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Joan Thiele Love & roots

La Colombia, l'Italia, la voce e la chitarra:
breve storia di una stella nascente del pop italiano

intervista: Sandro Giorello
stop motion portraits: Federico Ciamei
art direction & dev: Giulio Pons


waxman elefante

Nello studio allestito in un seminterrato poco distante da Cadorna sembra l’Africa, fuori invece diluvia. Milano sembra non aver ancora accettato il fatto che, stando al calendario, dovremmo essere ad un passo dall’estate, ma tant’è. Dopo molte ore di shooting portiamo Joan Thiele in un bar, dobbiamo parlare del suo nuovo ep - chiamato semplicemente, “Joan Thiele” - di tutto quello che è arrivato prima, molti anni prima. Dello strano triangolo formato tra Cartagena de Indias, in Colombia, Londra e Desenzano del Garda, in provincia di Milano. Di quando alle elementari ha deciso che nella vita avrebbe fatto la cantante. Di questa voce bellissima che nel bar ci stupisce dicendo: “Sai che mi piace molto la pioggia?



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Ti facevo più solare, il disco è pieno di palme.

Sono molto solare, ma mi piace anche la pioggia (ride). Le palme, la natura, è una una dimensione molto intima, mi ricorda mio padre - che vedo poco - e la mia infanzia. Ritengo che quel periodo sia stato molto importante per la mia formazione musicale: sono molto legata a determinati suoni, ad un tipo preciso di chitarra e a certi ritmi più tribali.

Quindi in una cornice così tribale come quella allestita oggi ti ci trovi bene?

Direi di sì, sono molto legata a tutto quell’universo più percussivo e ritmico. È una parte fondamentale per me: rappresenta i viaggi, le contaminazioni e, più in generale, la Colombia. È quel pezzo di cuore…

E dalla Colombia cosa ti ha portato a Desenzano del Garda?

Fino ai sei anni ho vissuto lì, poi quando i miei si sono separati, mia madre è voluta tornare in Italia. Lei era di Milano ma ha preferito una dimensione più tranquilla, più lontana dalla città.

Da piccola eri una bambina allegra?

Ero una bambina molto timida, però ero allegra. Molto riservata ma sognatrice, è una cosa che ho sempre avuto.

Andavi bene a scuola?

Da piccola sì, alle superiori un po’ meno. Volevo mollare, continuavo a dire a mia madre che volevo suonare ma, giustamente, lei non era d’accordo. Io continuavo a dire “voglio suonare” e lei “non se ne parla”.

Quando hai capito che nella vita avresti fatto la musicista di mestiere?

In pratica lo sapevo da sempre. Hai presente quando alle elementari ti chiedono cosa vuoi fare da grande? Invece di rispondere il pompiere o il dottore, come tutti gli altri, io dicevo che volevo fare la cantante.

Dove nasce questa tua passione e, soprattutto, come hai convinto i tuoi genitori che era questa la tua strada?

Nella mia famiglia il mood è sempre stato “vuoi fare una cosa? Trova il modo di farla”. Dopo la maturità mi hanno dato una mano per andare a studiare a Londra. Una volta tornata, però, ho dovuto mantenermi da sola.





E ci riuscivi bene?

Abbastanza, sì. Ero costretta a fare almeno due-tre concerti a settimana. Ogni giorno chiamavo ogni locale o circolo arci che riuscivo a trovare e gli chiedevo di farmi suonare. Li ho convinti quasi tutti (ride).

È servito?

Decisamente. Probabilmente se avessi avuto un altro tipo di disponibilità economica non mi sarei sbattuta più di tanto. Io credo che l’esigenza di scrivere canzoni prescinda dai soldi, è una cosa che ti senti dentro e per me è sempre stata una passione molto forte, ma per il live è diverso: fare tanti concerti è un’ottima scuola, impari un sacco di cose.

Qual è la prima cosa che deve imparare una musicista?

È una bella domanda, ti direi ad adattarsi (ride)

È una bella risposta.

È ancora più importante imparare ad ascoltare, intendo imparare a recepire i vari tipi di scrittura per poi capire come riuscire ad averne uno tuo e trasmettere le cose che vuoi dire. E poi, sì, adattarsi, il percorso fatto con i live è stato molto importante. Suonare, suonare, suonare, suonare.

Non mi hai ancora spiegato, però, da dove nasce questa tua voglia di suonare.

