Ernia, il cavaliere oscuro del rap italiano

Un'intervista-fiume a Ernia, in cui si ripercorre tutta la sua carriera, sin da prima della trap

tutte le foto sono di Cosimo Nesca
tutte le foto sono di Cosimo Nesca

Ernia è un ex componente della Troupe d'Elite, la crew formata da Ghali, Maite e Fawzi, prima che i quattro prendessero ognuno la propria strada solista, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Dopo un periodo di riflessione personale, Ernia è tornato con "Come uccidere un usignolo", il suo album pubblicato all'inizio di giugno da Thaurus. È venuto a trovarci in redazione, e per cominciare la nostra intervista gli abbiamo letto una poesia di Pascoli, "L'usignolo e i suoi rivali".

Egli coglieva ed ammucchiava al suolo
secche le foglie del suo marzo primo
(era il suo nuovo marzo), il rosignolo,
per farsi il nido. E gorgheggiava in tanto
tutto il gran giorno; e dolce più del timo
e più puro dell’acqua era il suo canto.
Cantava, quando, per le valli intorno,
cu... cu... sentì ripetere, cu... cu...
Ecco: al cuculo egli cedette il giorno,
e di giorno non volle cantar più.
Non più di giorno. Ma la notte! Appena
la luna estiva, di tra l’alabastro
delle rugiade, tremolò serena,
riprese il verso; e d’or in poi soltanto
cantava a notte; e lucido com’astro
e soave com’ombra era il suo canto.
Cantava, quando, da non so che grotte,
sentì gemere, chiù... piangere, chiù...
All’assïuolo egli lasciò la notte,
anche la notte; e non cantò mai più.
Or nè canta nè ode: abita presso
il brusìo d’una fonte e d’un cipresso.


Questa poesia racconta di un usignolo che decide di scappare e di smettere di cantare urtato dalle fastidiose melodie degli altri volatili. In particolare, ho concepito questa intervista partendo da questa immagine: un assiuolo e un cuculo che facevano “cuu cuu”…

In pratica l’assiuolo e il cuculo rappresentano la trap?

Esattamente, conoscendoti solo indirettamente attraverso le tue canzoni, dubito che tu ti sia ispirato a Pascoli, ma ho subito pensato che il titolo fosse comunque, in qualche modo, una citazione.
Sì, in effetti, il titolo è la traduzione letteraria di “To kill a Mockingbird” di Harper Lee, anche se il mockingbird è un uccello tipicamente americano, non traducibile direttamente con l’usignolo. L’idea di base è comunque quella del far del male a qualcosa d'indifeso, innocuo. Il libro tratta le vicende di un bracciante di colore che tenta di sfuggire alla sua prigionia e poi viene ingiustamente condannato. La sua uccisione è paragonata a quella degli uccellini a cui i cacciatori sparano per puro divertimento. Un gesto senza senso, di pura crudeltà, ma che in realtà compare frequentemente nella storia della letteratura. Penso ad esempio all’albatro ucciso dai marinai di Coleridge.



All’interno dell’album questa cattiveria che significato ha? È una tua cattiveria, una cattiveria che Ernia cova dentro, o si riferisce alle angherie che hai dovuto subire ai tempi dei Troupe D’Elite?

Potrebbe anche riferirsi alla mia cattiveria. Molte mie canzoni hanno un’attitudine musicale violenta e nei miei versi capita spesso che io me la prenda “metaforicamente” con qualcuno. L’Ernia rapper è molto più aggressivo del Matteo riflessivo della vita reale. Ma certamente mi riferisco anche alle critiche che abbiamo ricevuto nel 2012-2013 quando debuttammo con Troupe D’Elite. Critiche ingiustificate, a volte senza senso. In realtà poi, personalmente, sono stato l’obiettivo meno bersagliato del gruppo, sicuramente meno di Ghali e di Maite che, in quanto donna, dovette anche sorbirsi tutto quel genere di insulti sconfortanti a sfondo sessista.

Ma ascoltando canzoni di quell’album come “Maria” si poteva notare come tu fossi diverso dagli altri. Seppur calata in un contesto diverso, la tua strofa anticipava già il tuo stile attuale. In fondo, questa parentesi musicale, nonostante le critiche che ha comportato, è servita per farti diventare l’Ernia profondo ma incazzato che conosciamo ora?
Assolutamente sì. Io, a differenza di tanti altri artisti, non rinnego il mio passato, anzi, dopo un periodo di sgomento ne ho effettivamente giovato. Sono molto ambizioso. Ho veramente provato a volgerlo a mio favore. Ho voluto dimostrare a chi mi ha giudicato in maniera sbagliata cosa sono in grado di fare adesso. Devo però aggiungere che molti artisti hanno ammesso di essersi sbagliati contattandomi personalmente. In realtà ho sempre avuto questa propensione allo storytelling, quest' approccio alla musica. La voglia di raccontarmi mi ha sempre contraddistinto fin dal debutto da giovanissimo.

