Giardini di Mirò - Musica da film. Come raccontare un mondo che non c'è più

Partire da “Rapsodia Satanica”, film del 1917 di Nino Oxilia, per poi raccontare una carriera lunga quasi vent'anni. I muri che crollano, le colpe dell'Unione Sovietica poi metabolizzate nella provincia italiana. La nostalgia di un mondo irrimediabilmente perso, e il suono che può descriverlo.

Partire da “Rapsodia Satanica”, film del 1917 di Nino Oxilia, per poi raccontare una carriera lunga quasi vent'anni. I muri che crollano, le colpe dell'Unione Sovietica poi metabolizzate nella provincia italiana. La nostalgia di un mondo irrimediabilmente perso, e il suono che può descriverlo. La società che non accetta di diventare vecchi e poi l'amore, ovviamente. L'intervista ai Giardini di Mirò.

Siete affascinati dai film degli anni '10?
È la scoperta di un mondo. Prima di ricevere la proposta di sonorizzare “Il Fuoco” da parte del Museo Nazionale del Cinema non conoscevamo questi film. Credo che nessuno di noi non si fosse mai approcciato a questo tipo di cinema. Ad oggi non siamo certo i maggiori esperti di film muto italiano degli anni '10 ma, in compenso, abbiamo trovato un bel modo per esprimere la nostra dimensione sonora partendo da un'immagine. 

Per “Rapsodia Satanica” la proposta è arrivata da FU.MO, il festival di Morciano di Romagna dedicato al Futurismo.
Sì, è una manifestazione dedicata al futurismo italiano. C'erano diverse realtà: chi lavorava sulle immagini, chi sul teatro, a noi hanno chiesto di occuparci del cinema. Abbiamo dovuto fare una grossa ricerca per trovare un film che potesse avere un contatto con l'esperienza futurista. Non è stato semplice, e devo dire che il collegamento finale è stato anche piuttosto stiracchiato.

Ovvero?
Legami amorosi tra l'attrice protagonista e futuristi. (ride, NdA)

L'avete sentita l'opera di Mascagni scritta ai tempi per il film?
Non l'abbiamo voluta ascoltare, doveva essere una sfida e ci volevamo confrontare solo con le nostre suggestioni, senza dover avere altri riferimenti.

Quindi è una pura coincidenza se la parte di piano inserita a metà film ricorda quella scritta da Mascagni?
(ride, NdA) Ecco, adesso mi tocca andare a verificare. Io davvero non l'ho mai sentita quell'opera ma devo capire se qualcuno ha disobbedito agli ordini. Certamente quella scena porta a immaginarsi un pianoforte isolato dagli altri strumenti perché in quel momento il piano è centrale nell'inquadratura, arriva Alba, la protagonista interpretata da Lyda Borelli, e inizia a suonarlo.

Sembra che Mascagni sia meno preso male di voi. Non è certo un'opera allegra ma almeno quando il film ha momenti più spensierati anche il suo commento sonoro si alleggerisce, voi invece mantenete la tensione dall'inizio alla fine.
Penso di subire una certa fascinazione per il bianco e nero, per questo mondo così retrò e così lontano. È un mondo che non c'è più, che è morto, per noi è lontanissimo. Non so perché ma, istintivamente, mi trasmette malinconia. È come quando guardo una commedia vecchissima, non rido sereno, è un riso amaro. Mi sento sempre un po' distante da quello che vedo e, a livello emozionale, questa cosa mi tocca sempre.



Vorrei capire come lavori. Prendiamo, ad esempio, il Prologo: Alba è vecchia, rimpiange i tempi andati e decide di firmare un patto con il diavolo per avere la giovinezza eterna. Tu riesci ad isolare i sentimenti che ti comunica questa scena - ad esempio: la tristezza, la nostalgia, la paura della morte – e tradurli in musica?
Sinceramente no, è più facile che mi capiti quando scrivo una canzone. Per un canzone ragiono maggiormente su cosa voglio raccontare e il modo per farlo. Molto banalmente: quando ho capito cosa voglio dire, ragiono se lo voglio dire in una maniera più pop o più malinconica, ecc ecc. Quando mi sono approcciato alle sonorizzazioni de “Il Fuoco” e di “Rapsodia Satanica”, invece, è successo il contrario, è stato molto semplice. Di norma ci si aspetterebbe l'opposto perché un film ti impone tanti paletti: ci sono personaggi, c'è un minutaggio da rispettare, c'è un racconto che devi seguire. Per questi due film, invece, tutto è arrivato piuttosto velocemente: la pellicola ti chiama, ti guida lei, è un rapporto un po' particolare. Ci siamo sentiti liberi, molto di più rispetto allo scrivere un album dei Giardini di Mirò. Abbiamo sperimentato tanto, soprattutto con il nostro modo di suonare. La cosa interessante è che, poi, le stesse sonorizzazioni sono diventate a loro volta degli album. È come se avessero trovato una loro vita a prescindere dall'immagine che le ha ispirate. Per noi è una cosa abbastanza importante.

