Federico Fellini, cento anni di film e musiche eterne

Il nostro più grande regista amava ripetere che non sopportava la musica. Eppure, grazie al genio di Nino Rota, le sue colonne sonore erano sopraffine quanto il suo cinema

Federico Fellini - foto via Wikimedia Commons
Federico Fellini - foto via Wikimedia Commons
20/01/2020 - 09:18 Scritto da giorgiomoltisanti

Per quanto bislacco, se non altro per i superati limiti d'età, anche a me piace il circo. Ho sempre un po' quella titubanza ancestrale nei confronti dei clown, retaggio forse di troppe pellicole horror, ma l'immaginario malinconico del tendone che racchiude al suo interno le gioie e i dolori d'un microcosmo di uomini e animali mi affascina. Sarà colpa del Cielo sopra Berlino di Wenders, e di sicuro c'è lo zampino delle colonne sonore di Nino Rota. Infatti nel mio campionario di malattie ho anche questa: se sento una marcetta di Rota, magari fuoriuscire da un vecchio 45 giri, con la dedica scritta con la penna biro sull'angolo, mi sciolgo come un poppante davanti agli elefanti di Dumbo.

Pare che per Federico Fellini – nato il 20 gennaio del 1920 – ogni film finisse con l'ultimo ciak. Tutto il resto, per il regista, era sovrastruttura. Perché le immagini in quel istante erano le sue. Attorno a quelle immagini, il sonoro degli stracci della vita da set: grida, imprecazioni, risate o silenzi difficilmente ottenuti. Per Fellini anche la proiezione muta, senza sonoro, era affascinante, con tutti gli attori che muovono le labbra in un silenzio da acquario. Ciò che accadeva dopo era come il taglio del cordone ombelicale. A quel punto Fellini ammetteva d'iniziare ad andarsene, a evitare il suo stesso film, a non provare più gusto a guardarlo in volto. Li finiva, ovviamente, a suo dire “sempre con maggior pignoleria” nelle scelte finali, ma perdendo man mano la consolidata amicizia e la difficile solidarietà reciproca.

Proprio nel momento in cui per il resto del mondo il film inizia a vivere, per Fellini diventava irrimediabilmente una cosa. Non a caso era solito chiamarli “questo” o “esso”, confessando umori contrastanti: “Ogni volta questo è diverso; ora giovanile, festosissimo, ora balbettante per acciacchi, vecchiaia; ora rapido, veloce e leggero, ora claudicante, lento, paralitico”. Ma in questa fase, faticosa e inquieta, c'è una persona che per il regista era la più consolatoria e desiderata, in grado di creare “momenti di festa nella crisi”. Era la creazione della colonna sonora, l'incisione. In due parole: Nino Rota

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“Con Nino posso restare giornate intere, in un momento in cui non tollero nessuno, in un momento, l'ultimo, in cui il film si nutre della sua stessa intimità e non della voracità del suo pubblico”. Così, Federico passava il suo tempo ad ascoltare l'amico Nino al pianoforte intento a precisare un motivo, a chiarire una frase musicale in modo che coincidesse il più esattamente possibile con il sentimento, l'emozione che desideravano esprimere in quella data sequenza. Cosa non da poco, considerato che, al di fuori del suo lavoro, a Fellini la musica non piaceva, o meglio, prediligeva non averci nulla a che fare, per un suo eccesso di partecipazione emotiva che avrebbe sicuramente affascinato Oliver Sacks.

“Mi condiziona" si può leggere nel libro Fare un film, "mi allarma, ne vengo posseduto e allora me ne difendo rifiutandola, scappando via come un ladro dalle occasioni”. E poi, più avanti: “Il fatto è che la musica mi immalinconisce, mi carica di rimorsi. La musica è crudele, ti gonfia di nostalgia e di rimpianti e quando finisce non sai dove va, sai però che è irraggiungibile e questo che ti rende triste”. Ma ecco che entra in scena Nino Rota, suo amico, che gli vuole un bene dell'anima e gli tende la mano in questa sua inedita deriva emo-core ante tempore.

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Curiosamente, Nino Rota, a volte con lo zampino di Armando Trovajoli e Piero Umiliani, con le sue musiche, riusciva in qualche modo a far sopportare le sette note a Fellini. Anche se il regista dichiarava (sfoggiando non proprio modestia): “Posso dire che è forse tra i musicisti il più funzionali di tutti. Non ha la presunzione e l'orgoglio di chi vuol far sentire la sua musica. Si rende conto che la musica da film è un elemento marginale, secondario, che può solo a tratti essere protagonista, ma deve solo spalleggiare”, non è un mistero che la musica di Nino Rota ha reso immortali pellicole oltre l'ego felliniano, da Rocco e i suoi fratelli a Il Gattopardo, passando per La grande guerra e molte altre.

