Cristina Donà - Ho visto solo stelle buone

In occasione dell'uscita di "Tregua 1997-2017 Stelle buone", la nostra intervista a Cristina Donà

- © Davide Serni, 1997. Courtesy of Mescal

Per celebrare il ventennale di Tregua, pubblicato nel 1997 per Mescal, Cristina Donà ha invitato dieci artisti della nuova generazione a confrontarsi con i pezzi del suo straordinario disco d'esordio e a riproporne la propria versione. Il nuovo progetto "Tregua 1997-2017 Stelle buone", uscito il 15 settembre per Believe, è diventato un'occasione per ripercorrere insieme a lei vent'anni di carriera, rivolgendole alcune domande sulla sua visione della musica, sul ruolo dell'arte, su una bellezza da preservare con cura e attenzione. Sulle costellazioni musicali che ci attraggono, ci respingono, ci illuminano.

Sono passati vent’anni da quando chiedevi tregua tra incisioni a caso, ventri lacerati, chiome bionde e aperture luminose: come stai oggi e come guardi al tuo percorso come musicista, nato con "Tregua" e arrivato fino ad oggi?

Come sto oggi è una bella domanda. Credo di essere il risultato di questi anni e di quello che è cambiato intorno a me. È un’ irrequietezza diversa da quella di vent’anni fa, che ha a fare con il nostro futuro, con l’ambiente che abbiamo intorno e che ha abbiamo creato anche noi. Avendo un figlio, si sono aggiunte, per fortuna, un sacco di domande ed esperienze umane: è materiale che nutre la nostra persona e l’arte che ne deriva. L’esperienza di un figlio ha a che vedere anche con tutte le cose che gli stanno intorno, con il mondo che andrà ad affrontare. La maternità mi ha fatto rendere conto di quanto, per una donna italiana, sia difficile gestire la logistica dell’essere mamma. E, a prescindere dalla maternità, è sicuramente una nuova fase della mia vita. Incide anche il fatto di avere mezzo secolo: è difficile rendersene conto alla velocità a cui andiamo. Esperienze, incontri, tante gioie, tanti dolori: mi chiedo sempre come ritrasformarli in musica. Ho un nuovo modo di guardare alle cose, a volte più disincantato. Ma cerco di combattere questo atteggiamento, che sicuramente fa un po’ male all’arte. È uno dei tanti motivi che mi hanno spinta a intraprendere il progetto che ha dato vita a questo disco, a chiedere la rilettura dei brani a musicisti più giovani, in contatto con quelle energie che arrivano addosso e che percepisci maggiormente quando hai una certa età. Mi piace che quella fascia anagrafica abbia avuto voglia di farlo. Mi chiedevi come ho vissuto come musicista questi vent’anni?

Sì, come guardi al percorso nato da quel disco e arrivato fino a oggi.
Mi reputo una persona, una cantante e un’artista fortunata. Spinta da una passione che a volte, fortunatamente, va al di là della mia volontà. Forse avrei potuto fare più produzioni, però mi sono dedicata ad altre esperienze, alle collaborazioni, agli incontri…. L’alfabeto musicale del mio percorso è abbastanza vario. E mi piacerebbe che lo diventasse ancora di più: se mi guardo indietro, non mi ritengo appagata, proprio perché mi piace l’idea di trovare nuovi stimoli. Però devo dire che sono molto contenta e grata alla dea della musica per quello che mi ha permesso di fare in questi anni.