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Nel tempo te ne sei fatto una ragione delle critiche?
Eravamo molto giovani, quindi anche molto cafoni e colorati, sfacciati. Anche in questo senso anticipammo la Dark Polo Gang, che comunque rispetto a noi è stata accettata molto più facilmente. Magari abbiamo sbagliato modo di porci ma volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse, portare in Italia quelle suggestioni americane e francesi che ci colpivano. Eravamo diciottenni che volevano fare i rapper a cui una major aveva proposto un contratto. Stavamo sognando e forse di conseguenza non eravamo neanche sufficientemente lucidi. Ma siamo stati i primi a fare qualcosa di assimilabile a una “proto-trap”. Nel nostro Paese sono tutti bravi a salire sul carro dei vincitori ma a quei tempi il discorso dell’old school (tutta quella corrente di pensiero che ruotava attorno alla filosofia del “rap vero”) era ancora più opprimente di oggi. In effetti il logo della Sony piazzato nel primo frame del nostro video non ci ha aiutato per niente.

Eppure ci sono artisti che provengono proprio da quell’ambiente che hanno saputo stare al passo con i tempi, penso ad esempio a Bassi Maestro.
Io mi riferivo a riviste che ci hanno mosso tonnellate di critiche su presupposti personali senza mai soffermarsi su quegli aspetti musicali comunque innovativi che stavamo portando e che oggi, per evidenti motivi di mercato, hanno cambiato idea. Non possono più venirci contro, parlo proprio in termini di clickbait. E poi mi riferisco ad artisti più vecchi di noi di una o due generazioni che hanno passato più tempo a commentare le nostre vicende che a scrivere canzoni. Più che di rapper qui stiamo parlando di nerd del rap, gente che si è autoimposta delle regole vent'anni fa e che si ostina a non venirne meno. Nessun problema, non fosse che chi le trasgredisce a loro avviso è sempre una merda. Continueranno a fare lo stesso genere anche a sessant'anni dall’alto del piedistallo che si sono costruiti da soli. Ma probabilmente erano più preoccupati di essere scalzati da quattro ragazzini che veramente contrari alla nostra musica. Li posso anche capire, gli è tremata la terra sotto i piedi a vedere che le major appoggiavano qualcosa di così diverso.
La rivoluzione ha ormai avuto atto, Sfera ha portato la trap a un altro livello, lui è veramente una superstar. E anche Ghali ha fatto il botto. Ora è facile aderire a questa nuova corrente. Negli ultimi tempi ho visto molti di quei nerd di cui ti parlavo prima cambiare rotta millantando di spaccare ancora, stravolgendo il flow e il personaggio in un gioco che non regge la candela. Bassi Maestro non ha mai avuto questi problemi perché ha sempre avuto una credibilità sua, avrà formato almeno tre generazione di rapper. Ha scelto l’interprete della trap che gli piaceva di più, quello che probabilmente sentiva più vicino emotivamente o compatibile col suo tipo di musica e, nell’ultimo album, ha inserito Vegas Jones. Ma il vero maestro in quest’arte è Guè.

Infatti, nel suo ultimo album, Izi collabora in una canzone con Caneda e, durante l’intervista, gli ho chiesto proprio se “Il ragazzo d’oro” di Guè fosse a tutti gli effetti la prima manifestazione della trap in Italia.
Esattamente, era proprio un discorso di flow sbiascicato, di video, questo fatto di non chiudere mai le rime e ripetere costantemente la stessa parola che mandava in bestia i cultori della vecchia scuola. Guè Pequeno è l’unico artista con un modus operandi veramente americano. Sforna un album l'anno ed è forse l’artista italiano con più collaborazioni all’attivo. Non si è mai fatto vero promotore di una moda ma ci ha sempre visto lungo, non si è mai piegato alle mode ma le ha sempre fatte sue. Che faccia gangsta rap o trap il suo stile è sempre riconoscibilissimo. Guè Pequeno è innanzitutto una brand, ma una brand che è sempre stato in grado di ridiscutersi ed è per questo che da vent’anni è sulla cresta dell’onda. È sempre stato aperto nei confronti di ogni genere, compresi noi. Ci ha aiutati molto. Lui è il mostro finale di questo gioco. Ma potremmo anche parlare di Tormento, che è stato a tutti gli effetti un Drake prima di Drake, e di Shablo. Shablo è il Guè Pequeno dei dj, ha messo mano in tutti gli album rap più importanti degli ultimi vent’anni.