Immagino che ogni compositore di colonne sonore aspiri a questo.
Certo, ma la colonna sonora moderna deve essere tante cose. Dovremmo un attimo soffermarci tra la differenza tra sonorizzazione e colonna sonora: nel passaggio dal film muto al film sonoro, per intenderci quando sono arrivati i dialoghi, i rumori di scena, ecc ecc, è cambiato tutto. Oggi una colonna sonora ha un tema portante, ma anche una miriade di piccolissimi frammenti musicali con tante funzionalità diverse. Con i Crimea X sto lavorando ad un progetto sulle musiche di Carpenter, ecco, ci sono dei temi famosi di Carpenter, magari anche molto conosciuti, che durano solo un minuto o poco di più. Quello è il massimo dell'espressione che si può raggiungere all'interno del cinema moderno, invece Mascagni, o Giardini di Mirò, tirano dritto per 40 minuti consecutivi. Capisci la differenza e la conseguente libertà d'azione?

Prima parlavi di suggestioni, sono solo quelle a guidarti o parallelamente c'è anche un lavoro di studio filologico sul film?
Sicuramente la suggestione è molto importante ma conoscere il film documentandosi è indispensabile. Per prima cosa bisogna cercare di capire quello che vuole raccontare e in seguito capire i “movimenti emozionali” che ci sono all'interno di un film. Noi abbiamo certamente lavorato più sull'aspetto emozionale, ovvero, reagire a quello che ci stava dando la visione del film.

Semplificando un attimo il lavoro che deve fare un compositore: il gioco è trovare un equilibrio tra i propri spunti personali, anche emotivi, e un racconto più didascalico di quello che sta succedendo nella scena?
Sì, all'incirca. Alla fine non ci può essere una distanza incolmabile tra la musica e l'immagine. O meglio, ci può essere: nel cinema si è sempre fatto di tutto, nella musica pure, quindi è possibile, ma se immagini e musica sono completamente distanti il risultato è schizofrenico. Ma ci sono tanti modi per sonorizzare una scena: ad esempio, prendi la Prima Parte, avremmo potuto musicare queste persone che ballano con un valzerino, una roba nostra tipo festa di paese in provincia, ma sulle chitarre dei Giardini non si sarebbe adattato bene. Allora è uscito questo blues, abbiamo subito sentito una connessione forte, non so come sia venuta ma la prima volta che abbiamo riascoltato il demo proiettando le immagini ci sembrava coerente.

Il tema dell'eterna giovinezza è un tema piuttosto attuale. Questo mese IL gli ha dedicato un intero numero.
In questi giorni gira parecchio la foto di Donatella Versace, è un po' questa roba qui: c'è la volontà di provare a fermare il tempo in tutti i modi possibili, la vita ha una fine e non è una roba delle più facili da accettare. Ci siamo addirittura inventati le religioni per renderla più dolce.

Uno degli argomenti più interessanti del numero parla del fatto che, in realtà, oggi è necessario rimanere bambini: fare nottata con la playstation, le maratone di serie Tv, sono tutti modi per tenere allenato un cervello e un metabolismo che, per forza di cose, deve essere sveglio e dinamico. Altrimenti non saremmo in grado di cambiare lavoro ogni tot. anni, o reinventaci per l'ennesima volta a cinquant'anni.
Ovvio, c'è stato un cambiamento culturale, del modo di vivere, di lavorare e, soprattutto, di vivere il privato. Io però resto legato a quella cosa che è rimasta uguale, questa cosa qua, che scade, il nostro corpo invecchia e nell'invecchiare fa delle cose che non ci piacciono. Probabilmente quando mi guardo allo specchio mi vedo ancora come quando ero ragazzino, l'accettazione di questa roba non è immediata e facile. “Rapsodia Satanica”, parla molto di quest'aspetto. E anche di altro...

