Tra il passato e il futuro del pop: Leo Pari

Dopo sei mesi di lavoro in studio Leo Pari torna con un nuovo lavoro dal sapore anni '80 pronto alla conquista delle radio. Lo abbiamo intervistato per farcelo raccontare.

Leo Pari
Leo Pari - Foto di Ilaria Magliocchetti Lombi

"Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini". Parafrasando queste parole di Juriji Gagarin si può capire lo spirito che percorre lo "Spazio" di Leo Pari. Dopo sei mesi di lavoro in studio il cantautore romano torna con un nuovo lavoro dal sapore anni '80 pronto alla conquista delle radio. Confortati da una birra alla spina e uno spritz abbiamo fatto quattro chiacchiere con Pari addentrandoci nel racconto di questo album. Complesso, ma al tempo stesso danzereccio e sognante.

Sei un nome di spicco della cosidetta scena romana, che negli anni (con band come I Cani, Calcutta, BSBE, Viterbini etc) ha saputo farsi apprezzare e trovare una propria collocazione nel mondo discografico nazionale. Tu che suoni ormai da molti anni in città cosa ne pensi? 
Si è parlato parlato di "scuola romana" fino a qualche tempo fa: oggi si usa questo "cappello" per raggruppare sotto la stessa etichetta la musica che si produce a Roma, spesso con un forte stampo cantautoriale. Ci sono stati artisti che ora sono molto popolari come Daniele Silvestri, Max Gazzè, Nicolò Fabi. Alessandro Mannarino lo escluderei perché ha uno stile diverso, ha un suo folk, più classico. Ma Roma a livello discografico è cambiata perché sono cambiati i tempi. Ora ci sono molte etichette indipendenti come 42Records e Bomba Dischi che sono riuscite ad arrivare ad alti livelli di pubblico e gradimento. È cambiato anche il sound e i testi: il pubblico è molto più giovane (vedi quello de I Cani, Calcutta, Thegiornalisti). Ci sono più club e poi i gruppi di adesso hanno meno stimoli mainstream, ma riescono comunque a uscire fuori grazie a canali alternativi come internet. Io faccio parte di questa scena sia per questione di nascita, che per amicizia e frequentazioni. Abbiamo tutti qualcosa che ci accomuna, credo sia Roma stessa con il suo mood e sound unico, ha un'anima inconfondibile.

Dal tuo debutto alla pubblicazione di "Spazio" sei passato dal folk al rock, dal rap all'elettronica, sperimentando si può dire tutti i generi: quale senti più affine e quale il nervo principale che caratterizza il nuovo album?
"Spazio" è un disco POP (da scrivere tutto maiuscolo): ho voluto fare un album legato alla mia infanzia dal punto di vista sonoro e visionario a cui ho voltuo dare un sapore di fantascienza, anche richiamando un po' i film che mi hanno così preso da piccolo come Guerre Stellari. Nonostante ciò non si tratta di un disco autobiografico ma evocativo di quel tempo.

Della tua infanzia riprendi il Juno 106, Star Wars e Lucio Battisti: ovvero visioni a loro tempo futuriste, che tratti con suoni più artefatti e un pop "non più rivolto a te stesso". Qual è l'elemento preponderante del lavoro?
Mancherebbero gli Aristogatti (ride). Mentre nei primi album ero io il protagonista delle canzoni, ora non è più così. Con il pop si sposta l'attenzione, c'è la possiblità di "spaziare", ti fa vivere tante vite, ti fa sognare pur avendo sempre un fondo di verità. 
Quando ero piccolo riuscivo a volare attraverso il surreale, quel dream pop che resta un mondo che mi colpisce ancora oggi. A livello di armonie il mio modo di scrivere questo album è stato ricercato: su 35 canzoni ho scelto solo quelle ben amalgamate tra loro. Ho avuto sempre le idee chiare: sì a sintetizzatori, arpeggiatori, no alle chitarre acustiche. È stato un disco che mi ha preso sei mesi, un lavoro intenso passato in studio con Santo Rutigliano. 

Il nome di riferimento per questo disco è Lucio Battisti, un nome che di recente si sente risuonare come influenza in tantissimi dischi. Dove finisce la derivazione e inizia l'ispirazione?
L'ispirazione è il punto di partenza, il sound che mi ha sempre affascinato di Lucio Battisti era quello di "Una donna per amico". Uno stile internazionale già al tempo ma in italia poco apprezzato perché regnava la canzone impegnata. 

