The Zen Circus e il pugno nello stomaco che dura da vent'anni

Gli Zen Circus celebrano vent'anni di carriera con la raccolta "Vivi si muore 1999-2019", mentre convincono sempre di più sul palco di Sanremo.

The Zen Circus (foto di Ilaria Magliocchetti Lombi)
The Zen Circus (foto di Ilaria Magliocchetti Lombi)

Immaginati in un presente distopico in cui sei obbligato a guardare Sanremo tutte le sere, per lavoro, per noia, per deriderlo e deriderti, perché Sanremo dopo un po’ è lui che guarda te. Incatenato in questo romanzo orwelliano o nel “Brazil” di Terry Gilliam fatto in casa, cerchi conforto nelle cose che conosci di più, a cui appartieni e che ti appartengono un po’. Ecco la sensazione liberatoria, il respirone che fa tornare tutto al suo posto, quando i quattro Zen Circus sono apparsi di nero vestiti sul palco più importante e insieme ridicolo del nostro Paese. “L’amore è una dittatura” è un titolo a orologeria proprio come il ticchettio del tempo, che lo porta mano nella mano per tutta la sua durata e quello cresce e cresce fino a esploderti in faccia, quando hai già percorso mille chilometri di testo che ti ha messo davanti a quello che sei diventato e all’unica cosa di cui hai bisogno davvero, trovare qualcuno che ti ami e che ti dica che vali qualcosa.

Portare a Sanremo “L’amore è una dittatura” è un atto di coraggio: non ha un ritornello e, a parte l’epico finale, di certo non impari subito il testo a memoria. Stratagemma, questo, che ti costringe a fermare tutto quello che stai facendo per tendere un orecchio alla tv e non perderti neanche una parola dell’Appino, che certe cose sono vent’anni che le dice, ma oggi gli sono maturate in bocca e le dice al meglio. Le storie sono quelle dei vinti che s’incattiviscono e delle loro vittime nella guerra tra poveracci, che sono quelle che v’immaginate: barcone, omofobia, sessismo (il verso “la donna della vita o l’uomo della morte” fa venire i brividi) persi in mezzo a un flusso di coscienza esistenzialista, qualunquista, quello che volete, che ha il potere di farci sentire tutti dei pezzi di merda egoisti che hanno solo bisogno di attenzione e d’amore.

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La musica non concede ritornelli o scorciatoie, parte sinistra come certe orchestrazioni di Nicola Piovani per il De André dell’impiegato e cresce plumbea, apocalittica, oppressiva. Neanche la liberazione finale la libera ma in mezzo al pop, una canzone veramente politica, d’amore e d’anarchia stona, ed è in quella stonatura che ci riconosciamo, come figli stonati che faticano a riconoscersi nelle bandiere e nei simboli. Poi oh, liberissimi di dire che il testo di Cristicchi in gara è commovente, secondo noi siete solo a caccia del piantino facile perché non avete più voglia di confrontarvi con chi siete veramente. Gli Zen Circus sono arrivati a Sanremo con un pezzo difficile, certo meno classico di “L’anima non conta” (con cui sarebbe stato podio fin dalla prima diretta) e per niente scanzonato come il folk divertito degli esordi. Un pugno nello stomaco necessario, al quale applaudiamo alzandoci in piedi.

I vent’anni di coerenza, attitudine e sudore della band sono riassunti da oggi in “Vivi si muore 1999-2019”, la raccolta che celebra il lungo percorso degli Zen attraverso due decenni che hanno visto alternarsi nella scena italiana mode, generi e mutamenti di ogni tipo, e loro lì, paladini di quel mondo di provincia sotterraneo, sincero e punk tradotto in un senso profondo di condivisione che ancora oggi ci fa cantare sotto palco con loro, a squarciagola. Ascoltare questo disco vuol dire immergersi nell’universo della band e ripescare ricordi, da “Mexican Requiem”, scarna perla sovversiva tratta dall’esordio “About thieves, farmers, tramps and policemen” (quando si facevano chiamare solo The Zen), passando per i giri psichedelici di “Fino a spaccarti due o tre denti”, da “Vita e opinioni di Nello Scarpellini, gentiluomo”, quarto disco in studio del gruppo dedicato a un robivecchi novantenne di Marina di Pisa, definito da Appino e soci un punk ante litteram.

A rappresentare “Villa Inferno”, album pubblicato nel 2008 realizzato con Brian Ritchie dei Violent Femmes, c’è “Punk Lullaby”, che uscì come singolo con un video realizzato da Davide Toffolo e che vede ai cori le gemelle Deal (Kim bassista dei Pixies, chitarrista nelle Breeders e Kelley basso nelle Breeders): uno dei lavori forse più sottovalutati della band pisana che io invece ho amato moltissimo, che contiene tra l’altro l’anthem “Figlio di puttana” e il classicone “Vent’anni”, due dei tre brani in italiano del disco e ovviamente presenti anche in questa raccolta. Come immancabili sono “Andate tutti affanculo”, “Canzone di Natale”, “I qualunquisti”, pezzi divenuti nel tempo hit nel nostro mondo, in qualche modo parallelo a quello del pubblico tradizionale della kermesse sanremese, dove gli Zen sono un’istituzione, e la già citata “L’anima non conta”, che ogni volta brividoni come per "Il fuoco in una stanza" (non vi immaginate gli accendini che brillano sotto palco ogni volta?). 17 tracce (rimasterizzate per l'occasione) che raccontano al meglio una storia, più due inediti (oltre al brano presentato a Sanremo c’è “La festa”, ballata pop in crescendo che convince già al primo ascolto) che ci dicono che gli Zen ci sono, festeggiando anniversari ma pronti a partire di nuovo, per altri vent’anni di coerenza, attitudine e sudore. E noi non possiamo non volergli bene.


Di seguito le date degli showcase di presentazione di "Vivi si muore 1999-2019", in attesa del concerto evento del 12 aprile al Paladozza di Bologna.

11 febbraio: MILANO - Feltrinelli Piazza Piemonte, ore 18.30

12 febbraio: BOLOGNA - Feltrinelli Piazza Ravegnana, ore 18.00

13 febbraio: FIRENZE - Feltrinelli RED Piazza della Repubblica, ore 18.30

14 febbraio: ROMA - Feltrinelli Appia Nuova, ore 18.00

 

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L'articolo The Zen Circus e il pugno nello stomaco che dura da vent'anni di Simone Stefanini e Margherita G. Di Fiore è apparso su Rockit.it il 2019-02-08 10:23:00

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