Parliamo d'amore allora. Nel film ha una doppia anima, forza regolatrice del mondo o veleno che porta Sergio, uno dei corteggiatori di Alba, ad uccidersi. A naso direi che i Giardini hanno sempre tifato per questo secondo modo di rappresentarlo.
Lo chiedi a me che non ho mai scritto una canzone d'amore. “Broken By”, ad esempio, l'aveva scritta Raina, “Spurious love” o altre canzoni sono di Corrado. È un tema che normalmente preferisco non affrontare... (lunga pausa, NdA) Non voglio dire che non mi sia caro, figurati, lo vivo oggi, spero di viverlo un domani a costo di dover battagliare, ma penso di essere una persona timida. Al di là di tutto, della vita delle persone, di qualsiasi sistema politico, ognuno ha questo lato privato con cui confrontarsi. L'amore finito male è un grande classico del rock, credo che l'arte lo esorcizzi così, quando poi uno lo prova davvero, capisce che è realmente una cosa totalizzante e fa passare il resto in secondo piano.

Tutto quello che sei in ogni cosa che fai, cantava qualcuno. Tu ci riesci? Tempo fa ho visto uno spettacolo molto bello di Vasco Brondi, "Cronache Emiliane". Brondi racconta i luoghi dove è cresciuto con una limpidezza disarmante: c'è una grande coerenza tra qui posti e le canzoni contenute nei suoi dischi. L'altro giorno guardavo il tuo account instagram e ho avuto una sensazione simile.
Io non riesco ad essere diverso da quello che sono. Ad esempio, io non potrei raccontare la città, non ci ho mai abitato. Abito a Reggio Emilia che sì è un capoluogo di provincia ma, in sostanza, è un paesone. Prima abitavo a Cavriago, che dista una decina di km da Reggio, ho quasi la sensazione di non essermi mai spostato davvero. Il mondo che conosco è questo, ed è quello che mi ha dato gli strumenti per leggere quell'altro mondo, quello che ho visitato di persona o che ho visto sullo schermo del computer. Ho questa formazione e non ho mai avuto troppa voglia di costruirmene un'altra. La mia formazione mi descrive molto bene, è un vestito che mi è sempre piaciuto, non ne ho mai cercati altri. Sinceramente non so perché la musica dei Giardini di Mirò sia saltata fuori così: qualsiasi cosa che proviamo a fare esce sempre quel suono lì e anche quando abbiamo fatto cose diverse è rimasto quel tratto malinconico, che è un po' delle nostre zone, dell'epoca storica che abbiamo vissuto. La zona rossa d'Italia, una terra di granitiche certezze. Quando è crollato il muro, io...

…tieni presente che stavamo parlando del suono dei Giardini o, al massimo, di provincia italiana.
Tieni presente che ero pure figlio del segretario del partito comunista del mio paese. Quando inizi a ragionare sui crolli, sulle sconfitte, pur avendo la sensazione di essere ancora nel giusto... e sono ancora convinto che una parte di ragione ce l'avevamo. Ecco, tutto questo c'è nella musica dei Giardini di Mirò: questo desiderio di rimettere insieme i cocci, questo senso di malinconia per un qualcosa che è andato irrimediabilmente perso. Negli anni 90 c'è stato un grandissimo libera tutti, e non in Unione Sovietica, in Emilia. Da lì è partito tutto quanto: si sono paragonati gli errori del comunismo sovietico alle nostre esperienze locali. Si voleva il cambiamento, si doveva cambiare nome e ci si è caricati sulle spalle tante sconfitte, anche quelle non nostre. I comunisti italiani non sono andati a fare le purghe staliniane o non sono andati a reprimere Praga, magari potevamo impegnarci di più perché queste cose non accadessero ma non possiamo considerale colpe nostre, e ci sono ricadute addosso ugualmente; nessuno ha mai fatto lo stesso con gli altri, non si è fatto ricadere sui democratici italiani il Vietnam o il colpo di stato in Cile. E te lo dico con serenità, sia chiaro, chiamalo pragmatismo emiliano, non fa parte della nostra cultura piangerci addosso. E, se mai ci fosse bisogno di sottolinearlo, questa è una visione personale e può darsi che rispecchi tutta la band. Ma se devo raccontarti come sono fatto e se devo raccontarti la malinconia che senti nella chitarra dei Giardini di Mirò, io te la racconto così.

Torniamo a Rapsodia Satanica?
Torniamo a “Rapsodia Satanica” (ride, NdA)

Qual è stata la parte più difficile di questo lavoro?
Mettere insieme il tutto. Sapevamo benissimo cosa fare all'inizio, volevamo la Prima Parte in una certa maniera, il finale doveva essere in un certo modo. Collegare le varie parti invece è stato molto difficile, soprattutto quando l'abbiamo registrato.

