Sarebbe bello finire così

Motta e il tempo che passa, le cose che vanno via, quelle che restano e tu, nel mezzo.

Tutte le foto sono di Lorenzo Arrigoni per Rockit.it
Tutte le foto sono di Lorenzo Arrigoni per Rockit.it

Però è un periodo che sto proprio bene cazzo. È questa la prima cosa che mi dice Francesco. Me la dice sempre in questo periodo. Questa intervista l’abbiamo fatta nel corso degli ultimi sei mesi. Ogni volta che ci siamo visti ci siamo detti qualcosa, per finirla la volta dopo. Negli ultimi sei mesi Motta ha iniziato e finito un tour, dopo il suo primo Sanremo, si è sposato, ha fatto dei piani per il futuro e li ha disfatti. In questa intervista non parleremo di nessuna di queste cose, in realtà. Non direttamente almeno. Le risposte, le domande: sono una media. Il fine era sviluppare insieme un termometro più o meno affidabile di una persona, quella persona, dei suoi sogni e delle paure e di tutta quella roba. Sbronzi, su un tetto di Milano, alle 15 di un martedì pomeriggio. A mangiare sushi con il mango e le mandorle in un posto di un rosa disgustoso. Seduti per terra, a sbrodolare grappa. A Roma. A Lamezia Terme. A Milano di nuovo. A Senigallia. Ancora a Milano. Se ci siamo riusciti? No, direi di no. 

Questa sera Motta chiude il tour all'auditorium Parco della Musica di Roma. Poi si fermerà per un po'. Perchè, cosa farà, cosa vorrebbe fare e cosa lo spaventa del futuro, abbiamo provato a chiederglielo qui. 

 


Perché chiudere il tour a Roma? Oltre al fatto che ormai abiti lì.

Mi piace il live in nei club, mi piace anche la dimensione teatrale della musica. Penso che il Parco Della Musica a Roma sia l’unico posto in Italia ad avere la sintesi di entrambe le cose. È il miglior posto in cui suonare. Ho tanti difetti, uno è quello di prendere particolarmente sul serio le canzoni. Quel posto mi riempie di responsabilità. Si sente bene, sei nudo, e se per caso sbagli qualcosa sul palco devi sbagliare nel modo più figo del mondo, altrimenti sei fregato.

 

Questa data è una celebrazione di quello che è stato il tour o un esperimento sul futuro?

La vedo più come un punto di partenza. Anche se poi mi fermerò per un bel po’ di tempo. 

Cosa farai dopo?

Ho dei progetti, farò delle cose, ma non mi vedrete per un po’ sui palchi. Voglio dedicarmi a un tema che sento molto che è il ruolo dei maestri, da chi mi ha insegnato tutto a chi mi avrebbe fatto smettere di suonare, fosse stato per lui. Non posso dire altro ora. Rispetto ai due album che ho fatto ho tante strade aperte, voglio esplorarle. 


In questo momento la voce fuoricampo di Marco Gallorini (manager dell’artista) ricorda a tutti, con gli occhi a metà tra il sorriso e l’abisso, che avranno invece un “puttanaio di roba da ‘ffare”. 

Dove vuoi andare a metterti, come artista, con il prossimo album?

Con il secondo disco avevo un sacco di occhi puntati addosso, ora sento di essere molto più libero. Di solito gli ascolti dei miei pezzi sono inversamente proporzionali a quanto mi piace quello che faccio poi, quindi chissà. C’è tutto un mondo, che è quello dell’elettronica, che sento solo di aver sfiorato. Ora vorrei approfondirlo davvero. E non adagiarmi troppo sul testo, lavorare sulla musica e sul suono invece senza far bastare il fatto che le parole siano al centro. 

Parlando di suono, ti sei reso conto di quanto certe cose siano già passate di moda? 

Quando qualcosa è troppo di moda è facile anche che passi di moda. Per quanto all’inizio quello che mi è successo è dovuto anche al fatto che ci fosse hype intorno a un mondo preciso, il fatto che ora stia scomparendo mi rilassa. Mi fa capire anche che sono felice dei due dischi che ho fatto. Non sono invecchiati per me.

L’indie, l’ItPop. Credo sia più un’onda arrivata al momento giusto, e che ti ha dato una spinta in più. Qualsiasi cosa voglia dire oggi quella parola, non penso tu ne abbia mai fatto davvero parte.

Quando è uscito “La fine dei vent’anni” c’era una maggiore attenzione verso quel mondo, e quell’attenzione mi è servita, e ne sono grato. Ma sono riuscito a starne fuori abbastanza, credo.