È un’esigenza, non te lo so spiegare altrimenti. È una delle cose più intime in assoluto che ho. Poi, certo, il periodo a Londra mi ha dato moltissimi stimoli: il mio ex ragazzo è un bravissimo musicista, abbiamo frequentato moltissimi festival interessanti. Sembra una banalità ma ti assicuro che determinati concerti possono cambiarti la vita. Sei anni fa mi è capito di vedere James Blake a Greenman, in Galles. Ai tempi non era certo così famoso, saremmo stati al massimo cento persone. È stato qualcosa di forte: rimanere a bocca aperta per uno che nemmeno conosci ti mette in circolo tutta una serie di energie nuove.

Scrivi tanto?

In genere sì, poi dipende dai momenti. Per me funziona così: di solito scrivo la musica, poi la melodia e tutto il resto. In alcuni casi i pezzi li completo nel giro di qualche giorno, altri ci metto solo poche ore, dipende. A volte, poi, capitano degli incastri magici, come è stato per “Save Me”, che ho scritto con Clod, ex Iori’s Eyes. È un mio carissimo amico, ci siamo chiusi in camera sua ed è stata un po’ come una fusione: ci siamo lasciati andare ed è nato il pezzo.

“Save me” ha un testo particolare, da una parte sembra che tu voglia ribadire una tua forza e una tua indipendenza dal giudizio degli altri, ma poi nel ritornello chiedi che qualcuno venga a salvarti.

Quella canzone è nata in un periodo un po’ difficile a livello personale. Il testo è nato così, senza pensarci troppo. È vero, c’è questa ambivalenza ma è una richiesta di aiuto che faccio fondamentalmente a me stessa. Nel ritornello mi chiedo: qualcuno può salvarmi? Ma se non sei la prima a capire che vuoi affrontare determinati cambiamenti, nessuno può farlo al posto tuo.

Mentre “Hearthbeat” parla di una storia d’amore? C’è quella confusione tipica di chi è in balia dei sentimenti dell’altro.

Questo ep parla di molte persone e di rapporti a cui sono molto legata, parla di passato e di distacco dal passato. “Hearthbeat” è un po’ tutto quello che rappresenta la Colombia per me. È quel contrasto che ho sempre sentito - e che sento tutt’ora quando ci torno. Lo stile di vita di quel paese, il rapporto con mio padre. È quella sensazione che provo quando sono lì: vorrei andarmene e allo stesso tempo rimanere. Non capisci mai se quello è il tuo posto o meno, se preferisci andartene subito o rimanerci per sempre.

La cosa più bella della Colombia qual è?

Lo spirito che si respira, come vive la gente, la musica per strada, la forma delle case… A prescindere dal tipo di confusione che ti descrivevo prima, per me la Colombia rappresenta un tipo di serenità precisa. È uno stato mentale.

Mentre “Rainbow” è dedicata a tua mamma.

Esatto. Mia madre è una donna molto semplice, è stata una figura molto importante per me, ha cresciuto me e mio fratello praticamente da sola. È stata una donna assolutamente forte ma, al tempo stesso, molto fragile. “Rainbow” rappresenta la sua presenza nella mia vita: nonostante i classici rapporti madre-figlia - che, ovviamente, in certi momenti possono diventare più duri e complicati - in lei rivedo dei colori e nella canzone dico “I’ll take care of your colors”, ovvero voglio prendermi cura della tua forza come della tua fragilità. Mi piaceva immaginarla come se fosse un arcobaleno, tutte queste sfumature la rappresentano bene.





Tu hai sofferto tanto per amore?

Sì, parecchio. La prima volta che mi sono innamorata davvero avevo 18 anni, quando è finita ci sono stata di merda. Ci ho messo un sacco di tempo per buttarmi quella storia alle spalle.

Il londinese?

Lui.

E quante altre volte ti sei innamorata?

Mi innamoro spesso. (ride)

Te lo chiedo perché dai testi un po’ lo si capisce. Alterni immagini forti ad altre genuinamente più sofferte e fragili. Il disegno che ne esce è davvero molto bello.

Mi sono innamorata seriamente solo tre volte. Prima scherzavo nel dirti che mi innamoro di tutto ma, in realtà, spiega un po’ il mio carattere: vivo le cose in maniera molto forte, mi lascio trasportare, ho bisogno di sentirle. Non sono una persona apatica, ogni situazione la vivo al 100% ed è una sensazione che mi piace molto. Sono sempre innamorata delle cose. Mi piace innamorarmi, insomma.