Shablo è stato persino coinvolto nel recente progetto di Liberato. C’è da dire che ora le cose si stanno finalmente muovendo, e non è un discorso che può limitarsi solamente alla trap, è un fermento che ha colto la scena nel suo complesso. Aggiungerei anche che la concezione del rap in Italia è qualcosa di estremamente differente dal resto dell’Europa, se non del mondo…
Assolutamente. Prima il discorso era più inquadrato. Ora c’è più libertà e il rap si sta mostrando in tutte le sue mille sfaccettature. Ovviamente, per l’utente medio over 50, il rap rimarrà incarnato da Fedez e J-ax, un rap che forse non è neanche definibile in quanto tale e che probabilmente sarebbe meglio chiamare pop. Ma ci sono artisti come Rkomi, con uno stile particolarissimo, semi-cantato con le chitarrine nei beat, che si sta conquistando spazio all’interno di un pubblico indie. L’ultima canzone “Apnea”, prodotta da Carl Brave, è bellissima. Per moda, per reticenza culturale o semplicemente per motivi di mercato molti artisti non si sono limitati a imitare i rapper americani. Io spero che la nostra generazione, i nostri ascoltatori, crescendo possano portare in radio qualcosa di simile a “Qt”, qualcosa di molto più rap. Al giorno d’oggi per convergenze storiche e con la diffusione di internet puoi permetterti di dire quel che vuoi, puoi porti come romantico, cafone o polemico, se piaci avrai sempre ragione.

A proposito di “Qt”, proprio in questa canzone prima del secondo ritornello pronunci questa frase “si chiedono se faccio la trap e fanno la lotta \ la realtà è che della trap io son l’alternativa”. Come la dobbiamo intendere, tu ti reputi l’alternativa effettiva alla trap o una variante alternativa di questo genere?
Io faccio rap a tutti gli effetti. E non voglio dire che non mi piace la trap. Adoro la trap, semplicemente non me la sento di ascrivermi in tutto e per tutto a questo genere. Quella frase si riferisce ai commenti che mi sono stati mossi ai tempi dell’uscita del mio ep “No Hooks”. Molti s'interrogavano sulla natura della mia musica chiedendosi come fosse possibile che questo ragazzino sviluppasse una rappata “canonica” sopra a sonorità trap. A detta di molti sono così diventato il “vero rapper dei giovani”. È una definizione che un po’ m'inorgoglisce e un po’ mi spaventa. Io fondamentalmente faccio quello che voglio. Sono un rapper che al massimo si è cimentato con dei pezzi trap o che dalla trap ha preso semplicemente spunto. Ma in fondo penso di rientrare in questa categoria solamente perché ci conoscevamo già tutti da tempo e siamo esplosi quasi tutti contemporaneamente. Se dovessi venire considerato come il vero rapper dei giovani perché tratto argomenti meno leggeri di Sfera o della DPG, sinceramente, non sarei d’accordo con questa definizione. Ognuno ha il suo stile e la musica si presta anche a situazioni diverse, non vorrei mai ascoltare un mio pezzo come “Neve” a un party. Comunque la trap non è altro che un filone del rap che ha preso particolarmente piede negli ultimi due anni come precedentemente avevano fatto il crunk, il gangsta o il grime. Anche la trap credo sia destinata a sopirsi per diventare un genere di nicchia. Rimarranno una serie di fan super incalliti ma il futuro a mio avviso comporterà un ritorno a cifre stilistiche più classiche. Kendrik Lamar, J. Cole gli artisti che vendono di più in America sono tutti caratterizzati da questa rappata pulita. Comunque a me non piace etichettare troppo, non credo sia necessario soffermarsi sulla sfumatura quanto sul contenuto.