Come?

Una cosa che ha aiutato tanto sono stati i concerti. La gente tornava a sentirci anche a distanza di poco tempo, nello stesso posto. Avevamo questa gag: che ogni live era il compleanno di Leo. Ho realizzato che la gente tornava a vederci perché quando partiva questa pantomima la gente iniziava a dire “ma non era il mese scorso?”. Se suoni bene la gente torna a sentirti anche a distanza di un mese, e questa cartina tornasole resterà sempre. Non so se poi è un discorso di chitarre o non chitarre che tornano, è più che torni a un concerto se ti è piaciuto. 

Le chitarre sono una parte importante in quello che fai?

Io alla fine non ne ho nemmeno così tante di chitarre, ma comunque non parlavo di me e basta. In generale è importante tornare a suonare, e a far capire che la musica è importante. C’è bisogno di rispetto nei confronti della persona che paga un biglietto per venire a vederti. Ci deve essere un impegno dietro che sia non solo estetico, ma di cuore, e sangue, e fatica. Questo è immortale: l’impegno che c’è dietro. 

Tra tutti gli aspetti, perché il più importante è l’impegno?

Per capire che quello che fai è importante, qualsiasi lavoro tu faccia. Se fai sedie e cominci a dare per scontato come si fa una sedia solo perché l’hai sempre fatto, perdi il controllo della sedia. Uno li sopra poi ci casca e non comprerà più le tue sedie. 

E in questo non c’entra anche il non sprecare il tempo? Che è limitato per te, nel fare quello che fai. Ma non lo è per chi avrà tutto il tempo che vuole per guardarti attraverso le cose che hai fatto.

Il disco che fai dovrai riascoltartelo vent’anni dopo. Per quanto le canzoni che ho fatto nel primo album siano legate a quel momento della mia vita non mi stancherò di tornare a misurarmi con quel disco. Sarò felice tra vent’anni di rimettere quel vestito e vedere come sono cambiato, lo sarò della nostalgia che proverò nel vedere quello che avevo sentito vent’anni prima. Ma quando ho scritto quel pezzo non ho pensato “faccio qualcosa che duri 50 anni”, o che vorrò risentire. Ho solo pensato che avrei dovuto fare bene quello che stavo facendo. Quindi questo, sul tempo, è un discorso giusto. Ma devi farlo quando hai finito.  

Se ricordo quel momento, probabilmente non avevi altro da fare che fare al meglio quello che stavi tornando a fare. Cioè scrivere. 

Esatto. Tra l’altro è l’unica cosa che so far bene, o comunque la cosa che so far meglio. 

Come fai a saperlo?

Perché è l’unica cosa in cui ho messo il cuore da quando ho 18 anni. 

E prima dei 18 anni?

Prima la musica era solo un’arma per distruggere dei nemici immaginari. La mia era fare punk, emulare i miti che avevo e stare in giro, spaccare tutto, anche se eravamo solo in tre. Poi i nemici piano piano sono scemati, sono andati via, e son rimasto da solo. 

Ti riferisci anche alla fine dei Criminal Jokers?

Non voglio fare un confronto tra me e la mia vecchia band ma sì, certo. Dalla solitudine che è venuta dopo la fine della band sono partite le canzoni che ho fatto io. Con “La fine dei vent’anni” ho realizzato quanto potesse farmi stare bene scrivere le canzoni, c’era un processo di autoterapia dietro. Prima invece era la musica stessa a farmi stare meglio, la libertà di non pensare a un cazzo. Con il mio primo disco ho scoperto invece la libertà di pensare a come stavo. Così ho realizzato che i nemici che mi ero creato non esistevano. È il passaggio dall’adolescenza alla maturità, in fondo. 

E cosa succede ora?

Ho sempre detto che fare i dischi non mi piace. Ora voglio andare a letto contento. Non voglio fare solo i conti con me stesso, voglio risolverli. Forse la fase successiva è capirti, capire le cose e le persone che ti piacciono, capire che fare il musicista è una cosa che ho sempre cercato di fare e per forza devo essere felice di farlo. Non è scontato fare questo mestiere ed essere felice, però dovrebbe. Cosa si perde nel mezzo? Devo capirlo. A fare pace con me stesso mi ha aiuto anche Sanremo.

Come?

Mi ha fatto capire meglio chi sono e chi voglio essere. Chi voglio invitare alla mia festa e chi alla mia festa non ci vuole nemmeno venire. Prima era tutto in potenza, potevo scegliere qualsiasi strada, ora so che festa fare. Se ci deve essere un passaggio successivo al capire che i nemici non ci sono e fare i conti con te stesso, il terzo passaggio è creare movimento, riaprirti. 