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(© Davide Serni, 1997. Per gentile concessione di Mescal)

Come accennavi prima, per celebrare il ventennale dall'uscita del tuo primo disco hai pubblicato "Tregua 1997-2017 Stelle buone", contattando dieci stelle buone del panorama musicale italiano a cui hai affidato la rilettura delle tracce del disco: come le hai scelte?
L’incontro con ogni artista ha una storia diversa, più o meno datata. Simona Norato è forse quella con la storia artistica più lunga e che conosco da più tempo, anche se non ci siamo mai incontrate fisicamente. Ovviamente i nomi erano più di dieci, quindi ho dovuto operare una scelta. Ho scelto gli artisti che mi hanno emozionata di più: spesso ricevo cd o brani da ascoltare e sono arrivata alla conclusione che al primo ascolto devono subito emozionarmi o muovermi qualcosa. A volte mi mandano l’album intero e mi sento in colpa se non lo ascolto tutto. Però io ho un altro mestiere, non sono una talent scout. Magari in questo caso specifico un po’, ma non voglio assumere quel ruolo. La parte emotiva è fondamentale nella musica. E penso lo sia per tutti, sia per l'ascoltatore che per il musicista. Poi qui potremmo aprire una grande parentesi, perché c’è anche chi lavorerebbe molto sulla tecnica. 

Il pezzo di apertura “Ho sempre me” è stato affidato a Io e La Tigre: devo ammettere che all’inizio sono stata colpita da questa rivisitazione così urlata e riot grrrl. Quasi che la traccia di vent’anni fa fosse diventata una dichiarazione girl power, maturata a distanza di lungo tempo e che ha trovato voce nel duo emiliano. È così?
C’è una storia molto carina legata alla registrazione di questo brano, cioè che Aurora quel giorno, come capita spesso, per una forma di ansia da prestazione aveva una bronchite pazzesca, era quasi afona. Già lei ha quell’approccio vocale, in questo caso lo ha amplificato. Quello che hai colto in questo pezzo, che secondo me si realizza anche in altri, è ciò che ho sentito io: quando è stato registrato "Tregua", con la produzione di Manuel Agnelli, lui ha vestito una voce folk con degli arrangiamenti rock. Anche un po’ sperimentali in alcuni brani. E questo contrasto secondo me rendeva interessante il disco: non ero Joan Baez, ma non sono mai stata un’urlatrice. Nemmeno un’urlatrice melodica, come potrebbe esserlo Gianni Nannini. Non è una voce rock, quella di "Tregua". Ci sono poche esplosioni. Invece, Aurora ha quell’approccio. Io e La Tigre sono così. E sinceramente sono molto felice di aver dato loro questa canzone, l’hanno sicuramente fatta maturare e fiorire nella direzione che probabilmente era naturale per loro e per il brano. Quindi sono assolutamente d’accordo con te. Uno dei miei desideri era che ognuno di loro facesse proprio il brano, che uscisse la personalità di ogni artista. Ho dato carta bianca per questo, ma mi sembrava poco intelligente il contrario e devo dire che mi sembra si sia realizzato pienamente. Uno degli sforzi che ho dovuto fare è stato proprio relativo ai miei interventi vocali, perché sono stati così bravi a portare il loro contributo interpretativo che desideravo lasciarlo il più possibile. Aggiungere la mia voce è stato un atto molto importante: è stato un modo per star vicino alle mie stelle buone e, ancora una volta, agli ascoltatori.

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(© Andrea Aschedamini)

Mi ha fatto piacere trovare fra le interpreti anche Birthh. Come l’hai conosciuta e perché le hai affidato “L’aridità dell’aria”?
Mi è stata segnalata da Max Casacci qualche anno fa. Si parlava di cose nuove, lui mi ha mandato un link con un suo brano e sono andata ad ascoltarmene altri. Mi è piaciuto molto il suo lavoro, mi affascina questa laboriosità, questa indole da polistrumentista. E poi, quello che per deformazione professionale mi colpisce sempre è la voce, il timbro vocale. Inizialmente, sapendo che canta in inglese non l’avevo contattata, però in quel periodo leggevo tantissime cose su di lei. Mi sembrava già, come dire, lanciata. Ad un certo punto ho pensato che quel brano potesse comunque essere adatto alla sua scrittura. L’abbiamo contattata e sono molto felice che ci sia, anche perché credo che sia uno dei primi pezzi che canta in italiano. Spero che sia un input anche per lei. Capisco benissimo l’utilizzo della lingua inglese, se fai un certo tipo di cose ti dà sicuramente maggiori possibilità di uscire. Però, a meno che tu non senta l’inglese davvero parte del tuo vissuto, magari perché hai vissuto all’estero, quando trovi la tua strada nella tua lingua scopri un’appartenenza. È successo anche a me, dopo anni a cantare cover in inglese. Ed è bello, ha un altro grado emozionale.

