John De Leo - È il commercio, bellezza. Essere artista oggi e non perdersi d'animo

Un lunga chiacchierata dove si parla di arte, di commercio, di mazurche e di come stare allegri.

Il commercio ed il suo rapporto con l'arte, passando per l'essere più o meno accondiscendenti verso i gusti del pubblico. Passando per i piccoli festival che stanno prendendo piede in provincia e potrebbero essere la nuova spinta propulsiva che si aspetta da anni. Passando per la riscoperta delle tradizioni ma soprattutto ribadendo che la ricerca è importante. Insomma, si parte dall'ultimo disco, "Il grande abarasse", ma poi ogni argomento apre una porta, poi un'altra e un'altra ancora. E i tanti discorsi continuano, ognuno incastrato nel precedente come tante matrioske, fino a concludere che l'arte non salva l'anima ma aiuta l'umore. Una lunga e bella chiacchierata. Francesco Fusaro ha intervistato John Del Leo. 


Si parla ormai da tempo della morte del formato album, sancita dall'avvento dell'mp3, della musica scaricata e ascoltata direttamente in streaming. Tu invece sei appena uscito con un concept album diviso in due sezioni e che in parte si rifà a materiale musicale precedente. In totale controtendenza, insomma.
Mi stai spaventando.

Perché?
Perché credo che in effetti un artista questi problemi se li debba porre: sapere cioè che in base al supporto cambia anche la modalità dell'ascolto. Io forse non ho considerato a sufficienza questi fattori di fronte ai quali mi stai mettendo ora tu. Non che non li avessi presente, però probabilmente sono un idealista... Oltretutto, se ci pensi, nell'era del superskip io non potrò mai essere compreso perché all'interno di un mio stesso brano accadono tante cose diverse. Se si ascolta senza rimanere sullo stesso brano sino alla sua conclusione, si rischia solo di essere fuorviati dalla mia musica. Anche perché io scrivo in modo che quando ti sembra di avere capito qualcosa, ho già cambiato strada. Ciò detto, farò tesoro di queste cose che mi dici. Cose che so ma che dovrei considerare meglio.

Credo che dipenda molto da ciò che si vuole comunicare e da come lo si voglia comunicare; non sono cose da tenere in considerazione come un assoluto, insomma.
Sì, anche perché poi dal vivo sono questioni che spariscono del tutto. Dal vivo, ci penso io!

Beh, se c'è qualcosa di buono nel modo in cui è cambiato il modello industriale nel settore della musica, è forse proprio da rintracciare nel fatto che artisti che dedicano particolare attenzione alla dimensione performativa del proprio repertorio vengano premiati dal pubblico. Banalmente: magari non compro il tuo disco, però vengo a vederti dal vivo, se sei bravo.
Sono tempi grami e io cerco di farmi capire anche su disco. Senza mortificarmi e senza mortificare l'ascoltatore, perché per contro, senza pormi sul podio, il mio tentativo rimane quello di dare dignità al mondo del pop e quindi della canzone, anche se non mi occupo solo di quello. Conosco il gusto generale, insomma, anche quando me ne allontano. Purtroppo, senza offendere i miei illustri colleghi, si sente chiaramente che la musica che ascoltiamo nella nostra quotidianità è corrotta, cioè concepita esclusivamente per vendere. Addirittura in ambienti come quello del jazz o della classica ricorrono stilemi chiaramente codificati per vendere.

Se ho capito bene tu dici che esiste un a priori nella composizione musicale, di qualsiasi genere essa sia, che spinge a soddisfare il favore del pubblico.
Sì, è così. Bada bene, non è di per sé un reato: sono secoli che si fa musica cercando di farsi capire. È la ricerca della vendita del prodotto artistico che un po' mi schifa.

Non credi che nel contesto musicale nel quale viviamo certe forme espressive siano più libere dalle necessità del mercato? Visto che è sempre più difficile vendere magari c'è più possibilità di esprimersi diversamente.
Sono domande che mi pongo anche io. Il mercato sicuramente è la piaga del mondo ed è un dato di fatto, sotteso in maniera più o meno implicita (o indiretta) quando ci si relaziona. Detto questo, una certa economia dovrebbe supportare gli artisti soprattutto per fare in modo che essi siano conosciuti dal pubblico. E questo secondo me non sta avvenendo e, ripeto, anche nei settori più prestigiosi. Si raschia il barile per ripetere ciò che già si conosce, quindi non vedo niente di veramente creativo, se non raramente. Per contro ci sono settori che non conosciamo dove il fermento, come è sempre stato, continua, e dove forse si sta veramente cercando di cambiare il linguaggio. Di per certo, per quel sottobosco le cose sono sempre più difficili.

Che cosa ti ha colpito ultimamente in ambito musicale?
È da qualche anno che, molto egoisticamente, organizzo un festival di musica che si chiama Lugo Contemporanea. In cartellone cerco di mettere artisti di prestigio affiancati a degli emeriti sconosciuti. Tante volte sono proprio gli sconosciuti ad offrire le sorprese più interessanti. In questo modo salvaguardo quell'oasi e immodestamente salvaguardo anche me stesso, ma lo faccio ad ingresso gratuito proprio perché sia un'opportunità di scoperta per chiunque. Forse sono andato un po' fuori tema...

Ci sono delle cose che hai visto a Lugo che vorresti ricordare?
Purtroppo la mia memoria non è quella di Pitagora... Comunque ti potrei fare il nome della danzatrice Ania Losinger perché rappresenta bene gli ideali di questa rassegna, che vorrebbe essere un punto di incontro e di dialogo fra la musica e le altre forme di espressione dell'uomo. Poi ci sono stati Piero Bittolo Bon e Alfonso Santimone che hanno messo in scena qualcosa di veramente inspiegabile... Metà del pubblico se n'è andata, ma chi è rimasto non credo che dimenticherà facilmente.

