Ho ascoltato “Luca Carboni” trent'anni dopo

A trent'anni dall'uscita abbiamo ascoltato il terzo disco di Luca Carboni come se fosse uscito oggi

Anno 2017. Personaggi tragicomici comandano il mondo, si dibatte di diritti delle donne e delle minoranze, ci sono muri ovunque, qualche artista si ribella, non tantissimi a ben guardare, in Italia ancora meno. Anzi la maggior parte preferisce rifugiarsi in una poetica delle piccole cose, della provincia, della nostalgia, del quotidiano.

Anno 1987. Praticamente uguale, con qualche brillantino e barlume di ottimismo in più.
Tolte le ovvie eccezioni, anche trent'anni fa da queste parti non era il tempo della musica barricadera. Quella sarebbe tornata di prepotenza negli anni '90, quando non potevi ascoltare le canzoni sul mare e l'amore mentre okkupavi la scuola.
Nell'87 invece non c'era alcun imbarazzo nell'ascoltare dischi intimisti e romantici, ai limiti dell'ombelicale, senza proclami sui massimi sistemi. E che però a modo loro, raccontandone un angolino, raccontavano un mondo intero.

Nel 1987 esce l'album omonimo di Luca Carboni. È il terzo della sua carriera, e quello che più di tutti ne racchiude l'immaginario. Una summa del cantautorato minimal-sottovoce, (apparentemente) naif, che ascoltato con delle orecchie “vergini”, ovvero come se non l'avessimo mai sentito, potrebbe essere spacciato senza troppi problemi per un nuovo Calcutta-Paradiso o qualsiasi altro cantautore contemporaneo della normalità. Questo se solo ignorassimo alcuni particolari che ne svelano qualche ruga: come certe chitarre vascorossiane, certi fiati che fanno sempre un po' film con Gigi e Andrea...

E allora, facciamo questo gioco della prima volta.

Silvia lo sai
Da qualche tempo gira molto in rete un articolo che dice, in estrema sintesi, che la causa della tossicodipendenza non è la sostanza ma la solitudine, reale o percepita. La droga (l'eroina in particolare) è un tema molto anni '80, ma in pochi riescono a trattarlo senza cadere o nella glorificazione sesso-droga-rock'n'roll o, all'opposto, nel tragico "perché lo fai disperato ragazzo mio perso nel degrado dello zoo di Berlino". Con delicatezza e linguaggio colloquiale ma sensibile, Luca Carboni racconta semplicemente l'adolescenza, raccontando di Luca e Silvia e quel senso di paura e isolamento da cui tutti provano a sfuggire in tanti modi, di cui la siringa è solo uno dei possibili. Luca potrebbe essere il nostro migliore amico, potrebbe essere il ragazzo che provava a tenerci la mano, potremmo essere noi.

Caro Gesù
Il colloquio con il superiore, vagamente blasfemo (“fammi entrare nel business”, “i soldi lo so che non danno la felicità, immagina però come può stare chi non ne ha”) ambientato forse in un aeroporto, a giudicare dal sottofondo di voci dall'altoparlante, non è altro che la confessione di una classica crisi di crescita. “Sai che ho finito la scuola già da un po', ma non so fare i miracoli che facevi tu”, con contorno di crisi globale (“qui le case in affitto non esistono più”) e nostalgia di un passato vissuto solo di striscio. Una preghiera laica ancora attuale.

Lungomare
Dolce malinconia da “fine dell'estate” alla massima potenza: pescatori che non si orientano più con le stelle ma con le insegne degli hotel, tedeschi in sandali e borsello, “donne sulle biciclette con le braccia nude e le grandi tette”, la Romagna, l'ombra di Dalla e degli Stadio, gli amori del mare, quant'è bella la giovinezza e quant'è triste accorgersene tardi.

La voglia di vivere
Un'intro dalle atmosfere quasi lynchiane per una ninna nanna amarognola che si apre in un ritornello a dire la verità abbastanza banalotto e democristiano ("Che la voglia di vivere / non ti possa mancare / la santa voglia di vivere / ti faccia sempre sognare /ti porti molto più in alto, più in alto..."). Chissà, se fossero state otto le canzoni invece che nove, si sarebbe quasi quasi potuta usare la parola “perfezione”.

Gli autobus di notte
“Non ti fanno tenerezza gli autobus di notte?”. Come fai a non rispondere di sì? Certo che ci fanno tenerezza, lui ce lo chiede con quella voce che pare sempre arrochita da mancanza di sonno e ti pare proprio di stare in giro, “il solo sveglio in tutta la città”, a fare riflessioni intrise di animismo urbano che poi diventano, per forza, pensieri sulla vita, il tempo che passa, diventare grandi, non voler morire.