A Sanremo il tuo brano parlava di una cosa precisa.

Ho conosciuto la scorsa estate questo pescatore, mi ha raccontato di come una notte sia entrato in contatto radio con una nave di migranti, l’unica cosa che continuavano a chiedere era “dov’è l’italia? Dov’è l’Italia?”. Non riuscivo a non pensarci. Dovevo dar voce a qualcosa di enorme come questo, qualcosa che non capirò mai e che sento molto più importante di me, e farlo davanti a tutti. 

È un dovere, oggi e per chi ha una voce più forte delle altre persone, occuparsi di queste cose?

Giocare con la musica te lo devi guadagnare, il “non me ne frega un cazzo” non può essere il punto di partenza. Io poi non ci arriverò mai, ma questa è una cosa mia. La leggerezza è un punto d’arrivo. 

E che responsabilità senti nei confronti di te stesso?

Quella di volermi bene, e non è facile. Mi sono ritrovato a dire delle cose a mio padre in “mi parli di te” che non è semplice far venire fuori. Mi sono sentito meglio dopo averlo fatto. Forse avrei dovuto dirgli certe cose prima, non farlo in una canzone, ma così è andata. Spesso in questa generazione i genitori sono peggio dei figli. Genitori che si incazzano con gli insegnanti. I miei mai si sarebbero sognati di difendermi. La disciplina è fondamentale, e lo è al punto che a volte senti mancanze di tipo affettivo. Poi però ti resta. E ti insegna anche come amare le persone.

Ha cambiato il vostro rapporto quella canzone?

Sì, ha responsabilizzato anche lui. È sempre stato uno che mi ha insegnato l’importanza di esserci, del lavoro, di cercare, a prescindere da chi hai intorno, di non stancarti e fare al meglio quello che fai. Questo ha portato a dei fraintendimenti a livello affettivo, ma lo ringrazierò sempre. Per avermi supportato, e per avermi insegnato l’importanza di avere rispetto per quello che faccio. 

E che rapporto hai adesso con quello che fai?

C’è stato un periodo in cui mi sono dedicato a togliere il superfluo, soprattutto su “Vivere o morire”. C’è molto la canzone. Voglio mettermi in gioco, avere più collaborazioni e insieme avere più chiaro quello che voglio. Se il primo disco l’ha prodotto Riccardo Sinigallia, il secondo Taketo Gohara, ora c’è il rischio che il prossimo lo faccia da solo. Non so quanto sia una buona cosa, perché l’insicurezza finora mi ha portato a passare per altre persone per capire chi ero io e dove avevo ragione. Sicuramente sono aperto, mi fido più delle persone, so a chi chiedere cose. Soprattutto mi fido più di me.

Non ti spaventa questo?

Certo, se sei da solo poi non puoi più dare la colpa a nessuno. 

Però le rotelle dalla bici a un certo punto le devi togliere. 

Voglio imparare ad andare in bici da solo, che poi è un po’ che ci vado in bici. Ma adesso quando lo faccio non mi vergogno più a dire che sto proprio bene. 

Perché dovresti vergognartene?

Quando scrivo le canzoni difficilmente riuscirò a divertirmi. Scrivere i testi, per me, è un momento doloroso. 

Qual è il tuo rapporto con i giovani, la roba nuova che fanno e tutto il mondo che hanno dietro?

Questa nuova generazione mi spaventa. Vedo tanti miei colleghi che giustificano certe tesi e il modo in cui vengono trattate, soprattutto dalla trap, magari per restare giovani anche loro e ritrovare un’empatia col pubblico che hanno perso. Lo trovo qualcosa di ruffiano e schifoso. Nonostante ci siano cose che anche a me piacciono, ma certi concetti non possono essere messi in parallelo coi Nirvana, con Lou Reed.

Al netto dei riferimenti, cosa manca di più oggi di quella cosa lì?

La condivisione, ci stiamo sentendo sempre più soli. In qualche modo una volta cercare la libertà era farlo insieme a te. Ora intanto la cerco da solo, poi forse riesco a condividerla con qualcun altro. Spesso se cinque musicisti si trovano insieme è difficile che parlino di musica. Poi non voglio fare il freakkettone, perché forse anche io ho paura di fare qualcosa del genere, ma lo spirito di condivisione manca assolutamente. Dobbiamo avere tutti questo cazzo di lato snob che giustifica quello che siamo e allontana le paure. Dovrebbe essere bellissimo invece regalare i tuoi trucchi a chi fa il tuo lavoro, perché tu poi prendi i suoi. Ma no, ognuno nel suo, senza che mai si parli di musica tra musicisti. Questa cosa qui mi fa girare profondamente il cazzo.

