Kitsch per conto di Dio: ascolta il nuovo album dei Joe Victor e leggi l’intervista

Sempre sia lodato il kitsch, i Joe Victor ci raccontano il loro nuovo album

Mentre aspettiamo che il sole ci regali la giusta luce, riflessa in un ambiente surreale e apocalittico come può essere il Lago Pertini di Roma, loro non fanno altro che pompare hit bollywoodiane, una dietro l’altra, intervallate da canzoni dei Queen o dei cartoni, tutte perfettamente intonate a più voci. È la sintesi di questo nuovo album - “Night Mistakes” - ma anche di come loro intendono portare avanti - per conto di Dio o di altri, non si sa - la loro personale missione nel rock ’n’ roll. Abbiamo passato un’intera giornata insieme ai Joe Victor.



“Night Mistakes” è davvero pieno di roba, siete d’accordo?
Gabriele: Avevamo tantissimi elementi diversi tra loro, eravamo fin troppo eclettici. Matteo Cantaluppi, che ha prodotto il disco, è stato fondamentale nel dare un’identità sonora all’intero progetto. Ci ha disegnato un cerchio intorno definendo quali cose lasciare fuori e quali tenere.

In “Goldenation”, ad esempio, passate dai canti arabi alla disco music anni ’70.
G: E poi finisce con un grandissimo trenino. Era esattamente quello che volevamo: prendere tutto questo materiare e inserirlo all’interno di una canzone di tre minuti senza che sembrasse un brutto collage di musiche diverse. C’è, a mio avviso, una bella coerenza e un dialogo interessante tra gli elementi che compongono ogni pezzo.

E tutti questi elementi da dove arrivano?
G: In primis dai nostri ascolti. Te lo dicevo già nella scorsa intervista, io e Valerio siamo rimasti completamente folgorati da tutti quei blogger, europei o nord-americani, che vanno alla ricerca di canzoni etniche ma con un piglio tipicamente pop. Per me hanno fatto una piccola rivoluzione culturale, è come cercare la canzone dei Beatles ma scritta da un gruppo sudamericano, africano o pakistano.

E non avete mai avuto paura di non essere all’altezza di chi la musica etnica la studia per davvero?
G: Certo, infatti l’elemento che tiene insieme la nostra musica è il kitsch. È una cosa diversa dal trash: è un feticcio che può assomigliare a tutto, senza mai rappresentarlo per davvero. Non abbiamo fatto un disco di musica etnica, abbiamo fatto un disco di musica kitsch. 

In pratica come un film Disney.
Valerio: Ma magari…
G: Tutti i film della Disney, a loro modo, sono kitsch, ma anche il “Dracula” di Bram Stoker, la copertina di “Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band”, il “The Rocky Horror Picture Show”: il kitsch è qualcosa di fondamentalmente sbagliato, incompleto, ma che ti convince lo stesso. È come quando vai a fare un esame e rispondi male a tutte le domande ma dai comunque l’impressione di essere esperto dell’argomento (ride).

Secondo me siete anche un po’ dei tamarri, sbaglio?
G: Un po’ di tamarraggine c’è, ma non volevamo fare un disco cafone, se è questo che intendi. Ci sono influenze precise, soprattutto nei sintetizzatori o nelle parti di basso. Michele ascolta molto i Justice, che a loro modo hanno una dimensione tamarra pur riuscendo a rimanere decisamente eleganti. Lui, Guglielmo e Matteo hanno lavorato molto in quella direzione e il risultato è piaciuto a tutti.



Una delle novità più evidenti è il lavoro sul ritmo e sulla velocità, è stata una scelta chiara fin da subito?
G: Quel tipo di ritmo è sempre stato “il nostro”, ma prima non ce la facevamo tecnicamente a reggere un tiro simile. Dopo due anni di tour siamo migliorati e la velocità è cambiata di conseguenza. La cosa assurda è che, dopo un po’, le canzoni ti sembrano lente. Dopo tante settimane che le ascolti il tuo cervello si abitua, poi passi qualche giorno senza ascoltare nulla, ti rimetti quei pezzi in cuffia e ti viene l’insonnia manco avessi bevuto otto moke di caffè di fila.

O, detta in altri modi, è il disco della cocaina.
G: Kitsch e dannazione (ride).

In “Freaks" lo dici esplicitamente.
G: Sì, in “Freaks" stamo a dumila ma va intesa in modo ironico, è una presa in giro. Quel pezzo parla proprio del non sentirsi all’altezza. Immaginati una spiaggia di Hollywood piena di freaks ma con al bar due modelli fighissimi. Allora questi storpi, ogni volta che vanno a prendere da bere, cercano di darsi un tono, si atteggiano, vogliono sentirsi pompati a dovere per l’estate che arriva.

