Cosa significa nel 2016 "possedere" dei dischi?

Compriamo dischi e gadget dei nostri artisti preferiti, ma forse "possedere" la musica oggi significa un'altra cosa

Cosa significa nel 2016 "possedere" dei dischi?
Cosa significa nel 2016 "possedere" dei dischi?
12/02/2016 - 13:54 Scritto da Mattia Nesto

È mercoledì 17 dicembre 1980, il pomeriggio sta rapidamente trascolorando in una sera piuttosto fredda, d’altronde, a Bologna, l’inverno è sempre molto rigido. Mio padre esce dal lavoro abbottonandosi bene uno spolverino beige, fa l’impiegato all’Olivetti in via Belle Arti, ma oggi ha finito prima la sua giornata. Entra al Disco d’Oro in via Galliera e si dirige dritto nel reparto “ultime uscite”. Prende in mano un album con quattro visi imbrattati di rosso, un “padellone” si sarebbe detto allora: è “Remain in Light” dei Talking Heads. Li ha sentiti la sera prima al Palasport e da quel giorno non gli usciranno più di testa.

Sono in stazione a Piacenza ed è una domenica mattina di fine gennaio. Ho appena litigato con la mia ragazza, sono in una dignitosa sala d’attesa e ho già letto un quotidiano. Non mi rimane altro da fare che prendere il mio telefono, aprire un servizio di streaming on-line e scegliere una canzone che credo perfetta per raccontare questo mio, piuttosto triste va detto, momento esistenziale: "Born Under Punches (The Heat Goes On)". Dei Talking Heads. Dall'album "Remain in Light".

Retromania avanti tutta



La domanda non è semplice: che cosa vuol dire nel 2016 possedere dei dischi? Non basta rispondere “significa essere ancora tanto coraggiosi/incoscienti da acquistare i cd o gli album degli artisti che ci piacciono/seguiamo/di cui siamo curiosi”. Derubricare in questa maniera una faccenda così complessa sarebbe quantomeno sconveniente. Infatti, stante i “freddi” dati del mercato, nel 2015 sono stati venduti circa 137 milioni di dischi in tutto il mondo. Un risultato in un certo qual modo inaspettato e anche lusinghiero, figlio soprattutto di una retromania che pare aver contagiato gran parte degli utenti. Come si evince da questo articolo, per 137 milioni di dischi venduti (copie fisiche si badi bene), ben 71,2 milioni sono dischi “vecchi”, a fronte di poco più di 65 milioni di album nuovi.
Questo ci è utile per comprendere il primo dato: nel 2016 possedere musica è sì, ancora, acquistare/possedere il disco/vinile della propria band, ma molto spesso sono prodotti appartenenti al passato. Insomma, passato batte presente 1-0. Anche il costo di un vinile, che è piuttosto ingente (se andate oggi ad acquistare “25” di Adele su Amazon tenetevi pronti a sbrosare quasi 32 euro), fa sì che chi li compri poi li metta in bella mostra, li faccia diventare una sorta di feticcio buono per foto su Instagram, condivisione nei gruppi specializzati e stati di conservazione praticamente religiosi. Molto diversa quindi la situazione rispetto ai dischi del passato, dove ci si scriveva sopra, dove si inserivano ritagli di giornale o rivista. Per le copie digitali, quasi fisiologicamente, invece le cose sono diverse e i dischi del presente sono “avanti” come vendite rispetto al passato. Ma si è capito che non è solamente comprando una copia dell’album che, oggi, si possiede la musica.

Indossare la musica

Per prima arrivò la brillantina che si mischiò alla voglia di riprendersi dalle privazioni e dal periodo buio della Seconda Guerra Mondiale. I cantanti rock&roll americani furono tra i migliori testimoni di brillantina di tutta la storia. E fu così che, prima come una semplice moda poi come una vera e propria dichiarazione d’identità, le giovani e i giovani d’America incominciarono non soltanto a pettinarsi come i cantanti rockabilly ma anche a copiare le camicie, i pantaloni e le scarpe ai loro idoli. Si indossava ciò che si ascoltava. E andando avanti nel tempo, dalla Londra degli anni '60 tutta piena di giacche colorate in velluto, foulard optical e camicie a fiorellini, passando per i colori sgargianti del glam e le borchie del punk, fino alle camicie di flanella del grunge e agli skinny-jeans dell’indie, chi ascolta un determinato genere musicale si veste anche di conseguenza. Ecco che, quindi, possedere la maglietta di questo o quell’artista e indossarla in modo orgoglioso in praticamente qualsiasi circostanza (e da qui nascono le ormai celeberrime pagine di “Vedo la gente Joy Division” per esempio) è una dichiarazione d’identità molto importante e netta. Non è più semplice merchandising allora, soprattutto quando l’acquisto del prodotto non è eseguito da un “fan ortodosso”. Dicesi fan ortodosso quella persona che, innamoratisi in un certo periodo della propria vita di un certo cantante o band, non “lo lascia più”, seguendolo fedelmente in ogni tournee, acquistando fedelmente ogni suo disco e non dando giudizi di merito ma solamente parlando per tautologie: lui è bravo perché lui è bravo.



Eppure non basta indossare la maglietta dei Ramones per possedere la musica dei Ramones giusto? Questo è senz’altro vero ma le proporzioni vengono un pochino a ribaltarsi se si pensa ad un caso tutto italiano. Calcutta e il suo album “Mainstream” sono stati una delle cose più grosse capitata alla musica italiana da quasi un anno a questa parte. Fatti salvi i dati di vendita è evidente come il gadget “ufficiale” dell’album, l’ormai mitologica sciarpa rossoblù con la scritta bianca tutta maiuscola “MAINSTREAM” va oltre gli angusti confini dell’“oggettino in allegato al disco”. Quella sciarpa per il fatto che è intimamente connessa con la musica e con l’operazione artistica, diviene parte stessa della musica di Calcutta e quindi, quasi paradossalmente, il disco passa in secondo piano, dato che tanto lo si è già ascoltato tutto in streaming o su Rockit, mentre la sciarpa, posseduta solo “da pochi”, diventa l’oggetto totemico che rappresenta in toto quell’artista.