Nel presentare la sua versione di “Labirinto”, Sara Loreni ha scritto che musicalmente ti ha conosciuta da adolescente, quando non aveva ancora pieni strumenti per capire il senso di ciò che scrivevi. Ti poni mai il problema della comprensione del pubblico in fase di scrittura?
Inizialmente no, con "Tregua" no. Diciamo che poi è subentrato l’esercizio. Ci sono state anche le fasi dell’"oddio questa cosa la devono passare in radio”, problema che non si è mai più posto perché in radio non mi hanno praticamente mai passata, a parte rarissimi casi. Poi c’è anche l’esercizio legato alle canzoni che ti arrivano e ti piacciono. Penso a Battisti, a De André, a tutti i nostri cantautori: studi quei linguaggi. Da parte mia c’è stato il desiderio, e c’è ancora, di avere un approccio diverso, che è sempre il mio ma con alcune accortezze che ho cercato di applicare negli anni. Mi piaceva l’idea di scrivere con un traguardo diverso, per imparare altri stili anche nel mio mestiere. Credo che "Tregua" sia l’album con i testi più astratti, assieme a "Nido". Già in "Dove sei tu" ci sono testi con un ordine di comprensibilità diversa. Ma credo ci siano anche ne "La quinta stagione", "Torno a casa a piedi" e "Così vicini". Se qualcuno mi dice che non si capiscono bene i testi di “Miracoli” o “Così vicini” mi viene un po’ da ridere. Mi viene da chiedergli se abbia ascoltato bene. È un po’ il discorso della Boschero nell’intervista che avete fatto voi: a volte si dà un po’ per scontato che, se tu sei un’artista di nicchia, un’artista indipendente, allora sicuramente ciò che crei sarà qualcosa che non si capisce. Mentre la comprensibilità del contenuto deriva da quello che sono le tue esperienze musicali e le tue esperienze culturali in generale, che creano il tuo vocabolario. Se ascolti solo un certo tipo di musica e leggi solo un dato genere di testi, ti sembreranno difficili e incomprensibili le cose che non conosci. Per terminare questa risposta: da un certo punto in poi il problema me lo sono posta sempre. Ed è un esercizio che fa bene anche a me come persona. Alla fine la canzone deve contenere comunque “qualcosa di sospeso”, non detto, qualcosa di subliminale, perché è quello che io amo della musica degli altri: il fatto di poter scoprire, negli anni o dopo qualche ascolto, cose nuove, cosa che magari con testi più espliciti e diretti non avviene.

“Piccola faccia” è stata affidata ai Blindur, “Ogni sera” a Il Geometra Mangoni, mentre “Tregua” agli Sherpa, che ne hanno realizzato una cover dalle suggestioni quasi orientali: che effetto ti ha fatto sentirle cantate da voci maschili? 
Lo stesso effetto che mi ha fatto ogni versione: non avevo dubbi che ci sarebbe arrivato materiale ricco e stimolante, quindi mi hanno molto gratificata. Però, quando scrivo non immagino di portare la mia esperienza di donna, non è così fondamentale. Per me la musica è asessuata: c’è questo discorso che parte da dentro, c’è Cristina che scrive, che non ha come desiderio quello di far uscire quella parte. Specificamente "Tregua" nasce anche un po’ come desiderio di un’affermazione al femminile, in un panorama dove io ascoltavo prevalentemente voci bellissime ma di interpreti maschili, a parte Carmen, che usciva in quegli anni, Paola Turci e pochissimo altro. Però nello scrivere non sento questa differenza. Altra cosa è invece il fuori, quello che arriva di me con la musica: e probabilmente è quella femminilità che io, per quanto donna, non ho mai intenzionalmente espresso. Potremmo stare ore a discutere dei motivi, ma non è il caso. Per me la musica, il canto, la scrittura sono diventato un modo attraverso cui si manifesta la mia femminilità, quindi tu cogli questo. Ma non è ciò che io sento quando scrivo. Per me scrivere è un atto umano, non legato al sesso. Anche se è inevitabile che quest’ultimo poi lo connoti.

