La Notte Selvaggia di Calitri e oltre: due giorni allo Sponz Fest di Vinicio Capossela

Il racconto dell'ultima edizione dello Sponz Fest, il festival di Vinicio Capossela che illumina e ravviva da sei anni l'Alta Irpinia.

Tutte le foto sono di Guglielmo Verrienti
Tutte le foto sono di Guglielmo Verrienti

Si dice spesso che in Italia non esiste una forma di festival che sia diversa dalla sfilza di concerti o concertoni. Questo potrà essere vero per i grossi eventi estivi, ma andando a cercare fra esperienze piccole o medie, a livello più o meno locale, emerge una galassia di manifestazioni piene di anima e identità che spesso prendono l’idea di festival e la rivoltano come un calzino. È il caso, ad esempio, di quei festival che alla proposta musicale affiancano la possibilità di riscoprire e animare i territori di provincia, fuori dalle rotte principali del Paese. Ce ne sono vari in Irpinia, territorio ricco di tradizioni e di storia, spesso sofferta, che corrisponde più o meno alla provincia di Avellino; uno di questi è lo Sponz Fest, che da sei anni trasforma l’estate di Calitri, delizioso paesino dell’Alta Irpinia di cui è originaria la famiglia dell’ideatore e direttore artistico della manifestazione, Vinicio Capossela.

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La riscoperta del territorio allo Sponz è incorniciata in una narrazione che, presentata nelle forme rituali dell’esperienza collettiva, ha l’ambizione di poter agire sulle persone che hanno l’opportunità di entrare in questa dimensione altra, o almeno di scatenare una riflessione fatta di pratiche ed esperienza. Narrazione racchiusa ogni anno in un tema e nel suo svolgimento: quello di quest’anno è “Salvagg' / salvataggi dalla mansuetudine”: salvaggio, il salvarsi, salvarsi dall’ammansimento che la società capitalista impone tornando nella selva oscura, dove riscoprire la permeabilità del confine fra uomo e animale e scatenare il selvaggio in chiave liberatoria, una catarsi contro la rimozione forzata collettiva del bestiale e contro la bestialità repressa che esplode nelle forme deleterie che ben conosciamo. “Salvatico è colui che si salva”, l’aforisma di Leonardo Da Vinci che racchiude il senso del tema del sesto Sponz Fest.

È questa la chiave di lettura per interpretare quest’anno le caratteristiche che hanno fatto dello Sponz Fest una manifestazione fuori dalle righe. Sicuramente una programmazione che va molto oltre la musica: spettacoli teatrali, rassegne di letteratura emergente, talk, escursioni guidate/narrate, workshop della Libera Università per Ripetenti. Si va dalle storie di resistenza di chi in Alta Irpinia ci è voluto rimanere provando a costruire un futuro per sé e per le comunità locali, ai riti collettivi con la partecipazione di rappresentanti della tribù Mapuche, popolazione amazzonica impegnata da anni in una lotta per la difesa del proprio territorio contro multinazionali occidentali che sta pagando a caro prezzo. Pensa globalmente, attua localmente.
Al di là della programmazione, la sua inusuale collocazione nel tempo e nello spazio: molti eventi allo Sponz sono ‘al tramonto’, ‘nel tardo pomeriggio’, ‘di notte’, sono in sentieri, boschi, nascosti nei vicoli del centro storico. Un senso di piacevole spaesamento che prova a liberare dall’illusoria pretesa di onniscienza che viviamo nell’era digitale e che, naturalmente, può anche creare qualche incomprensione, soprattutto se combinato ai cambi di programma imposti dal meteo dei giorni precedenti al Fest. È per questo che, appena arrivati, abbiamo bisogno di un paio di tentativi prima di rintracciare il primo evento del nostro Sponz Fest 2018, “Tifiamo rivolta” di Massimo Zamboni. Non so che effetto possa fare a chi è digiuno di CCCP/CSI, ma per un fan di vecchia data è bello vedere Zamboni sempre più in prima linea (e sempre fedele alla stessa) a cantare, seppure con qualche incertezza accentuata da un mix non entusiasmante, le canzoni del suo repertorio più recente insieme a classici come “Cupe vampe”, “Del mondo”, “Morire” e ovviamente “Trafitto”, classici con cui Zamboni ha scritto la storia della musica italiana ricevendo forse meno credito del dovuto. Non si sente neanche la mancanza del socio storico, quel GLF che pure in questo contesto paesano e contadino avrebbe trovato pane per i suoi denti. In rappresentanza attiva della vecchia guardia, accanto a lui e alla band anche l’eroe del popolo Fatur, qui addetto alle performance ‘selvagge’. Per bocca dello stesso Massimo apprendiamo che l’invito di Vinicio è stata una delle spinte che gli ha fatto superare la decisione di appendere le canzoni al chiodo e, be', non possiamo che essere felici di aver assistito a questa rinascita.