La musica che ci gira intorno

Alberto Peruzzi, docente dell’Università degli Studi di Firenze, ha scritto qualche tempo fa un interessante volume sulla Filosofia Analitica intitolato “La Treccia di Putnam”. Utile per arrivare alla conclusione del nostro discorso è quanto il filosofo scrive a proposito del disco: “Un disco non contiene i suoni emessi dal giradischi, che lo legge, eppure c’è un evidente relazione tra la sequenza di micro-strutture contenute nel supporto fisico – i solchi presenti nel disco – e la musica emessa dal giradischi. (…) Per inciso non cambia nulla se oggi al posto del vinile avete un cd e al posto del giradischi un lettore ottico. La relazione tra la struttura del codice e le onde del codice e le onde sonore è un isomorfismo (identità di struttura formale non fisica)”. Questo discorso è perfettamente applicabile alla mia situazione presso la stazione di Piacenza: sono lì un po’ triste, è domenica mattina e, non sapendo bene che fare, accedo tramite il mio telefono ad un servizio di musica streaming. Io tra le mani non stringo alcun tipo di supporto fisico legato intimamente alla musica, o per meglio dire strettamente legato al disco che io scelgo, eppure, selezionando questo o quello, io in quel momento comunque la possiedo. Tramite una sorta isomorfismo riesco, dunque, a fare la medesima operazione che mio padre, 36 anni prima, poteva fare solo tramite un supporto fisico, il vinile.

Possedere la musica? Forse si può ancora



Sicuramente vi sono delle differenze. Se io per ascoltare un qualcosa debbo mettermi davanti a un supporto, la mia attenzione, nel caso che quel disco incontri i miei gusti, potrebbe diventare quasi totale: un giradischi, anche nella peggiore possibilità dei casi, è comunque dotato di un impianto sonoro per lo meno decente. Diverso è ascoltare un album dalle cuffiette di un telefono: si è in balia degli eventi, anche sonori, e non basterà certamente indossare la spilletta del medesimo artista per proteggerci dalle “interferenze” dell’esterno. Tuttavia, da qualsivoglia angolazione la si voglia vedere, siamo arrivati alla nostra risposta: nel 2016 possedere la musica non è un concetto legato alla fisica quanto alla filosofia. È legato alla filosofia perché, fatta salva la possibilità di raggiungere, senza troppi sforzi e con un minimo di “segnale”, tutta la musica del mondo di tutte le epoche, l’unica musica che noi possediamo è quella che “ci sforziamo” di ascoltare. Uso sforzare non per indicare la fatica ma la natura di precisa scelta che si fa quando, in qualsiasi posto o situazione ci troviamo, decidiamo di interrompere il pressante “flow” della connettività per dedicare il nostro tempo a quell’album. Quanti dischi possediamo senza avere la copia fisica nella nostra libreria? Li possediamo perché abbiamo atteso ore insonni per attendere il passaggio di quel video su MTV Brand New, perché abbiamo fatto fondere il nostro Ipod Nano scegliendo ripetutamente quell’artista e perché abbiamo consumato tutti i, pochi per carità, giga a nostra disposizione opzionando sempre quella band dal nostro telefono. Certo, possiamo fare altro mentre lo ascoltiamo, ma “scegliendo di scegliere” (rieccoci con le tautologie) andiamo a possedere, in modo intimo, quella musica. Nel 2016 perciò possedere la musica significa, banalmente, prestarci “più” attenzione del normale. E magari anche acquistare il disco e la maglietta di quella band.

Io dei Talking Heads infatti possiedo solo i vinili di mio padre.

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L'articolo Cosa significa nel 2016 "possedere" dei dischi? di Mattia Nesto è apparso su Rockit.it il 2016-02-12 13:54:00

Tag: opinione

COMMENTI (3)

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  • jazzengine 8 anni fa Rispondi

    attenzione: i dati che riporti sono relativi alle vendite ufficiali (ovvero nelle catene di negozi che comunicano i dati di vendite).
    in realtà ciò porta a falsare notevolmente il dato dei "65 milioni di album nuovi".
    se escludiamo i BIG, la maggior parte degli artisti vendono i loro album cosiddetti "nuovi" ai concerti (in % molto maggiore che nei negozi).

  • dj206024g 8 anni fa Rispondi

    + 1 x Angelica
    tot. d'accordo

  • angelica.scardigno 8 anni fa Rispondi

    Non sono mai riuscita a comprendere in pieno la correlazione fra musica amata e abbigliamento. E' qualcosa di talmente estraneo al mio modo di pensare che nemmeno un accademico e' riuscito a convincermi.

    Proprio perche' sostengo (e concordo dunque con l'articolo) che si ama la musica che fa parte del noi piu' intimo in ogni sua nota, non riesco a capire come l'abbigliamento, inteso come aspetto tendenzialmente piu' di superficie, possa esserne influenzato.

    Io vado matta per tutto il filone chillwave, ma non mi si vedra' mai vestita con t-shit tropicali. Ma amo il chillwave, per non parlare del punk rock: eppure non indosso mai roba bucata et similia.

    La musica e' molto piu' correlata alla nostra reale natura, molto piu' di quanto noi pensiamo.