Le storie che raccontate hanno sempre un sapore cinematografico, è voluto?
G: I protagonisti siamo sempre noi, partiamo da una situazione reale e poi la fantasia prende il sopravvento sulla storia.

Di cosa parla “Night Music”?
G: È una canzone particolare, ce la portiamo dietro da parecchio tempo. All’inizio era nata come un esercizio di stile: prima volevamo suonarla alla Pixies, poi si è trasformata in pezzo r&b alla James Brown e poi è finita in mano a Matteo che gli ha dato quel sound più compatto e veloce. Racconta di una serata dove due ubriachi per strada assistono ad un omicidio. I nostri testi non sono mai didascalici e sono aperti a più interpretazioni, ma in quella canzone si intravede un lato oscuro sicuramente più spirituale.

Rispetto al precedente “Blue Call Pink Riot” qui manca un po’ di gospel, no?
G: Sembra ce ne sia meno ma in realtà, più in sottofondo, lo intravedi. Te lo sbattiamo meno in faccia, ma c’è. Tutte le canzoni sono all’interno di un mondo che, alla fine, non è così allegro. Anche se è disco music non devi interpretarla solo come un daje, figata, semo carichi. C’è gioia di vivere ma ci sono anche atmosfere più stranianti e cupe. Ma è vero, abbiamo abbandonato Dio.

O è lui che ha abbandonato voi.
V: Esatto (ridono).

Per scrivere l’album vi siete fatti una full-immersion forzata nella disco music?
V: Forzata? (ride)
G: A noi la disco è sempre piaciuta, spesso ci definiscono un gruppo folk ma, in realtà, nei nostri concerti la disco c’era già. Ad un certo punto ci siamo detti: se ci piace così tanto perché non ci mettiamo a suonarla sul serio?

Quindi siete arrivati in studio con le idee molto chiare?
G: Nì, avevamo le canzoni, avevamo intuito la dimensione sonora che gli volevamo dare e avevamo deciso che la disco dovesse essere l’elemento kitsch che teneva insieme più musiche diverse, ma Matteo si è rivelato la vera chiave di tutto. Non ci saremmo mai aspettati di trovare una persona con gli stessi nostri gusti. È uno che davvero capisce e ama il kitsch, va fuori di testa per il kraut rock - che ha elementi kitsch molto importanti - oppure per la prog anni ’70 dei Genesis.

Nell’immaginario collettivo la prog è la musica colta, difficile da suonare, forse definirla kitsch è un po’ forte come affermazione.
G: Non so se ti ricordi di quando Peter Gabriel, negli anni ’70, si travestiva da fiore, se non è kitsch quello... In più erano presenti molti elementi esotici e l’esotismo nella musica dei Joe Victor è molto importante. È tutto quello che non hai mai visto, perché è lontano, e te lo immagini come più ti piace. È Salgari che descriveva l’India anche se non ci era mai andato: le tigri nella giungla, gli uomini mezzi nudi, i fachiri che dormono sui chiodi, gli incantatori di serpenti, le notti d’oriente, ecc.
V: La potenza evocativa di un posto è più importante della sua realtà.

Che poi è la descrizione di “Disco Folk Genial”.
G: ‘A stecca. Parigi, il Rio Grande, la Russia, è una canzone che ti carica di mille suggestioni geografiche diverse.

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Ci sono delle band che vi hanno particolarmente influenzato mentre scrivevate le canzoni?
G: È strano perché le cose che normalmente ci piacciono molto poi non ci influenzano mai. Il disco di Grimes del 2013 ci ha fatto letteralmente impazzire ma, ovviamente, non ne senti traccia nelle nostre canzoni.
V: Abbiamo ascoltato in loop “Skydiver” dei Neon, un pezzone.

E cosa state ascoltando al momento?
Michele: Io sto sentendo molto Charles Bradley, pace all’anima sua.
V: Ultimamente 'sto in fissa per “Nikki Nack" di Tune Yard, bellissimo.
G: “Los Ageless" di St. Vincent è un pezzo della Madonna. Io ascolto più i singoli che gli interi album, lo vedi? Io sono disneiano fino al midollo, mi interessano proprio le canzoni.

Qual è il vostro film Disney preferito?
G: Dai, fagli quel pezzo di Alice che lo sai a memoria…
V: …hai presente pinco panco e panco pinco? “Vuoi giocare a nascondarello?” oppure “Agnello che bell’agnello” (imita benissimo la voce dei due personaggi, NdA). Mi fanno troppo ridere i cartoni.