Sbaglio a dire che “Il Fuoco” viaggia in maniera più monolitica mentre “Rapsodia Satanica” segue molte più influenze diverse?
No, è corretto. “Il Fuoco” è assolutamente un grande flusso e credo che sia anche decisamente più impegnativo per chi lo ascolta. Infatti difficilmente potremmo staccare un pezzo singolo dal “Fuoco” e suonarlo da solo ad un concerto mentre un con un brano di “Rapsodia Satanica” è possibile. La narrazione di questo film è differente rispetto a “Il Fuoco”, ha della “stanze narrative” ben precise. Per molte cose lo preferisco anche se in “Rapsodia” ci sono dei momenti veramente sublimi.

Ad esempio?
La scena finale, dal punto di vista estetico credo sia molto molto forte. Sono immagini molto belle.

Ma alla fine Alba muore? La trama dice che, in realtà, va a sposarsi con Tristano ma la scena finale fa pensare tutt'altro, voi ci aggiungete pure le campane a morto.
Ma io non lo posso dire, qualcuno dovrà pure venire a vedere il film e sentirci suonare no? (ride, NdA)



Cambiando argomento: vi offendete se vi dico che avete un problema con le voci?
No, non ci offendiamo. L'altra sera sono andato a sentire i Notwist e c'era un grandissimo problema con la voce ma le canzoni erano belle comunque. Io ho ascoltato tantissimi gruppi che avevano problemi con la voce ma le canzoni erano talmente forti che rimanevano in piedi. Se con noi invece si sente il problema forse, e ripeto forse, vuol dire che non siamo abbastanza bravi a scrivere le canzoni.

L'avrai capito, mi riferisco a “Good Luck”: è un album con alcuni pezzi molto belli ma gli episodi cantati sono quasi tutti deboli.
Certo, nel complesso è meno forte degli altri. “Good Luck” è figlio di un passaggio un po' strano della nostra carriera, è il primo disco non strumentale dopo “Dividing Opinions”, che è stato un disco molto importante per noi.

Lo immagino, “Dividing Opinions” fu un fulmine a ciel sereno: una specie di colpo di reni dove contemporaneamente proponevate un cambio piuttosto forte verso lo shoegaze pur mantenendo un suono e un tipo di scrittura molto riconoscibile.
Penso che sia una descrizione piuttosto puntuale, cogli cosa è successo realmente. Fu un momento abbastanza disarmante. Era appena andato via Alessandro Raina (che ha cantato nel disco “Punk.. not Diet!” e nel relativo tour, NdR) e ormai era impensabile tornare ad essere un gruppo strumentale, non facevamo più un disco strumentale dal 2001, da tempi di “Rise And Fall...”. Io e Corrado ci siamo guardati e ci siamo detti: o ci proviamo sul serio o smettiamo. Da fuori magari non lo si notava, ma per me mettermi a cantare su un palco, io che non canto nemmeno sotto la doccia, è stata una sfida seria. E ottenemmo un grande risultato, lo dico immodestamente ma con quel disco abbiamo toccato un apice che non so se riusciremo più raggiungere, non penso che scriveremo mai più un'altra “Broken By”. Ma ci è costato tanto, io quel tour non me lo sono goduto per niente, ero troppo troppo preoccupato per la voce. Ti assicuro che non godere mentre suoni per un anno intero non è un prezzo piccolo da pagare. E dopo quel tour abbiamo fatto “Il Fuoco”, la nostra prima sonorizzazione che, ovviamente, ha di nuovo rimescolato le carte. Poi Francesco, il batterista nonché nostro produttore, ci ha detto che avrebbe lasciato il gruppo per trasferirsi a Berlino, ed è cambiato tutto nuovamente. Diciamo che “Good Luck” è stato figlio di questo periodo. Non è una giustificazione, ha dei punti molto alti ma nel complesso è un album più debole rispetto agli altri.

In queste ultime settimane - prendi i casi Perturbazione e Afterhours - il musicista che lascia il gruppo è un tema ricorrente. Da fuori non sembra mai una cosa così grave, ma in molte interviste me l'hanno descritto invece con una cosa estremamente pesante da superare.
Bisogna sempre ripartire da capo, non sempre è facile. L'immagine che hai del gruppo serve a prenderti anche certi rischi. Nel “Fuoco”, ad esempio, c'è una parte con cinque minuti e più di rumore, non dico che sia stata una cosa così azzardata ma in quel momento noi dovevamo capire se i Giardini di Mirò volevano per la prima volta intraprendere la strada del rumore puro. Se hai un tuo equilibrio, e te lo sei costruito tutti insieme, dici: ok nessun problema, facciamolo. Nel momento che uno va via devi di nuovo riguardarti, capire di nuovo chi sei e come ritrovare questo equilibrio.