Continuando a ripercorre il tuo passato, tu come hai iniziato, quando hai deciso di fare rap, da quanto tempo conosci tutti gli altri esponenti?
Il primo che ho conosciuto è stato Tedua che abitava proprio nel palazzo di fronte al mio da una signora anziana gentilissima che lo aveva in affido. Il suo citofono non andava mai e io lo chiamavo sempre affacciandomi dalla finestra. Eravamo dodicenni di quartiere, fortunatamente a una certa è arrivato il rap a salvarci dai danni che continuamente combinavamo. Un giorno lo trovai in piedi su una panchina a improvvisare un freestyle e mi parlò di una serata che aveva scoperto, la Jam del Lido, una battle rap che si teneva ogni due settimane. Fu proprio quel giorno che scelse il suo primo nome da rapper, Incubo. Ma ai tempi questo genere non godeva della fama che ha oggi, era una cosa difficile da ricercare senza internet. Era una cosa da grandi! Noi andavamo alle medie e i ragazzi della jam avevano almeno 20-25 anni. Io comunque decisi di fare rap non appena lo vidi in tv e fu una fortuna condividere questa passione con lui. I primi a passare in Italia forse furono Jovanotti e i Sottotono ma ero ancora troppo piccolo per percepire a pieno quella fase. Notai qualcosa di diverso in Caparezza e impazzii letteralmente quando vidi per la prima volta 50 Cent a Top of the Pops con “Candy Shop”. Ovviamente non capivo nulla di quel che dicesse ma si era portato due o tre ballerine sul palco e avevo intuito che il tipo era un duro. E questa cosa dei soldi e delle ragazze mi piaceva un sacco. Era circa il 2005.

E i dischi italiani?
I primi album che comprai furono “Tradimento” di Fabri Fibra e “Solo un uomo” di Mondo Marcio che aveva tra le sue tracce “Dentro una scatola” . Erano i primi album rap italiani che passano veramente forte anche su Mtv, di conseguenza, poi finii ad ascoltare anche i Dogo. Nel 2006 uscì “Penna Capitale” che, nonostante fosse un album mega gangsta, mi regalò mia madre a Natale. Ci andai sotto. Marcio faceva una cosa molto americana ma i Dogo erano veramente la cosa più simile al rap che in qual momento andava negli Stati Uniti. A quei tempi volevo veramente fare gangsta rap.

Una delle più tipiche sfumature gangsta è quella dell’orgoglio di appartenenza ad una zona della propria città. Anche tu sei passato per questa fase, hai militato in una crew di quartiere?
Ai tempi le dinamiche di quartiere erano diverse, ad esempio, all’inizio non potevo sopportare Ghali perché eravamo i più giovani, i bimbi prodigio delle rispettive crew dei rispettivi quartieri. Io a Bonola e Qt8, lui a Baggio. Di conseguenza eravamo anche rivali. Una volta per risolvere una questione gli tirai una testata ma in realtà da quel giorno in il nostro rapporto cambiò. Una volta risolta la faccenda ci mettemmo poco a formare i Troupe d’Elite. Intorno ai 14 anni, quando l’affido di Tedua finì e lui tornò a Genova, entrai a far parte della Bonola Family dove conobbi il mio primo mentore, se così si può definire, DirtyKappa, un rapper che abitava sulla via di casa mia, fortissimo nel freestyle. Intorno al 2008-09 mollai Bonola Family per dedicarmi a qualcosa di personale ma poco tempo dopo ricevetti la proposta di Razza a Parte. Razza a Parte era proprio la maxi crew del quartiere. Avevo quindici anni ed ero in una crew di gente molto più grande di me, una cosa clamorosa. Razza a Parte era un progetto totalmente diverso, americano, una cosa ispirata alla G-Unit che, a quei tempi, comprendeva esponenti del calibro di Fifty, Tony Yayo, Young Buck. In quel momento storico rappresentava il top. Razza a Parte era quindi un’idea completamente innovativa sul suolo italiano, permetteva ad ognuno di costruirsi il suo percorso ma allo stesso tempo si collaborava molto assieme nei vari album e mixtape.