E quando in “You & I” domandi “Did you act like a man?” la risposta qual è?

Sembrerò ripetitiva ma anche questa è un’immagine della mia famiglia. “You & I” non è propriamente una canzone d’amore: è la scena di una donna su una panchina mentre vede andare via il suo uomo e gli dice “Trying to protect yourself”, l’hai fatto solo per proteggerti. Nonostante sia una canzone molto forte, è a lieto fine. Perché una donna comprende le evoluzioni, i cambiamenti, capisce il proprio uomo e capisce che ha agito “come un uomo”, ma per proteggersi. Non ha alcuna accezione negativa o maschilista, è come dire: hai agito in questo modo perché sei fatto così. Non volevo raccontare la classica figura del maschio egoista ma come una donna possa comprendere determinati cambiamenti. Vuol dire ammettere che ci possono essere stati degli errori, che si poteva essere qualcosa, ma ora non lo si è più. Se noti c’è anche un cambio di accordi, da quelli in minore si apre verso accordi maggiori.

Come hai lavorato all’arrangiamento di queste canzoni?

La cosa bella è che è nato tutto in una dimensione casalinga. I pezzi sono tutti legati agli arrangiamenti che usiamo già per il live. Per “Lost One” - che è una cover di Lauryn Hill - ci siamo chiusi in studio e l’abbiamo provata e riprovata come se avessimo dovuto portarla dal vivo. La maggior parte delle canzoni sono state prodotte insieme agli Etna, solo “Taxi Driver” è stata scritta e arrangiata a New York.

Per questo nuovo ep hai lavorato con dei produttori molto importanti: Andre Lindal e Anthony Preston - entrambi nel team di Britney Spears - oltre a Farhot, a Fabrizio Ferraguzzo e agli Etna. Come hanno curato le registrazioni?

È stato tutto molto semplice, gli stessi Lindal e Preston erano persone tranquillissime. Io ho portato la canzone praticamente già finita e l’abbiamo terminata insieme. Ma ti assicuro: super easy, zero puzza sotto il naso, non mi hanno messo fretta in alcun modo. Ovviamente avevano uno studio bellissimo ma sembrava di stare a casa: il primo giorno abbiamo fatto le voci, e poi ci siamo dedicati al resto del pezzo.

Mentre gli Etna come li hai conosciuti?

Sono siciliani ma li ho conosciuti un pomeriggio di qualche anno fa in Piazza XXIV Maggio a Milano. Io avevo un live e ho visto questi due ragazzi che suonavano i barattoli per strada. Li ho invitati al mio concerto e gli ho detto che dovevamo assolutamente fare qualcosa insieme. Sono andata a trovarli a Catania e mi sono innamorata di loro: abbiamo scoperto di essere decisamente compatibili, si è subito creato un legame molto forte.





Il pop ti piace?

Dipende, alcune cose mi piacciono molto, altre meno. C’è “Lean On”, il pezzo dei Major Lazer con MØ che ha spaccato le classifiche pur essendo una canzone molto particolare e prodotta benissimo. A mio avviso è un ottimo esempio di quello che considero il pop “fatto bene”.

L’idea di prestare la tua voce ad un producer ti piacerebbe? Ad esempio, come ti vedresti insieme a Major Lazer?

Ovviamente con Major Lazer mi piacerebbe moltissimo, con altri nomi non saprei. Sia chiaro, mi piace il pop, altrimenti non avrei fatto un disco così, ma non so fino a quanto potrei spingermi verso produzioni decisamente più pompate…

Una cosa tipo Rihanna e Calvin Harris non ti interessa, per intenderci.

Esatto, al momento ti direi di no. Nonostante io adori Rihanna, per me preferirei una dimensione più raccolta e intima. Mi piace molto sperimentare, vorrei anche andare in quella direzione ma a modo mio: sono molto legata al mondo Little Dragon, soprattutto per l’utilizzo della voce, o a dj come Nicolas Jaar.

Nel pop la sensualità è un elemento importante. Ovviamente è un discorso ampio e non c’è un unico modo per essere sexy, ma ti è mai interessato giocare con la tua immagine?