Farfallina
“Un fiore in bocca può servire, non ci giurerei”. Citazionismo postmodernista e dissacratore, ed è subito godimento per chi, con tutto il rispetto per Battisti, mal sopporta “La canzone del sole” e i canzonieri degli scout. Andando avanti, se l'ascolto è distratto emergono solo flautini pastorali e svolazzi multicolori sui prati in primavera, ma se ci si sofferma ad ascoltare, in questi archi, in queste esplosioni di “ho bisogno d'affetto e di qualcosa che non c'è”, ci trovi più darkness che nei Joy Division, altro che farfalline.

Continuate così
“Voglio venire con voi, voglio volare con voi”. Come sopra: inquietudine quasi patologica travestita da funk moderato, con i cinguettii di risposta degli uccellini invocati nel testo, come un dialogo tra un novello San Francesco e le creature libere che bevono e mangiano, "senza aver lavorato, senza aver pagato, senza aver fatturato".

Vieni a vivere con me
Che cos'è una canzone d'amore? Deve essere per forza lacrime, sentimenti esagerati, dichiarazioni a squarciagola? Non può essere una richiesta semplice, andiamo a vivere insieme? Diventiamo grandi insieme, dipingiamo le pareti, facciamo un mucchio di peccati, siamo un po' felici un po' disperati, facciamo il bagno in due, spalmiamo la maionese, impegniamoci, semplicemente, senza tante menate, finché siamo giovani, siamo vivi, ci amiamo? Certo che può essere anche questo, una canzone d'amore: una boccata d'aria fresca (e modernità: “vieni a vivere con me”, non “sposami”).

Chicchi di grano
Si era cominciato con un argomento ultra eighties, si chiude con il più universale dei temi pop (anche se suonato in uno stile che più '87 non si potrebbe): la fine di un amore. Che diventa anche fine di una stagione della vita. E l'inizio di un'altra, 'ché dai semi buttati così, comunque, nasce sempre qualcosa. “Come le foglie d'autunno un colpo di vento ci spazza via, come chicchi di grano buttati per caso un un campo cresciamo, magari forse ci amiamo, ma poi ci perdiamo e non ci si incontra più”.

E alla fine, sarà perché il tempo è tutto un ciclo di stagioni che si ripetono, questo 1987 somiglia proprio tanto al 2017, e che alcuni dischi come alcuni di noi invecchiano, fanno pure dei “figli”, ma si mantengono sempre bene.

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L'articolo Ho ascoltato “Luca Carboni” trent'anni dopo di Letizia Bognanni è apparso su Rockit.it il 2017-03-14 13:26:00

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COMMENTI (9)

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  • casa70 7 anni fa Rispondi

    In Caro Gesù la voce iniziale non è "da aeroporto", ma chiede (in francese) a un gruppo di ragazzini di spostarsi in una determinata direzione e di fermarsi davanti al dipinto sulla sinistra di una chiesa.

  • casa70 7 anni fa Rispondi

    In Caro Gesù la voce iniziale non è "da aeroporto", ma chiede (in francese) a un gruppo di ragazzini di spostarsi in una determinata direzione e di fermarsi davanti al dipinto sulla sinistra di una chiesa.

  • ateogaremi 7 anni fa Rispondi

    Album prezioso. Se oggi qualche ragazzino mi chiedesse di descrivergli gli anni 80 risponderei facendogli ascoltare Silvia lo sai. In quella canzone c'è il condensato di una generazione con le sue paure, la quotidianità e lo scorrere dei giorni normali.

  • Car 7 anni fa Rispondi

    Bellissimo questo articolo; non posso che concordare: ho amato e conosciuto Luca Carboni proprio con questo vinile e da questo mi sono appassionata alla sua musica.
    E' vero: le ansie, le paure, le tensioni, introspettivamente raccolte e raccontate in questo album sono le stesse della nostra generazione; a testimonianza del fatto che gli anni passano ma le paure no...i lavori subito successivi a questo di Carboni, sono fors eancora pu' intimi e smepre bellissimi..gli ultimi mi piacciono un po' meno

  • vito.vita 7 anni fa Rispondi

    Come ha scritto Emi, la voce della donna in francese in "Caro Gesù" descrive l'interno di una chiesa a dei turisti. E si capisce che è ambientata in una chiesa anche dal testo "C'erano ancora le candele di cera, non queste con l'elettricità". In questo brano, come anche in altri, c'è un'ironia che deriva dai Teobaldi Rock

  • steven2 7 anni fa Rispondi

    Quasi piango per quanto ho amato (e amo ancora) questo disco "normale" di canzoni eccezionali, piccoli gioielli del quotidiano, eppure grandi e ora mature

  • circosanvito 7 anni fa Rispondi

    è Carboni che era avanti, o sono "i nostri" che pescano a man-basse da quelle atmosfere li?! Che, per Dio, meglio magari pescare da li che dal synth pop odierno!

  • dorianafantasia 7 anni fa Rispondi

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  • mEmi0 7 anni fa Rispondi

    le voci in sottofondo in "caro Gesù" ho sempre pensato che fossero di una guida che mostra la chiesa ai turisti..