Un’altra canzone che sembra –purtroppo- aver trovato piena maturazione oggi è “Senza disturbare (colloquio di lavoro al femminile)”, magistralmente interpretata dagli Zois. A riguardo, la band ha scritto: “Quando è stata scritta, “Senza disturbare” raccontava un mondo che iniziava a stridere, ora quel rumore è diventato assordante. Era un'intuizione, ora è un'affermazione; era un ronzio sordo nell'aria, ora è un'esplosione sotterranea; era un'ombra all'orizzonte, ora è una tempesta”. Sei d’accordo con questa visione?
Io condivido il loro punto di vista e ho capito il senso della loro versione: il desiderio di far esplodere un brano che era minimale e anche quasi trattenuto, sussurrato, quasi una confidenza fatta all’orecchio. Il pezzo parla di quello che mi era stato raccontato da una cara amica dopo un colloquio di lavoro. In generale, il mondo del lavoro ha ormai tolto o comunque trasformato quella che è la dignità dell’uomo, per tutta una serie di regole  e di ragioni che sono state introdotte da un po’ di anni a questa parte, vedi contratti a termine e via dicendo. È una cosa che riguarda entrambi i sessi. La donna ha poi ovviamente una serie di caratteristiche che si scontrano ancora di più con queste logiche, perché dovrebbe o potrebbe, se ha voglia, diventare madre. Questo tipo di impostazione della nostra società a livello lavorativo la dice lunga sul rispetto che ha verso la persona e il lavoratore, ma anche verso il nucleo familiare. Non mettere la donna nelle condizioni di poter lavorare con dignità e di avere la possibilità di sposarsi e avere dei figli la dice tutta sulla qualità di uno stato che evidentemente non è in grado di gestire questa situazione. O che non è interessato a gestirla, per come pone la risoluzione dei problemi, da quelli lavorativi a quelli delle nuove leve, dei giovani. Non è una situazione attribuibile solo alla cattiva gestione del problema da parte del singolo datore di lavoro: a questo punto diventa un fardello che lo stato scarica sulle imprese. Non ci sono le caratteristiche che possano portare ad una crescita della società in modo congruo e ottimale, con un certo grado di dignità. Quella canzone racconta più o meno questo.

Nel panorama che hai delineato, la musica può essere uno strumento di denuncia sociale?
La musica, soprattutto da quando esiste la musica cantautorale, ha spesso avuto un ruolo di denuncia, in particolare in certe fasi della sua storia. Ci siamo arrivati tardi rispetto ad altri, ma forse non è un caso che in Italia in questo periodo storico il rap, quello vero, sia diventato un punto di riferimento. Quello che chiamiamo “nuovo rock”, ci siano parole che riguardano la denuncia sociale. Per quanto spesso, fortunatamente, anche nel pop o nella musica più indie siano presenti questa ricerca e questa volontà. La musica ha da sempre, da quando la si racconta con dei testi, un ruolo fondamentale, perché lavora su due dimensioni:: quella che permette di arrivare in modo più diretto, cioè la parte musicale, e la parte melodica del cantato, con delle parole. E ha una forza pazzesca. Infatti, nei periodi più bui del nostro Paese veniva vietata anche un certo tipo di armonia, per esempio era proibito suonare musiche con accordi minori perché potevano smuovere un certo tipo di sentimenti. Senza arrivare a paragonare il periodo attuale con quello del fascismo, devo però dire che questo appiattimento e ciò che succede nella tv e nella radio di Stato mi preoccupa. Ci stanno togliendo strumenti, quasi togliessero le lettere dall’alfabeto, a livello musicale e testuale. Questo impoverimento è voluto o frutto di inettitudine?


