Dardust: "Voglio colorare la musica italiana"

Sempre in bilico tra il pianoforte e i beat, sta rivoluzionando il nostro pop. Ora torna con un disco, "S.A.D.", e prova a risbancare Sanremo con Rancore ed Elodie

Foto copertina Emilio Tini/Alessio Panichi
Foto copertina Emilio Tini/Alessio Panichi

Figura adorata tanto dalla scena urban quando dai più disparati interpreti mainstream (Tommaso Paradiso, Elodie, Jovanotti), Dardust ha occupato decine di volte le prime posizioni di ogni classifica. Molti probabilmente, conoscete già Dardust per i grandi successi che ha firmato, per il successo ottenuto lo scorso Sanremo con Soldi. La notorietà da cui è stato investito è sicuramente merito di un processo di rivalutazione del producer che ha nobilitato questa figura alla stregua dei grandi interpreti internazionali, ma relegare i suoi meriti esclusivamente a questo ruolo sarebbe estremamente riduttivo. S.A.D. è il terzo capitolo di una trilogia discografica che serviva a delinearne l’identità artistica. In occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro, abbiamo incontrato Dario per capire qualcosa in più del deus ex machina della nuova scena pop italiana, per comprendere meglio l’uomo, il musicista ma, soprattutto, il visionario che si celano dietro un album sorprendentemente ricercato.

 

Copertina S.A.D
Copertina S.A.D

Ti senti più musicista, pianista o produttore?

Credo che il termine musicista racchiuda in sé tutte le mie anime: quella del pianista, quella del produttore, il compositore, il ricercatore, l’esploratore del campo elettronico, il performer sul palco. Musicista è il termine che sento più mio.

Per firmare successi altrui e lavorare ad un album proprio sono necessari due approcci differenti?

Per quest’album mi sono dovuto assumere ogni responsabilità, paradossalmente, quando seguo i miei gusti mi metto in una posizione di svantaggio maggiore rispetto a quando lavoro con un altro artista. Lavorare da soli richiede molto più coraggio, quando lavoro con qualcuno il mio compito è trovare un tappeto sonoro che metta ogni interprete a suo agio. Quando rispondo ad un pezzo in prima persona, la mia ricerca musicale mi pone molti più rischi. Porsi dei dubbi è il senso stesso dell’arte, uscire dalla comfort zone serve per intendere la realtà in una maniera diversa, per guardare al futuro. È bello assumersi i propri rischi, avere la possibilità di sbattere la faccia senza dover render conto a nessuno. Nei percorsi artistici non credo esistano veri e propri errori, spesso uno sbaglio è un tentativo di esplorazione mancata, molti aspetti di ogni forma d’espressione vengono compresi solamente in seguito.

Sei uno di più quotati ghost writer di successi italiani. L’assenza (quasi totale) di testi in S.A.D. è una risposta a questo tuo ruolo d’autore?

In realtà, forse è molto più facile esprimersi con una melodia. Il testo relega ogni melodia ad una sceneggiatura, restringe l’immaginario ed è comunque veicolato dalle parole, dalla lingua. Sul genere strumentale chiunque può proiettare il proprio immaginario, dal Brasile alla Norvegia. Nel corso dell’anno lavoro più come compositore che come melodista, ma la parola spesso dona un'altra forma alla melodia, un altro colore. La parola è veicolata dalla melodia e la melodia è spesso relegata ad un ruolo di supporto. La musica è uno scontro che deve trovare risoluzione tra melodia e parola. Dardust è la massima esplosione della melodia, questa è stata la mia forma di libertà più totale. Mi sono voluto liberare dal fardello delle parole così da avere la possibilità di parlare a tutti. La melodia pura non ha barriere, un’idea molto romantica della musica.

In quest’ottica, credi che anche in Italia la figura del producer stia cambiando?