Cosa si inceppa?

Che il tempo costa, è vero, e da un certo punto in poi nessun artista può o vuole permettersi di perdere del tempo a scrivere qualcosa per il gusto di farlo. Ma può non essere buttato del tutto qualcosa che fai per stare meglio, o per imparare. Da una certa consapevolezza in poi la gente fatica molto a pensare di dover imparare ancora, e invece devi studiare sempre. E fare le cose anche solo per capirle meglio la volta dopo.

Vedo sempre meno strutture che investono in un artista sulla lunga distanza, con una lungimiranza che superi un massimo di un paio di album. 

Esatto, quindi anche sticazzi di fare un album di nove canzoni in cui tutte abbiano senso. Bastano tre singoli, quattro, e siete apposto. Anche i discografici, le major, tutti sanno se una cosa è bella o meno. Non ci diciamo mai un cazzo ma lo sappiamo quando una cosa è fatta bene, avrà un senso sulla lunga distanza, oppure è perfetta per oggi. Va bene poi, siamo tutti ipocriti in questo, ma lo sappiamo bene. O almeno, io lo so. E le mode poi finiscono.

Anche se comunque anche in quella roba lì ci vedo qualcosa. Prendi la trap, è vero che va di moda, ma è innegabile che sia un mondo che sta dicendo delle cose, spesso cose forti, importanti.

Non so se chiamarle importanti. Spesso il testo viene fuori in maniera schifosa. Poi c’è molta roba che mi piace, percepisco della genuinità, mi affascina questa adesione totale tra quello che dico, che faccio e che sono in quel genere musicale. Forse sto invecchiando anch’io, ma non riesco a difenderli a spada tratta. Come non riesco a difendere a spada tratta tanti miei colleghi. Io non voglio e non riesco a emozionarmi con quelle cose. Posso essere libero di scrivere una canzone su noi due che stiamo bevendo, dico soltanto che noi due ora stiamo bevendo, e qualcuno dira che sono bravo perché racconto la verità. Certo che è la verità, ma se si ferma qua finisce. Giustificare a prescindere il fenomeno solo perché è vero, o nuovo, non vuol dire un cazzo. Non è che se fai una cosa che non ha mai fatto nessuno deve essere per forza bella. Dirselo oltretutto è l’unico modo per sbagliare. Poi puoi anche scegliere di ignorare chi ha scritto prima di te, ma prima devi studiare. Se non sai cos’ha detto chi è venuto prima come fai a fare qualcosa di nuovo?

I padri sono fatti per essere mangiati, ma devi avere i denti forti.

Il problema è che i maestri ora iniziano a mancare. Questa è una delle cose che mi spaventa di più, il fatto che uno goda del fatto di non avere un maestro. È drammatico. Anche nel cinema, c’è sempre più questa voglia di guadagnarsi da soli la libertà, l’autorevolezza, la credebilità. Come se il maestro nella sua funzione ti togliesse queste cose. 

Credi sia presunzione o mancanza di abitudine?

È una forma di insicurezza, trasformata in un’insicurezza ancora maggiore. Se la traduci in musica, in quello che dicevamo prima rispetto alla qualità delle cose, è la differenza tra il sentire e l’ascoltare.

C’è una differenza?

La musica alla fine è questo: ascoltare quello che fai e quello che fanno gli altri. Ascoltare lo stomaco, il cuore. 

Ne vedi arrivare nuovi, di maestri?

Non lo so, perché questa cosa qui parte da noi e da quanta voglia abbiamo di metterci a studiare, studiare musica. Non so se da soli ce la faremo mai, ma a un certo punto sarà molto noioso non avere qualcuno da cui imparare. Allora andremo a cercare cose che sono importanti. 

Fermarti non ti spaventa?

È un momento felice della mia vita, mi godo le cose. Arriverà come al solito un momento di autoanalisi che mi spaventerà, perché metterò a fuoco cose che non avevo capito prima e non è detto saranno tutte belle. Però sento un’altra energia, e non mi spaventa fermarmi. Quando abbiamo finito il tour de “La fine dei vent’anni” mi sono sentito completamente perso, perché avevo paura della solitudine, e di non avere qualcuno a cui raccontare le mie cose, che poi sono quelli che mi vengono a sentire. Ora no, non ho paura.

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L'articolo Sarebbe bello finire così di Vittorio Farachi è apparso su Rockit.it il 2019-09-28 09:49:00

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