Cosa si impara suonando tanto dal vivo?
V: Si impara la disco music (ride).

E invece cosa si prova a suonare davanti al parco di Villa Ada completamente pieno?
V: Io mi sono cagato addosso, non tanto durante il nostro concerto ma prima, quando io e Gabriele siamo saliti durante l’esibizione dei Discoverland. Ci hanno invitato a fare la cover di “Sound Of Silence” di Simon & Garfunkel, ad un certo punto hanno illuminato tutto il pubblico e mi è preso un colpo.
G: A me ha fatto impressione quando ho visto le foto il giorno dopo. Se qualcuno me le avesse fatte vedere prima del concerto non ce l'avrei fatta. Il segreto è non fare caso al publico, hai le luci puntate in faccia e non vedi quasi nessuno, poi, una volta che inizi a suonare, non ci pensi più.

La cosa più bella accaduta durante un vostro concerto?
G: Durante una serata un paio di persone si sono messe a piangere. L’atmosfera era davvero particolare, la gente era fomentata ma non era “er fomento”, quello tipico del gruppo da pub che dice beviamo e poi spacchiamo tutto, era qualcosa di ancora più potente. Stavamo suonando da tre ore, non c’era nessuna posa o atteggiamento forzato, era semplicemente mettere tutto te stesso nella musica che fai. Ad un certo punto vediamo queste due ragazze che si commuovono, e non è che stessimo facendo canzoni d’amore - menavamo come dei fabbri - ma c’era un coinvolgimento talmente forte che le ha portate a piangere. Poco più in là, altre due ragazze hanno iniziato a baciarsi davanti al palco, che poi non era nemmeno un palco, erano giusto delle casse della frutta appoggiate per terra. Sei talmente attaccato alla gente che il loro sudore diventa il tuo e viceversa. È davvero fantastico.
V: ’orcoggiuda.

Era il tour di “Blue Call Pink Riot”?
G: No, molto prima. All’inizio suonavamo tantissimo, facevamo da resident band in due locali diversi qui a Roma. Per un anno abbiamo fatto almeno tre concerti al mese, sempre negli stessi posti, dove suonavamo dall’una alle quattro del mattino. Erano degli appuntamenti fissi dove la gente tornava ogni volta, non tanto perché conosceva le nostre canzoni o perché aveva letto di noi sui vari siti musicali, ma perché c'era quest’atmosfera potentissima, manco fosse una droga, che li spingeva a tornare tutte le settimane. Per questo siamo riusciti a riempire Villa Ada, era il frutto di un lungo lavoro che ci ha aiutati a costruire, poco alla volta, un pubblico davvero solido.

E come sarà passare dai palchi costruiti con le casse della frutta a quello dell’Atlantico?
G: Ovviamente sarà un’esperienza totalmente diversa, ma non vedo l’ora di salirci su quel palco. Dobbiamo crescere: finora abbiamo fatto solo locali di media grandezza, l’Atlantico sarà come fare il concerto di Villa Ada, ma al chiuso, anzi, ci sarà ancora più gente. Speriamo.

Il rock è davvero finito?
M: È finito, magari non morirà del tutto e dovrà mescolarsi sempre di più con altri generi, ma il rock vero non esiste più.
G: Non è più uno stile di vita. Ormai nella musica, a prescindere dal genere che fai, sembra più importante l’atteggiamento, l’estetica, il suono. Allo Sziget abbiamo visto gli Alt-j - che hanno fatto un disco della Madonna, sia chiaro - e sul palco erano proprio atteggioni. Se oggi fai il distaccato, allora diventi figo e intrigante. Il rock, per me, è esattamente il contrario: è la fisicità, la spiritualità, la sincerità.

Sole, cuore e amore.
G: (ride) Non voglio sembrare esagerato, ci sono generi - il rap ad esempio - dove trovi una vicinanza maggiore tra l’artista e il fan, ma io la percepisco sempre come qualcosa di freddo e calcolato. Il rock ’n’ roll, invece, è sempre stato spaccare tutto. È libero, quando canto rischio un embolo e ti do davvero tutto quello che posso perché, per me, la musica dev’essere vissuta come un compito importante, proprio come i Blues Brothers. Oggi è veramente difficile trovare un musicista che suona come se fosse in missione per conto di Dio.

 

Rockit ringrazia il Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie e il Baraonda Cafè di Roma per l'ospitalità davvero squisita.

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L'articolo Kitsch per conto di Dio: ascolta il nuovo album dei Joe Victor e leggi l’intervista di Sandro Giorello è apparso su Rockit.it il 2017-10-13 09:00:00

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