Sta cambiando molto, ne sono felice, ma, come vedi, non ho fatto un disco di feat, la mia scelta non è ricaduta sull'opzione più scontata che potessi proporre. Dovevo fare qualcosa di non lineare. I producer, fortunatamente, in Italia stanno crescendo non solo come figure ma anche come dimensione artistica, cercano di essere artisti in prima persona, attuano una ricerca di sound design che prescinde dagli interpreti con cui collaborano. In tanti mi conoscono per i successi che ho firmato insieme ad altri artisti. Questo disco all’apparenza potrebbe risultare più complicato ma Vorrei riuscire a coinvolgere chiunque, a far alzare tutti dalla sedia.

Come riesci a far coesistere i più grandi successi pop con la musica alta?

Fa parte della mia personalità e del mio genere, un crossover molto immaginativo. Mi piaceva l’idea di proporre un album che, pur rimanendo nell’ambito della musica neoclassica, risultasse diverso dal solito album da camera. S.A.D. è un disco intimista ma non minimale, è pieno di contrasti improvvisi, è stato pensato come un lavoro attivo non come disco di sottofondo. In Soldi di Mahmood così come in Nuova Era di Jovanotti ci sono tanti piccoli trick, tante allusioni a correnti elettroniche europee di nicchia. Il mio artista preferito del resto è David Bowie, il più grande maestro nel captare ciò che era sotterraneo, nascosto, e renderlo popolare. Nel mio piccolo, lo ribadisco con molta umiltà, cerco di fare lo stesso, scovare sfumature che in Italia non sono arrivate e riproporle come Dardust. 

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Perché hai deciso di imbastire il tuo ultimo lavoro proprio sul concetto di “sturm und drang”?

L‘illuminazione mi è arrivata durante una tempesta di neve a Londra ad inizio 2018, una tempesta come non se ne vedevano da anni. Questa tempesta ha effettivamente coinciso con la mia più grande tempesta emotiva: finita una storia importante, sono dovuto andare via di casa, nel frattempo, mi è giunta la notizia che anche la mia casa di Ascoli, la casa della mia famiglia, dovesse essere demolita in seguito al terremoto. Ero senza un tetto non solo simbolicamente, indifeso alle intemperie della vita. Da quel momento è iniziata la mia ricerca di un alterego in cui immedesimarmi artisticamente: poteva essere il giovane Werther come Mark Renton, potevo suicidarmi o scappare con il bottino.

È sicuramente un lavoro da leggere su più livelli. Con diversi rimandi fra i titoli ed acronimi che mi hanno ricordato Duchamp

Sì, assolutamente, ad esempio, in Storm and Drugs cito almeno 10 tipi di psicofarmaci, ma le droghe non si riferiscono ad una sostanza in particolare quanto a qualsiasi forma di dipendenza. È un disco molto cervellotico, con diverse ispirazione musicali, artistiche, letterarie ed emotive. Lo sturm und drang è stato un movimento di reazione, volevo profanare qualcosa di alto, così è nata l’idea dell’acronimo. Disegnare i baffi sulla gioconda non si limita ad imbruttire un’opera, ne attualizza il contenuto.

Dardust/ Foto di Alessio Panichi
Dardust/ Foto di Alessio Panichi

Nonostante ciò, lo sturm und drang è in netto contrapposizione con un altro termine molto ricorrente nella tua musica, neoclassico

Il neoclassicismo è questa nuova corrente pianistica dalle influenze elettroniche che, in effetti, ha un po’ il denominator comune con il movimento artistico di riprendere gli stilemi del passato. A livello storico lo sturm und drang nasce come risposta al movimento neoclassico. Questo disco vuole essere il mio sturm und drang, la mia risposta a questa corrente minimale che sta andando molto di moda ma ritengo essersi adagiata sugli allori negli ultimi tempi. S.A.D. non è un disco neoclassico, non ci sono flow lineari, in questo senso è un lavoro tempestoso. Il mio sturm und drang al neoclassicismo attuale.

Ritieni che nascere in provincia ti abbia aiutato a maturare uno stile completamente tuo?