Voi avete sempre suonato e lavorato: applicando la cosa a quasi vent'anni di carriera che cosa si impara?
Noi non siamo mai stati “il gruppo del momento”, ovvero quel nome che, in determinati momenti, diventa il più chiacchierato e sul quale tutti scommettono. Abbiamo sempre avuto un buon seguito ma per noi è sempre stato chiaro che la musica non ci avrebbe dato da vivere. Io ho sempre lavorato, magari pochissime ore alla settimana, ma un lavoro ce l'ho sempre avuto, e così gli altri.

Quando uno è costretto ad essere tutti i lunedì mattina in ufficio impara ad ottimizzare e riduce gli sprechi?
Quanto meno fa delle scelte. Ci siamo dati la regola secondo la quale tutte le nostre attività si dovevano sostenere da sole, non dovevamo finanziarle noi. All'inizio ovviamente non puoi, ma quando giustamente cominci a prendere soldi per suonare, questi devono sostenere tutte le spese del gruppo. Ad esempio non abbiamo mai fatto la vetrina in Inghilterra, era una cosa che non ci potevamo permettere. In due momenti ci è stato chiesto di fare un tour inglese e un tour americano e abbiamo deciso di non farli perché non erano sostenibili. Idem con le date in Islanda che ci hanno proposto, era anche carina come cosa ma se dovevamo spenderci di tasca nostra era meglio andarci in vacanza con le nostre morose. Sarà pragmatismo emiliano, ma non facciamo i tour per turismo.

Ultima domanda: la musica italiana la ascolti? C'è qualcuno che a tuo avviso meritava di più?
Non sono la persona più adatta a rispondere. Mi sono un po' allontanato dalla scena italiana degli ultimi anni, rispetto tantissime persone però ne conosco sempre meno. In più a me non me ne è mai fregato più di tanto di rimanere in Italia con la mia musica e lo dico da... stavo per dire sconfitto ma non sarebbe il termine giusto, perché in realtà noi abbiamo fatto bei numeri all'estero, sia di pubblico che di vendite. A prescindere da questo, io ho sempre confrontato la mia musica con quella che veniva da fuori, non ho mai avuto la cultura delle musica italiana. Oggi vedo che molti scelgono da subito di giocare solo ed esclusivamente in Italia. E non è una critica, sia chiaro.

Semplicemente c'è stato un cambio di prospettiva. Ovviamente se uno è bravo e ha talento prescinde dal campo di gioco che si è scelto.
Sono d'accordo.

I cantatori ti piacciono?
Faccio fatica anche con Leonard Cohen (ride, NdA). Se ti devo dire un nome italiano, e lo citavi anche tu prima, ti dico Le Luci Della Centrale Elettrica. Ha un buon successo e penso sia tutto meritato. Nella sua musica c'è un po' di rischio, ci sono dei tentativi, ci sono delle idee che trovo interessanti. Al primo album dicevo “No Vasco io non ci casco”, per citare quell'altro, ma in realtà dal secondo in poi ho visto una maturazione. Poi ci sono tanti musicisti di nicchia: Maurizio Abate ha fatto un disco bellissimo, che mi piace tantissimo, ma veramente tanto, o Lorenzo Senni che sta avendo ottimi riscontri, poi Heroin in Tahiti, Donato Epiro, sono tutte robe piccolissime che a cui auguro tanta fortuna. Sono cose che sanno essere molto italiane ma, al contempo, assolutamente internazionali. Non è il gioco dei grandi numeri ma chissenefrega, me lo diceva il mio amico Jonathan Clancy: sì ma il successo, cos'è il successo? La maggior parte delle band che ho sempre apprezzato hanno girato il mondo su dei van sfasciati, non hanno mai avuto successo e molto probabilmente adesso, a quarant'anni passati, fanno i baristi. Ma quelli hanno scritto dischi fantastici. Q­uello che interessa a me sono i dischi fantastici.

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L'articolo Giardini di Mirò - Musica da film. Come raccontare un mondo che non c'è più di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2014-11-17 11:37:00

COMMENTI (2)

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  • lichtung10 anni faRispondi

    Anche non doveste scrivere un'altra "Broken By", fidatevi, non ci si stancherà di quella. Bellissima intervista. Grazie!

  • babalot10 anni faRispondi

    bello tutto.