Incensate fino ai giorni nostri, celebrate ancora oggi e da musicisti come Mike Patton, Enrico Gabrielli o Nicola Manzan. Che la musica di un film possa essere infatti un elemento marginale non vi sono dubbi, ma se esiste un modo di pensare il cinema in cui essa risulta indispensabile questo è proprio il cinema di Fellini. E merito non può che essere di Nino Rota. La storia è nota. Fellini lo conobbe alla Lux e la loro collaborazione ebbe inizio da Lo sceicco bianco; la musica di Rota arriva allo spettatore sui titoli di testa e sembra creare dal nulla quello che sarà riconosciuto per sempre come l'immaginario felliniano. Proprio come, in altro contesto e altra epoca, Ennio Morricone da un semplice accenno diventerà la firma che ha tracciato le più ispirate musiche del Vecchio West di Leone.

Poco avanti, Rota crea la sua prima marcetta che già evoca, col senno di poi, l'atmosfera di film come La dolce vita, 8 e ½  o I Clowns. Ma soprattutto c'è La strada a confermare di questo postulato: non tanto perché vi siano dei brevi accenni musicali e di arte varia, ma perché la storia nasce con la musica e dalla musica, che passa di continuo dal piano terreno al divino e sembra esser la principale via di comunicazione tra Cielo e noi uomini; come se un Dio silenzioso potesse parlare solo con le note. Non a caso il regista dirà: “Quando scrivi musica sei capace di ascoltare la radio e sentire suonatori ambulanti. Io non voglio essere imbrigliato dalla perfezione in nessun modo. Per questo la musica mi rattrista, perché rappresenta la perfezione”.

Il celebre tema del Matto, anche quello nei titoli di testa, tace e si ripresenta quasi facendosi desiderare come nelle opere liriche quando i temi che poi saranno i più apprezzati vengono accennati nelle ouverture; così, quando riappare, affidato al violino del Matto, conquista subito Gelsomina, le disegna negli occhi l'idea di un mondo altro e di una vita altra. Torna poi nella notte in cui il Matto insegna alla piccola il senso della vita. Di lì in avanti si impossessa del film come un incantesimo; Gelsomina lo esegue alla tromba con poetica ostinazione, come gli innamorati che ricantano il motivetto del loro primo appuntamento; e più avanti, dopo la sua morte, quel tema la riporta in vita, nella mente di Zampanò. Infine, lo stesso in versione orchestrale si riversa su Zampanò sdraiato in riva al mare, come fonte di consolazione che si tramuta in pianto, come un manto sonoro steso dalla provvidenza sulle sofferenze sue e, per estensione, di tutti gli uomini. Insomma, alla faccia dell'elemento irrilevante e laterale.

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Con breve eccezione per Agenzia matrimoniale, in realtà un corto, Rota musicò tutti i film di Fellini fino a Prova d'orchestra incluso. I temi de La strada, de La dolce vita, delle Tentazioni del dottor Antonio, di Toby Dammit, dei Clowns, di Amarcord evocano immediatamente l'immaginario di Federico Fellini e gli forniscono una sorta di solida base sentimentale inscindibile dalle immagini. Provate a immaginare Amarcord senza Rota, senza marcetta, o anche semplicemente senza musica, come lo amava lo stesso regista, e all'istante l'intera pellicola si immiserirà; provate invece a vederlo senza audio, con la colonna sonora di sottofondo, l'unica tollerata da Fellini, e avrete forse un'opera d'arte totale e perfetta.

Così il film era veramente finito e, per sua stessa ammissione, Fellini decide di non volere vedere nessuno dei suoi risultati ulteriori in una sala pubblica. La sensazione, dice, “è quella di trovarsi con un amico intento a fare delle cose su cui non si era d'accordo”. La musica nel cinema di Fellini è qualcosa che avvolge come coperta di Linus: pare infatti che Nino Rota amasse comporre sul fare della sera, come dentro un bozzolo dove succedono le cose più mirabolanti, con quella malinconia dettata dal suono del pianoforte o della fisarmonica al crepuscolo, in ciò del tutto analogo al buio di sala. Ma non è tutto onirico e magico.

Da musicista colto e concreto, Nino Rota riusciva a mischiare alla perfezione musica aulica, come Mozart del Flauto Magico ad altra popular, come Gershwin della Rapsodia in Blue. Similmente al primo conoscitore delle possibilità espressive del pop, ovvero Puccini, anche Rota non ci pensa due volte a fare riecheggiare brani propri e altrui con diverse declinazioni (chi ha detto remix?); così il tema de I vitelloni viene da un'altra canzone, Vola la notte, eseguita da una cantante in Roma città libera di Marcello Pagliero; e il tema centrale de La dolce vita si rifà al Moritat di Mackie Messer dell'Opera da tre soldi di Brecht (che infatti Fellini all'inizio avrebbe voluto usare); infine il tema pseudo-felliniano Fortunella diventerà molti anni dopo colonna sonora da Oscar per Il padrino di Coppola, anche questa creata da Nino Rota.

Dopo Rota, Fellini si rivolse a Luis Bacalov, per la Città delle donne, ma fu una breve parentesi e neanche tra le migliori, prima di arrivare a Nicola Piovani, che firmò le musiche della restante e un po' claudicante e manierista produzione felliniana, fino alla morte del regista nel 1993. 

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L'articolo Federico Fellini, cento anni di film e musiche eterne di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2020-01-20 09:18:00

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