(© Marialessia Manti)

Mi ha colpita molto la vitalità di “Risalendo” nella visione de La Rappresentante di Lista, che ha dato spazio anche a una sezione di fiati quasi celebrativa. La musica, l’arte e quindi la bellezza ci potranno aiutare a risalire?
Me lo auguro. Ed è proprio per questo che una maggiore biodiversità musicale può avere una funzione fondamentale. Ne deriva anche tutto il discorso educativo nelle scuole, il fatto di imparare ad ascoltare musiche diverse. Quindi sì, la musica può fare tantissimo. Però poi dipende quale musica. Abbiamo la possibilità di sceglierla, perché abbiamo Internet e tanti mezzi per ascoltare, abbiamo la capacità di farlo se l’asticella si è abbassata, come mi sembra di cogliere? In ogni caso la musica è fondamentale, quindi spero che si riprenda questo potere.

Mi è piaciuta la scelta di tenere solo per te un brano del disco, il cui ri-arrangiamento è stato affidato a Alessandro Stefana e Valeria Sturba. Perché hai scelto “Stelle buone”?
Intanto non ti ho detto una cosa che mi piace sempre ricordare, ovvero che l’idea di questo progetto è arrivata da Gianni Cicchi, che è il mio manager nonché primo batterista dei Diaframma. Te lo dico perché questo lo connota: non è il classico manager che uno si potrebbe immaginare, è una persona con grande sensibilità musicale e quindi ha colto che in questi anni ci sono state molte dichiarazioni di stima nei miei confronti da parte di artisti giovani, che noi abbiamo visto un po’ come “stelle buone”. Dato che il titolo del progetto è comunque arrivato molto in anticipo sul progetto stesso, ci sembrava che affidare il brano che di fatto dava il titolo all'intero lavoro a un artista avrebbe un po’ sbilanciato gli equilibri. In più, era bello pensare di utilizzare questa canzone come una mia dichiarazione di intenti rispetto al disco, ovvero indicare le stelle buone che avevo visto.

Un ulteriore tributo a "Tregua" è arrivato da Mauro Ermanno Giovanardi, che nel suo ultimo lavoro "La mia generazione", pubblicato il 22 settembre,  ha proposto anche la sua versione di “Stelle buone”, insieme ad altre cover di brani della scena alternativa italiana anni ’90.
Mi è piaciuta, mi ha fatto davvero immensamente piacere trovarla. Anche perché non davo per scontato che lui scegliesse di includerla. Sono molto legata a lui, come anche a Cesare Malfatti dei La Crus. E a Manuel ovviamente. Mauro mi piace molto, come persona ma anche come musicista, e mi fa un po’ sorridere il fatto che siamo usciti nello stesso periodo con questo brano, per me così importante e di punta, per lui parte di questo album significativo. Tra l’altro posso raccontarti un aneddoto buffo su “Stelle buone” è che, quando uscì "Tregua", con Mescal, la mia etichetta di allora, cercammo ovviamente di capire quale potesse essere il primo singolo. La mitica Manuela Longhi passò dalle varie radio per capire per quale propendessero loro: per noi era “Stelle buone”, invece alcune radio segnalarono “Raso e chiome bionde”, perché era in maggiore, mentre “Stelle buone” era in minore. E questo la dice tutta. Io amo molto “Raso e chiome bionde”, però come fruibilità non c’è paragone, hanno due mondi completamente diversi. Mostrano come il maggiore e il minore a volte facciano la differenza (ride). Mi fa sorridere pensare a quel momento. È bella questa operazione di Joe, forse un pochino più nostalgica rispetto alla mia. È bello ricordare quel periodo e festeggiarlo in questo modo.

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L'articolo Cristina Donà - Ho visto solo stelle buone di Giulia Callino è apparso su Rockit.it il 2017-09-25 09:00:00

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