La mancanza di stimoli mi ha permesso di sviluppare l’immaginazione, l’orizzonte limitato ha ampliato la mia ricerca. Ascoli è il luogo dove torno per stare tranquillo ma ha sempre alimentato in me una grande frustrazione, pur amandola, pur dovendole tanto...

Te lo chiedevo perché S.A.D. è il terzo capitolo di una trilogia imbastita su tre diverse capitali europee…

Con questo progetto volevo aprirmi un po’ a tutto il continente, non a caso, S.A.D. è stato il primo disco uscito a livello internazionale. Dopo tanti anni di creativa italiana, dopo aver firmato successi per tanti artisti nazionali, sentivo il bisogno di aprirmi ad altre sfumature. Per questo ho tracciato un imprinting di tre città che rispecchiassero la mia formazione musicale in prima persona: Berlino per l’elettronica e il periodo di Bowie. Reykjavik, per tutta la scena islandese, una scena che mi ha sempre creato stupore, lontana geograficamente ed anche emotivamente da qualsiasi forma di canzone predefinita. Ed infine Londra. Questa trilogia non è un punto di arrivo ma il percorso entro il quale mi sono formato stilisticamente. Questa trilogia è la nascita della mia identità.

Un disco del genere dove trova il suo habitat naturale: a teatro, in un club, palazzetto o locale?

Teatro, ma con il pubblico che si alza in piedi nella seconda metà del live. Mi piace questa idea che l’esibizione sia composta di due parti. Le prime date del tour le faremo nei club quindi tutti saranno in piedi, ma credo sia proprio un disco adatto alle poltroncine quanto al dancefloor.

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Quali sono i tuoi riferimenti come pianista e come produttore?

Sakamoto sicuramente, Jonh Williams sul lato colonne sonore, ma ascolto un po’ di tutto, Bonobo, Jon Hopkins, mi piace sia andare a scovare roba elettronica particolare ed adoro tutta la scena urban, da Travis Scott a Kendrick Lamar. Mi piace tanto, mi piace tutto perché mi piacciono i progetti che hanno alle spalle un concetto, spesso, quando faccio un’intervista, mi preparo una lista. Ascolto troppa musica, questo genere di domande mi mette in difficoltà. Ultimamente ho ascoltato molto Floating Points e Sebastian Plano, un violoncellista straordinario recentemente candidato ai Grammy, penso il suo album sia il più bel lavoro neoclassico degli ultimi anni.

A tuo avviso, la prossima stagione sarà segnata da una maturazione definitiva del genere urban in Italia o la ritieni esclusivamente una moda passeggera?

Mi auguro ci sia un passaggio, un’evoluzione, auspico un approccio più organico degli interpreti ai beat, come ha fatto Kendrik Lamar in America che è riusciuto ad inserire jazz, blues ed altra musica storica in un contesto rap moderno. Mi auguro un’evoluzione non solo della trap ma di tutta la scena urban, che non si limiti all’elettronica ma provi a proporre qualcosa di suonato. Sono speranzoso e vedo tanti ottimi nuovi interpreti. Mi piacerebbe collaborare con la Madame, con la quale abbiamo già sperimentato qualcosa...

Aspettative per questa nuova edizione di Sanremo?

Ho due pezzi in gara, uno con Rancore ed uno con Elodie. Andromeda è un brano scritto a quattro mani con Mahmood, per niente lineare. Il featuring con Rancore è stata un’idea del mio editore. Tarek è un visionario, io sperimento col suono lui con le parole, è il mio corrispettivo nell’ambiente rap. Da questo incontro è nata Eden, una canzone con un testo stupefacente ma dal quale non mi aspetto nulla, è un pezzo molto difficile. Abbiamo osato, a prescindere da Sanremo, rimarrà un brano che ci ha riempiti artisticamente ed emotivamente. Del resto, l’esplosione di Soldi dell’anno scorso sarà difficilmente replicabile.

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L'articolo Dardust: "Voglio colorare la musica italiana" di Marco Beltramelli è apparso su Rockit.it il 2020-01-14 16:42:00

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