Dopo è il momento di perdersi in the grotto, il labirinto di vicoli e grotte del centro storico di Calitri in cui imbattersi in vinerie, performance teatrali, concerti o gruppi di anziani del paese dare vita alle canzoni popolari del luogo intorno al tavolo della cumversazione, il tavolo della musica, delle parole e del vino. Senza attardarsi troppo, perché questa sera il cuore della festa è nel Ballodromo di piazzale Giolitti per il grande appuntamento con tarantella, walzer, polka e soprattutto quadriglia batticulo. Non importa se non sapete ballare, verrete comunque trascinati in un vortice di passè, cambi dama, giravolte, popolato da ragazzi irpini, forestieri, fricchettoni, anziani calitrani pronti a sfinire ragazze più giovani di trent’anni a colpi di giravolte e colpi di culo. Tutti insieme nel tentativo di battere il record della più grande quadriglia batticulo sotto la direzione del mitico Tonuccio Bi-folk e della sua instancabile band, che ci regalano un numero non facilmente quantificabile di ore di un divertimento spensierato e senza tempo.

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La mattina del giorno successivo la passiamo scoprendo i paesini arroccati e la natura selvaggia di questa zona a metà fra Lucania e Campania prevalentemente ignota ai più, colpevoli campani di città in primis. In pomeriggio siamo però a Calitri pronti per la Notte Selvaggia dello Sponz Fest, il rito scatenante e rigenerante, dieci ore consecutive di musica fino all’alba. Si comincia con una mezz’ora di camminata in salita che ci accompagna al Vallone Cupo di Gagliano per l’evento inaugurale della nottata: ‘nta la Cupa’, il concerto spettacolo del nostro anfitrione Vinicio Capossela, è la cerimonia di ‘interramento’ di “Canzoni della Cupa”, ultima fatica discografica del nostro tutta costruita sulle solide fondamenta del patrimonio di musiche, racconti, tradizioni di Calitri a dintorni. Proprio a partire dalla Cupa, parola che in ogni dialetto assume un significato diverso, ma che in zona indica un sentiero boschivo, abitato da leggende e presenze fiabesche come quelle di una bambina morta nel bosco che si ripresenta come fattezze demoniache. Un posto come quello che oggi ospita il numeroso pubblico degli sponzati, e in effetti già solo la location vale la camminata: il Vallone è una radura in mezzo al bosco che degrada dolcemente fino a interrompersi per lasciare spazio alla vallata che ora fa da scenografia al palco, dominata dalla presenza del paesino di Cairano che, arroccato com’è, dirà dopo Vinicio, sembra “una cometa al contrario pronta a decollare”.