E dopo la Troupe d'Elite sei partito per l’Inghilterra. Avevi ormai deciso di lasciare la musica?
Avevo lasciato a tutti gli effetti la musica, avevo lasciato anche l’università, mi ero iscritto a lingue. Ma ero spaesato, era un periodo in cui non mi sentivo a posto con me stesso. Volevo partire per l’Australia ma avevo ancora un carico pendente in corso perché il processo per una causa in cui risultai innocente era durato circa sei anni. In Australia se hai carichi pendenti o precedenti legali non puoi ottenere il visto. Mio padre allora mi venne incontro. Mi promise di pagarmi un corso d’inglese a condizione che io provvedessi alla mia permanenza in Inghilterra. Passai tre mesi a fare il cameriere in Corso Como in un ristorante in cui, nonostante il mio contratto a voucher, era pagato praticamente in nero. A quei tempi al locale qualcuno ancora mi riconosceva come Ernia. Alla fine partii per Londra dove passai circa 4\5 mesi e, per motivi economici, vivevo con una vecchia croata pazza, Zara, a cui poi in realtà mi affezionai tantissimo. Ma era molto inquietante. Una volta tornai a tarda notte e la trovai affacciata alla finestra a lanciare della carne a delle volpi. Le volpi di città non sono dei batuffolini carini, sono sporche marroni e portano la rabbia. Quando tornai in Italia trovai di nuovo lavoro immediatamente, facevo sicurezza non armata all’Istituto Oncologico Europeo di Umberto Veronesi dove passavano diversi ricercatori internazionali e io ero l’unica guardia che sapeva destreggiarsi con le lingue. Con i soldi di quell'impiego mi pagai un mese in Francia poi mi iscrissi di nuovo all’università. Avevo 1500 followers su Instagram e del rap m'importava poco.

Ovviamente le male lingue avranno interpretato il tuo rientro in Italia e sulla scena musicale come un tentativo per cavalcare l’onda?
Era l’aspetto che mi preoccupava di più. Quando prima ti ho fatto il discorso sul carro dei vincitori non volevo passare io stesso per usurpatore. Avessi voluto cavalcare l’onda sarei uscito molto prima ricontattando Sfera o provando a ricordare a Ghali che un tempo eravamo “bro”. La scena trap esisteva già da tempo, se si è imposta con così tanti nomi contemporaneamente è perché tutti ci conoscevamo già da anni, ruotavano già tutti intorno allo studio di Charlie, molti artisti orbitavano già in ottica Thaurus. Volevo dimostrare a tutti che io ero un'altra cosa e per questo mi sono preso il mio tempo. Ho rischiato di stare sul cazzo a mezza scena. C'è voluto un anno prima che Ernia si facesse vedere in giro con gli altri, prima che Ernia partecipasse ai loro backstage. Poi certo i featuring... ma i featuring sono un’altra cosa. Io collaboro solo con i miei amici, non c’è mai stato un feat non basato su un rapporto umano.

Nonostante la tua formazione a base di gangsta rap, nonostante tu abbia deciso di dedicare uno dei pezzi più forti del tuo ultimo album al tuo quartiere, non sembri comunque sottostare ai paradigmi di questo genere. “Sarei il bellissimo Mattè se avessi molto più collane non le prendo perché poi che mi rimane” è solo una delle tante frasi che potrei citare per rimarcare la tua distanza da certi canoni. Se dovessi definire non la tua musica, ma il tuo stile, la tua attitudine musicale attraverso un dizionario tecnico strettamente hip hop ne parlerei come un incrocio tra ego trip e rap conscious.
Certamente, forse perché, come ti dicevo prima, ho sempre avuto questa propensione allo storytelling. La mia musica è esattamente all’incrocio tra queste due diverse dimensioni. In realtà è un format che molti esponenti del gangsta avevano già adottato, penso ad esempio al Marracash di “Bastavano le briciole”, della “Via di Carlito” o di “Chiedi alla polvere”. Marra è sempre stato caratterizzato da questa tematica dell’“intelligangsta”. Ma in fondo il mio quartiere è un quartiere verde, residenziale, non avrebbe avuto senso parlare di quanto tempo ho passato in strada, non avrebbe avuto senso fare un disco monotematico su questo tema. O meglio, ne parlo, ma ne parlo come qualcosa che ha caratterizzato il mio passato, che è stata presente nella mia vita. Ovviamente ci sono e ci saranno dei pezzi con un'attitudine un po’ più street. Del gangsta rap mi è rimasta soprattutto la propensione alla cafonaggine più che il contenuto, ad esempio quando dico che “mi sono autocelebrato perché scopo il doppio” in “Madonna”: ma è sempre una cafonaggine contestualizzata. L’autocelebrazione è una caratteristica fondamentale del rap ma fortunatamente non aderisco a quella retorica dell’ostentazione, del bling-bling. Non volevo fare un disco rap che parlasse solo di rap, non me ne importava nulla.



