour. Era la prima volta che suonavo il disco e fu veramente figo.

 

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L'articolo Nicolò Carnesi - Vogliamo anche le stelle di Marco Villa è apparso su Rockit.it il 2014-04-18 00:00:00

COMMENTI (3)

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  • DistortedGhost 10 anni fa Rispondi

    eh si .... SANREMO..... genuflessi al tanto "odiato" Fazio, ma tant'e' questa e' l'italietta all'amatriciana che non cambia mai !

  • marcokap 10 anni fa Rispondi

    "All’estero noi non valiamo niente, mentre la Francia vince i Grammy con i Daft Punk" bell'esempio DAVVERO ! BOooo???!!!

  • lost84 10 anni fa Rispondi

    se Bianconi ha scritto per Irene Grandi non vedo perche' Carnesi non dovrebbe scrivere per la Pausini piuttosto che per Gigi D'alessio , e' tutta musica leggera italiana con obbiettivo finale Sanremo.