Il tramonto volge al termine quando ad aprire la serata arrivano Mimmo Borrelli, Marianna Fontana e Antonio della Ragione con il primo degli estratti da “La Cupa, fabbula di un omo che divinne un albero”, spettacolo di Borrelli che fra musica e dialoghi indaga nella sua versione della cupa, la cava tufacea dell’area flegrea ma soprattutto la parte oscura e innominabile dell’uomo, scandagliata da dialoghi e canti inquietanti in un napoletano stretto, intricato, immaginifico. Quindi la band, numerosissima, sale sul palco e come da tracklist si attacca con “Femmine”, poi seguono in ordine sparso quasi tutte le “Canzoni della Cupa”, ovviamente protagoniste assolute, evocando la duplice anima dell’album: si balla sulle note di “Rondinella”, “Dagarola”, “Padrona mia”, si cantano le parole di Vinicio, quelle della tradizione arrivate attraverso il poeta locale Canio Vallaro e quelle di Matteo Salvatore, cantore del meridione paesano: “Chi more more, chi campa campa e nu piatto di maccaruni cu lla carna”, esplode il coro del pubblico sull’esistenzialismo popolare di “Nachecici”. Poi c’è l’altra anima, quella che domina “Ombra”, la seconda parte di “Canzoni della Cupa”, con brani come “Il mulo”, “La bestia nel grano”, “La notte di San Giovanni” che sono blues scuri ma mediterranei, intrisi di un mistica ctonia, rurale, terragna.

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Amore e morte, sangue e suolo, questi sembrano essere i punti cardinali. Il sangue di San Giovanni decollato, la terra dove si annidano le creature della cupa, che però non sono il sangue e il suolo che animano le fantasie di identitaristi e nazionalisti. Anzi, qui la terra narra un racconto di tradizioni, maschere, mostri, streghe, feste, passioni, miseria e fatica che è quello dell’Irpinia, ma anche quello di tutta l’Italia ‘interna’ e che in forma unica e irripetibile è comune a ogni latitudine del mondo pre-urbano, europeo e non solo. Il pumminale irpino è della stessa razza delle creature che abitano il buio di tutti gli inconsci, come è simile a ogni latitudine la condizione delle donne, protagoniste nelle canzoni di storie d’amore e passione carnale, ma anche di dolore come quella dell’aborto segreto di “Maddalena la castellana”, storie che appartengono a ogni luogo (e ogni tempo, viene da dire), storie di quando antichi saperi e culti naturalistici le rendevano agli occhi della superstizione streghe, masciare o janare. Un filo rosso che ci lega a tutto il Mediterraneo e oltre, come alle musiche di ogni dove guardano gli arrangiamenti di Capossela e sodali, sempre in bilico fra tarantella e country, sapori messicani e maccheroni, blues e murder ballad all’italiana. Un racconto cristiano e al tempo stesso pagano, come la festa di San Giovanni, il Natale e il Carnevale che in tutta Europa hanno cristianizzato le celebrazioni pagane dei cicli solari e agresti, un racconto comune perché, al di là dei confini, nasce dalla gente che in ogni paese ha sempre condiviso il destino della terra e del suo lavoro, della fame della fede, della maternità, dell’amore e della morte. Almeno fin quando il treno, protagonista di uno degli ultimi brani di album e concerto, si è portato via quasi tutto di quel mondo. Lo stesso treno che oggi, nella forma di un treno d’epoca riattivato apposta per portare la gente a Calitri invece che portarla via dal paese, è diventato uno dei simboli dello Sponz.

È forse questa la miglior qualità dell’ultimo lavoro di Vinicio Capossela, la capacità di tessere un epos dai confini larghi nel tempo e nello spazio, pur avendo come protagonista principale le storie e le voci della terra avita e delle sue cupe. Quella cupa in cui ora questa epica risuona al suo meglio, abbracciata dagli alberi, alla luce della luna, nel rito del suo ‘interramento’. Cerimonia che in effetti è molto più di un concerto: basterebbero gli interventi neri e viscerali della Cupa di Mimmo Borrelli, gli aneddoti e le esegesi di Vinicio che con voce quasi sussurrata ci accompagna in un percorso tematico alla scoperta della sua terra, ma ci sono anche un nutrito manipolo di ospiti speciali che conta tra gli altri Alfio Antico, i percussionisti di Tricarico, danzatrici del ventre e messicane; e soprattutto la nonna di Vinicio, un coro di anziani assiso a un tavolo al lato del palco e il mitico Zio Armando, maestro di vita e filosofo del ricreo, tutti chiamati a dare la loro autentica testimonianza vocale delle musiche popolari da cui nasce tutto.