Sarebbe sbagliato dire che non mi interessa, ma forse se ci giocassi in questo momento risulterei poco vera. Una persona è fatta di mille sfumature, abbiamo mille parti del nostro carattere e possiamo decidere quali tirare fuori o meno. Sicuramente in questo preciso frangente della mia vita non mi vedo in quella dimensione. Come dici tu, ci sono molti modi in cui si può essere sensuali: ad esempio - anche se non tratta di un’artista prettamente pop - Lianne La Havas è iper sexy. La sensualità sta anche nella voce, nei tuoi movimenti, nel tuo modo di cantare.

A te piace la tua voce?

A volte sì, a volte proprio non mi piace, penso sia naturale no?

Nelle tue canzoni la voce ha un ruolo importante, sei d’accordo?

Assolutamente, io penso che il timbro sia fondamentale. Non penso che la tecnica si una cosa così necessaria per svoltare: puoi anche essere tecnicamente perfetta, ma se non hai il timbro hai solo una bellissima voce. Se invece hai il timbro e la tecnica boom (mima l’esplosione con le mani, NdA). Lianne La Havas ha entrambe le cose, Feist pure. Sono quelle cantanti che, quando le ascolti, le riconosci subito senza nemmeno capire il perché.





Studiare chitarra ti è servito?

Mi è stato utile per iniziare, sicuramente non sono una chitarrista tecnica, ma lo studio mi è servito per mettere dei paletti, darmi degli obiettivi e stimolarmi a raggiungerli. Non sono mai stata troppo costante nello studio - sono una super pasticciona - e avere degli schemi da seguire può servire.
Dovrei rimettermi a studiare, appena posso lo farò.

Finora hai pubblicato molte cover, perché?

Mi piacciono molto. Ad esempio, “It’s a shame” degli Spinners è un pezzo che ho sempre amato moltissimo. È nata molto semplicemente: un giorno l’ascoltavo e mi è venuta voglia di cantarla. Stessa cosa per “Lost One”, contenuta nell’ep, mi è venuto naturale cantarla così, anticipando il ritornello e modificando l’ordine delle parti. Mi piace sempre rielaborarle, non mi interessa rifarle uguali all’originale.

Servono per farsi conoscere?

Non ti saprei dire. Certo quella di Drake è andata molto bene, ma di fatto ho iniziato a farmi conoscere fin da subito con l'inedito “Rainbow”, la prima che ho caricato su YouTube. Io penso che le cover possano essere molto utili, soprattutto per chi non ha una predisposizione immediata allo scrivere. Possono diventare un tuo modo per studiare i vari tipi di songwriting, senza per forza poi proporle dal vivo. Ti aiutano a capire fin dove puoi spingerti con la voce.

Di musica tu ne ascolti tanta?

Sì, moltissima, in effetti non deve essere stupendo essere un mio vicino di casa (ride).

Il rap ti piace?

Da morire. Mi piacciono diversi rapper italiani ma il mio preferito in assoluto è Salmo, penso che vocalmente sia davvero bravo: ha un bellissimo timbro. Tra gli stranieri ho da poco scoperto una ragazza di 20 anni che si chiama Little Simz. Adoro M.I.A. - sono piuttosto in fissa con lei, l’ascolto almeno due volte al giorno (ride) - e poi tutto il filone anni '90, Bahamadia, Lauryn Hill

La moda la segui?

Sì mi piace. Mi piacciono le cose belle, mi piace aver cura dell’immagine. Non sono ossessiva perché non è da me, ma mi piacciono i vestiti e mentirei se ti dicessi che non sono una delle tante vittime dello shopping (ride).

I tuoi genitori ti facevano ascoltare musica quando eri bambina?

Sì, i Beatles e tantissimo Jim Croce, un cantante folk country molto famoso ai tempi. La cosa divertente è che mia madre, che di cognome fa Croce, mi diceva sempre che era mio cugino. Io sono cresciuta credendo di avere una star in famiglia. Non era vero ovviamente (ride).

La cosa più bella del tuo lavoro qual è?

È svegliarsi la mattina ed essere totalmente felici perché sai già che passerai la giornata a fare quello che ti piace. Te l’ho detto, è stato il mio sogno fin da piccola. Ovviamente ci sono anche i momenti brutti, quando ti senti giù e non riesci a scrivere nulla. Ma la consapevolezza che stai facendo il lavoro che ami, ti fa stare bene.





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