È noto il tuo rapporto con Marz ma, anche se sei scritturato sotto Thaurus, non sei mai stato prodotto da Shablo?
Thaurus gestiste tutta la parte discografica. Shablo è il vate finale, non si limita a dispensare consigli, è colui che ascolta il prodotto finito e lo approva. In realtà mi ha anche proposto delle basi ma io sono molto difficile, devo sentirle veramente mie, e quindi le ho rifiutate. Marz invece cura le mie produzioni da tempo e con lui, infatti, ho una certa affinità. Cinque canzoni dell’ultimo album portano la sua firma, i tre singoli usciti prima dell’album (“QT”, “Madonna”, “Feeling”) sono suoi. “Amici” è prodotta da Noise che mi aveva già seguito in “Neve” e che ha fatto “4getU” di Izi; Tradez ha composto le basi di “Bella” e poi Luke Giordano, un ragazzino che mi ha contattato su Facebook, ha prodotto “Gotham”. Ovviamente non tutte le produzioni saranno sempre curate da Marz ma con lui ormai faremo coppia fissa penso anche in live.

Già in “Instagram” affermavi di aver letto “mille libri mille autori matti” ora ribadisci il concetto in “Ehy Boy” con questa frase “la metà di questi rapper un libro non lo ha mai letto”. Trai molta ispirazione dalle tue letture? 
Sì, ho iniziato a leggere intorno agli otto anni con “Il signore degli anelli” che adoro e ho riletto 4\5 volte ma non ho veri e propri autori preferiti. Ho una libreria preferita, la Mondadori in De Angeli. Mi piace, non compro libri in nessun altro posto, ci passo anche delle ore. L’ultimo libro che ho acquistato è “L’interpretazione dei sogni” di Freud, sono sempre stato affascinato dal discorso onirico. Io ho un orso tatuato e ho scoperto che nel linguaggio dei sogni l’orso rappresentava la madre. Un orso arrabbiato, quindi, rappresentava uno scontro con la madre, e io ho sognato orsi incazzati per un bel po’. Poi ho un genere preferito, il saggio storico. Mia madre era un insegnante di latino, rappresentava la classicità, ma io, per contrappormi a lei in quegli anni burrascosi, feci una ricerca sulle nostre origini, qualcosa che mi aiutasse a capire meglio anche me stesso. Il nonno di mia madre era istriano di origini montenegrine mentre il bisnonno da parte di padre della Svizzera tedesca. Probabilmente queste sono le cause della mia passione per la storia dei paesi slavi e mittel-europei. Tutto questo per far fronte a mia mamma! Le dicevo “mamma noi siamo i barbari”. Il resto della famiglia era composta da milanesi, ma anche Milano è una città celtica. Torino è una città romana, Parigi è una città romana, a Milano prima dei romani sono arrivati anche i Longobardi. Sono appassionato di mitologia norrena, l’Edda poetica, l’Edda prosaica, l’epica di Thor e Odino, la battaglia di Teutoburgo, il drago Fafnir. Questo è quello che mi piace veramente. Poi ho sostenuto l’esame di letteratura russa e ho letto Gogol. Lui mi ha colpito molto.

Nella canzone che da il titolo all’album pronunci questa frase “Un uccellino morto sai torna vivo nel corpo di un corvo”. Ti leggo questo passaggio trovato in rete: “Secondo la mitologia di alcune culture, il leggendario corvo imperiale avrebbe il ruolo di psicopompo. Quando però il cuore della persona morta è particolarmente colmo di dolore e rabbia, il corvo fa resuscitare l'anima per poter regolare i conti. Un anno dopo la sua morte, un corvo si posa sulla tomba di Eric e il giovane resuscita. Grazie al corvo Eric può perpetrare la vendetta. Reso invulnerabile dalla sua nuova natura ultraterrena, Eric si aggira silenzioso e rapido nei vicoli della città”. Sto parlando del film “The Crow- Il Corvo”, ti ritrovi un po’ in questo personaggio, è una parabola che rappresenta bene la storia della tua carriera no?
In realtà non ho mai visto “Il Corvo”, ho beccato in pieno la citazione per puro caso. In effetti è una metafora perfetta. Odino era chiamato il “Dio Corvo”.

Interviene Simone della Thaurus, il manager di Ernia: “Come non hai mai visto “Il Corvo”? Anche io ero convinto ti avesse ispirato”.

Un cazzo proprio. Gli unici corvi che mi hanno veramente ispirato sono quelli della letteratura norrena. Huginn e Munnin, i due corvi che Odino spedisce sul pianeta in direzioni opposte per raccogliere informazioni. La 90-91 del mondo della mitologia nordica.

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L'articolo Ernia, il cavaliere oscuro del rap italiano di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2017-06-21 11:39:00

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