"Ho un nodo alla gola per la nostalgia": cantare un tempo o un amore passato, magari anche con suoni del passato, è una tendenza sempre più decisa nella musica italiana di questi anni. Pensi che la tua generazione di cantautori abbia un problema con la nostalgia, o magari con l'affrontare il presente?
In realtà in questo disco si parla anche del futuro: alcune canzoni nascono da un senso di mancanza, di amarcord, di nostalgia. Un sentimento che ti fa inizare a scrivere. Io non ho problemi con il futuro, anzi sono molto curioso. In canzoni come "La fine del mondo", che parla di quello che ci circonda, si parla di una fine che prima o poi arriverà ma noi non saremmo stupiti perché ormai sommersi da stimoli.

Perché hai chiamato il disco "Spazio"?
"Spazio" è un titolo che mi ha suggerito il mio amico Gianluca De Rubertis. Cercavo un nome che mi richiamasse un senso di landscape sonoro particolare, legato a un mondo siderale. In realtà l'album si sarebbbe dovuto chiamare "arnesi", per filologia con gli altri. Ma mi sembrava scontato.

Nella canzone "I cantautori" parli proprio di questo mestiere. Canti: "i cantautori sono i depuratori della società, i giornali non dicono mai la verità". Mi spieghi questa frase? 
È stato un fare pace con questo termine che mi sta stretto: io in quella parola ci catalogo personaggi come Bob Dylan o Fabrizio De André. Io mi sento un musicista, uno che lavora con e sulla musica. Allo stesso tempo ci volevo far parte: in questa canzone elenco una serie di mestieri in cui includo quello del cantautore: è lui colui che si fa carico delle sofferenze umane ed è capace di trasformarle, renderle più leggere, dare sollievo a chi le ascolto che si sente così meno solo. È questo un po' lo scopo dell'arte. Quindi l'artista si fa filtro della realtà restituendola un po' più pulita. E i giornali spesso omettono la verità. 

"Ave Maria" invece è una preghiera per uomini diventati "macchine isteriche": è una visione pessimista degli uomini italiani nel 2016?
C'è del sacrale in questa canzone. In parte racconta una caduta di valori assoluta. Io non sono religioso anche se ho studiato dalle suore. Conosco bene questo mondo. La canzone racconta la frenesia e l'angoscia di arrivare sempre, che ci fa perdere il senso vero della vita che è quello di vivere in maniera giusta e di fare qualcosa per gli altri. Questo è un punto della mia filosofia interiore: almeno sulla carta si predica l'aiutare l'altro. Credo che nell'Occidente almeno questo sia un sentimento lontano dalla maggior parte delle persone. Questa Maria io l'ho immaginata sciupata, piena di graffi: ho usato questa icona per parlare di una perdita di valori che in Italia coincide con la religione, ma è un caso.

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In tracce come "Bacia Brucia Ama Usa" si parla del lato più passionale dell'amore, in altre invece di quello più solido, di coppia, pronto ad affrontare un futuro, qualsiasi forma abbia. Di che tipo di romanticismo canta Leo Pari?
La prima canzone è una canzone fresca, pop. Vuole raccontare l'inizio di una nuova storia. Quella sensazione, quel prurito che si prova all'inizio della primavera. Qualcosa che tutti abbiamo provato, che tutti vorremmo provare ancora una volta. Volevo raccontare una storia per tutti, pop nel vero senso della parola. Mentre nei precedenti dischi sono stato passionale a livelli quasi morbosi, questo è un disco per tutti, per me ma anche per gli altri. Ho messo da parte il mio "io" per raccontare qualcosa in cui tutti si posso rivedere. Non si tratta di fare musica leggera nel senso di banale, come spesso si ascolta nelle radio network, ma si tratta di fare musica del quotidiano. Se l'indie utilizza un linguaggio fine a se stesso, la musica cantautoriale ha una funzione diversa, può essere compresa da tutti, senza limiti. L'importante è mantenere un senso. Ci sono delle canzoni pop che mi fanno impazzire: penso a Antonello Venditti, a Vasco Rossi, a Claudio Baglioni, che per me è un genio della musica italiana, anche se per anni è stato considerato inferiore agli altri. Ma lui ha fatto dei dischi clamorosi a livello di testi e di sonorità, ha delle modulazioni armoniche pazzesche: fino a "Io sono qui" ha saputo raccontare i sentimenti di una generazione. 

 

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L'articolo Tra il passato e il futuro del pop: Leo Pari di Francesca Ceccarelli è apparso su Rockit.it il 2016-05-03 15:46:00

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