Questa rinascita dei festival di musica in Italia, anche in zone prima considerate “decentrate” rispetto alle tendenze culturali dominanti, mi sembra qualcosa di assolutamente salutare, un tentativo di riappropriazione di spazi e momenti dedicati a ciò che non ha sempre la giusta attenzione. Un segno dei tempi, anche.
Esattamente. Similmente a come successe con il punk, che fu prima di tutto un movimento di reazione rispetto ad una situazione, queste piccole realtà cercano di fare sentire la loro voce mettendosi in prima persona ad organizzare eventi. Forse perché le proposte delle rassegne più blasonate non sempre corrispondono qualitativamente al nome che le stesse rassegne si sono create nel tempo.



Da romagnolo, che cosa ne dici del recente recupero del ballo liscio? Penso per esempio all'Orchestrina di Molto Agevole o “Dancing Balera” di Saluti da Saturno.
Allora, premetto innanzitutto che sono nato in Romagna ma i miei genitori sono entrambi abruzzesi e quindi io sono orgogliosamente un bastardo. Ciò detto, io credo che le operazioni di cui mi parli siano più che legittime, anzi, credo che sia responsabilità di un artista di cercare di raccontare la storia del proprio territorio e di non cedere sempre e solo ai suoni della globalizzazione, che tutti conosciamo. Qualsiasi artista in fondo non può banalmente che guardarsi indietro e capire che cosa è successo, al di là di esperimenti futuribili che immaginano oppure ostentano di creare qualcosa di nuovo. A me qualche volta dicono che faccio esercizio di stile ma è inevitabile perché io rubo dei suoni, una cosa che fanno in molti, per riattualizzare qualcosa ma anche per non dimenticare ciò che è stato e progredire da lì. Almeno, questo è il mio intento quando recupero cose del passato. Non vorrei apparire supponente, però alle volte sento tanta ignoranza, nel senso che mi capita di sentire artisti che senza rendersene conto fanno ciò che è già stato fatto. Cosa che denota una certa mancanza di documentazione.

Questa cosa della ricerca è un aspetto molto affascinante del tuo modo di lavorare.
Sì, perché credo che la musica debba nutrirsi non soltanto di sé stessa ma anche di altre discipline. Per questo la ricerca per me è importante.

Mi interessava approfondire il discorso delle citazioni da stili musicali differenti...
Sì... Forse anche in virtù del momento in cui viviamo, dove la tecnologia ci mette a disposizione i prodotti culturali di epoche diverse, io mi trovo a cedere alla necessità di raccontare delle cose secondo musiche con funzionalità diverse che costringono anche ad ascolti con intenzioni diverse, non so se mi spiego. Se un pezzo è da ballo va ballato, se un pezzo è di musica elettronica va ascoltato in un certo altro modo e via dicendo... L'ascoltatore moderno dovrebbe avere dentro di sé queste differenze, eppure mi sembra, per tornare anche a quello che si diceva prima, che si premino sempre le cose smart e piuttosto simili fra loro. Da un punto di vista tecnico molti artisti sono più o meno preparati, sempre grazie alla disponibilità di informazioni del nostro tempo. Di fatto però io stento a riconoscere qualcuno con un proprio stile e con qualcosa da dire, al di là delle capacità che spesso sono indubbie.

Tornando all'album, c'è un brano musicale, “Di noi uno”, che mi ricordava il radiodramma “La notte di un nevrastenico” di Nino Rota, perché la trama è abbastanza simile.
Il riferimento a Rota è azzeccato perché in passato ho avuto modo di approfondire la sua musica al di là di quello che ha scritto per il cinema, che non è neanche brutto e che io in fondo ho comunque nel sangue date le mie origini romagnole. In “Di noi uno” cerco anche di rifarmi al belcanto e, dalla mia soggettiva, di riproporlo aggiungendovi anche una componente rock.

Fellini diceva che i musicisti non sono dei veri creatori ma piuttosto dei rabdomanti che trovano quello che c'è già e lo conducono verso chi ascolta. Viste le tue peregrinazioni per vari territori musicali, ti senti anche tu un po' rabdomante?
Forse in realtà io mi trovo ad essere rabdomante, nel senso che mi trovo a partire da delle idee che mi sembrano chiarissime e precise e poi mettendoci le mani non resta che una fotografia mossa di quello spunto originario. Penso però che sia una cosa che accade a chiunque, soprattutto se ci si mette troppo tempo a chiudere un progetto musicale, come purtroppo faccio io.

Nella presentazione dell'album dicevi che l'Arte non è salvifica. Che cosa fa allora l'Arte secondo te? O perlomeno, l'Arte che fai tu?
Io dico che l'Arte non è salvifica perché la vita ti mette di fronte a dei problemi oggettivi, pratici, che ovviamente vanno in conflitto con la poesia. Di fatto, non so se l'ho scritto in quella nota ma comunque lo volevo dire, di quella stessa poesia sento di nutrirmi e senza quella credo – credo – di morire. Dico credo perché se dovessi trovarmi senza musica, immagino che sarei portato dall'istinto di sopravvivenza a fare altro. In questo senso l'Arte non può essere salvifica. È chiaro però che aiuta e qualche volta ci risolve un umore. Non i problemi pratici, ma l'umore senz'altro.

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L'articolo John De Leo - È il commercio, bellezza. Essere artista oggi e non perdersi d'animo di Francesco Fusaro è apparso su Rockit.it il 2014-11-04 10:21:00

COMMENTI (1)

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  • irene.eneri 10 anni fa Rispondi

    Sempre il migliore, grande John!