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Dopo quasi quattro ore lo spettacolo si chiude con un finale indimenticabile, quando al suono di un medley fra “Il ballo di San Vito”, “Brucia Troia” e una jam ieratica, una folla di strani figuri compare in mezzo alla folla e si fa largo fino a impadronirsi del palco. Sono i Krampus, demoni del Trentino, gli inquietanti Merdules e Boes  sardi, le Maschere di Tricarico e i Rumiti, creature-albero lucane. Sono i personaggi e i demoni dell’Italia rurale, uomini-bestia che da tempo immemore esorcizzano i demoni dell’uomo, presiedono ai riti con cui tenta di rapportarsi alla natura, al divino e al mistero, come dice Capossela in poche parole: “educano allo spavento per vincere la paura”. Mentre ancora suona la musica risaliamo verso il paese al seguito delle creature, e con la faccia sporca di bitume nero fornito da un figuro incappucciato proviamo a seguire l’invito di Capossela e a diventare noi stessi la notte. La Notte Selvaggia, la catarsi definitiva dello Sponz Fest, che ci porta a scatenarci al concerto di Vurro, one man band in cui il one man è un uomo con un teschio di bufalo sulla testa che sembra uscito insieme a Krampus e Rumiti da un regno sotteraneo, un inferno in cui con tastiera, organo elettrico, oscillatore, microfono e casse e rullante si suonano twist, rock‘n’roll e melodie andaluse. La Notte Selvaggia che, a sorpresa, ci regala un concerto di Tonino Carotone: cappello e baffo d’ordinanza, voce ruvida e giacca damascata per donare un po’ di rumba catalana, cover di Fred Buscaglione e l’inno “Me cago en el amor” sotto il vento sferzante delle ore 4:30 in Piazza Repubblica, poco prima di cominciare la salita verso la sommità del paese. Perché lì, nell’antico Borgo Castello ci aspetta l’ultimo rito, forse il più antico di tutti: salutare il sorgere del nuovo giorno ascoltando la musica delle percussioni.

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È difficile descrivere l’atmosfera del duello di tamburi a cornice fra i siciliani Peppe Leone e Alfio Antico: le dita che picchiano la pelle, fra ritmi tradizionali e funambolismi sperimentali, l’aurora che rischiara il cielo e il disco infuocato che emerge alle spalle delle colline per illuminare una vallata sconfinata che noi, intirizziti dal vento, dominiamo dalla cima di un borgo medievale a strapiombo sul nulla. È chiaro che siamo nel 2018, la musica è amplificata e c’è una folla di telefoni che provano a immortalare il momento, ma la rinascita del sole e il suono del tamburo sono senza tempo, e anche la carica mistica del momento lo è. Si chiude con quest’alba la Notte Selvaggia e la nostra permanenza nella Calitri dello Sponz Fest, un festival che può ancora crescere e siamo sicuri lo farà, ma che già oggi si presenta con una faccia unica, per la bellezza selvaggia dei luoghi, per l’unicità dell’offerta musicale e culturale, per la filosofia che anima tutto il festival e che ogni anno si presenta con parole d’ordine diverse. Ma anche per l’atmosfera che si respira in paese, la compenetrazione tra il festival, la città di Calitri e i suoi abitanti, l’affetto ai confini dell’adorazione che si sente nelle parole di alcuni di loro quando parlano di Vinicio. Sembra banale dover sottolineare quanto possano far bene iniziative di questo tipo a un territorio e alla sua economia, eppure in situazioni analoghe (poche, per fortuna) capita anche che organizzatori e pubblico siano guardati con un misto di curiosità e diffidenza. Qui invece tutto, o quasi, sembra cospirare per far respirare un’aria diversa da quella della vita di tutti i giorni, ma anche da quella di tanti festival-fotocopia l’uno dell’altro, e di questo va dato atto a Vinicio Capossela, ai volontari dell’organizzazione e alla città di Calitri.

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L'articolo La Notte Selvaggia di Calitri e oltre: due giorni allo Sponz Fest di Vinicio Capossela di Sergio Sciambra è apparso su Rockit.it il 2018-08-26 00:00:00

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