Uzeda e John Peel: storia di un amore senza mai incontrarsi

Mentre la Rete riporta a galla la struggente bellezza delle "Sessions", ripercorriamo l'epopea noise della band italiana che dai piedi dell'Etna, come un vulcano, infiammò lo show BBC

Più di una volta mi sono domandato come sia stata percepita nel 1994 la chiamata di John Peel da parte degli Uzeda. L'ho fatto una volta di più l'altro giorno, alla notizia che Dave Strickson, sul suo blog Formally Known As The Bollocks ha iniziato a caricare, e mettere in ordine, le migliaia di Peel Session disperse per la rete. Un lavoro enorme, e decisamente necessario. Cui, per ora, manca la band catanese, tra le poche italiane ad avere l'onore di esibirsi per il dj e conduttore inglese. Per fortuna YouTube viene in nostro soccorso. 

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Ma torniamo alle elucubrazioni iniziali, e consentitemi un altro "viaggio". Nel suo metro e un puffo di statura, Glenn Anzalone, il Danzig noto a tutti come voce storica del culto-punk-per-antonomasia che prende il nome di Misfits, ebbe modo di sorprendersi quando, nel 1986, dopo una data al NY Music Seminary, venne importunato da Rick Rubin che, colpito dalle sue capacità come performer e vocalist, piombò nel backstage al grido di "Dobbiamo lavorare assieme!". Non a caso Glenn pensò che Rick fosse un po' scoppiato. Rubin aveva alle spalle produzioni con Beastie Boys e Slayer, il suo telefono suonava incessante, tempestato di proposte e richieste, eppure voleva assoldare lui; il terzo di quattro figli cresciuto a Lodi, misconosciuto quartiere del New Jersey, venuto su a pane e rock'n'roll, con un caratteraccio forgiato da fumetti della EC Comics e film di Romero. Ecco, non so voi, ma io immagino che la chiamata alle armi degli Uzeda alla corte di Peel nel 1994 sia stata per i Nostri un po' la stessa cosa.

Un misto di eccitazione e... "ma che cazzo sta succedendo?".

Nel corso degli abbiamo più volte parlato della storia "noise", iniziata nel 1987, di Raffaele, Giovanna, Davide, Giovanni e Agostino, fino alle più recenti incursioni musicali, ma la vicenda degli Uzeda "from Catania" (la Porta Uzeda si trova proprio in Piazza Duomo a Catania) negli studi della BBC vale la pena di essere ripercorsa da sola. Perché quella riguardante le registrazioni e il disco che ne seguì non è una memoria che pecca di fascino e aneddotica per essere considerata inferiore ai più celebri episodi del contratto con la Touch&Go o dell'incontro con Steve Albini. Tanto più che l'occasione ci viene data dalla stessa emittente radiofonica inglese che, proprio in questi giorni, neanche avesse assunto gli sceneggiatori di Boris, ha reso disponibili tutti i celebri Live at Beeb, compresi quelli degli Uzeda. Così, senza senso.

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Spiegoni a parte, spero che i granelli che andrò a ripescare nei ricordi possano restituire, almeno in parte, l'umore di quel tempo. Un tempo passato eppure vicino, uno di quei tempi dilaniati ed esplosi, ma che ancora ci sovrasta, malgrado si faccia percepire come disconnesso dalle cose che oggi influenzano le nostre vite e, per diretta conseguenza, i nostri ascolti.

"Possa tu vivere in tempi interessanti", recita una sofisticata maledizione orientale. E la prima metà degli anni Novanta furono un periodo musicalmente molto interessante. Il 1994, poi, fu un anno che definire di rottura per l'Italia non è più una frase fatta. In un universo dominato da Lorenzo 1994 di Jovanotti, uscirono Catartica dei Marlene Kuntz, Kò de Mondo dei CSI, Un Mondo Nuovo dei Disciplinatha, solo per dirne tre, e la loro portata sociale fu tale che, per dirne uno, il Sor Agnelli degli Afterhours drizzò le antenne e smise di ciancicare in inglese per (ri)debuttare in italiano, con Germi, l'anno dopo.

Gli Uzeda, invece, nel 1994 si conoscevano già da un po'. Vuoi per l'incessante attività dal vivo, vuoi perché Waters, seconda prova su disco dell'anno prima, aveva dimostrato una seria maturazione e generò un frenetico passaparola di certo non impensabile per quei tempi fatti di musicassette registrate come se non ci fosse domani. Il caparbio e se vogliamo ipnotico gioco delle chitarre di Agostino e Gianni, l'inte(n)sa ritmica di Raffaele e Davide e, soprattutto, l'ammaliante e onirico canto di Giovanna avevano un tiro micidiale e inusuale, capace di unire certa psichedelia mediterranea al jazz-core d'oltreoceano. Come se fosse la cosa più naturale possibile. Così l'ascolto degli Uzeda travolse me e molte altre persone, come poco altro ci aveva travolto prima.

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E visto che tutto il mondo è paese, pare che anche John Peel arrivò a loro in modo simile a quello di noi comuni mortali. Le cronache di allora, ossia le chiacchiere in macchina con lo stereo sempre acceso e riviste musicali ovunque, dicevano infatti che fu Emma Anderson dei Lush a parlargli di loro. Pensando che potessero piacergli, gli girò una cassettina perché la sentisse. Quando il loro promoter gli mandò i dischi, Peel si dimostrò già informato sui fatti e così, appena andarono in Inghilterra per il tour a maggio, vennero a sapere di essere già stati invitati per una registrazione. Sessione ancora oggi avvolta da uno strato di mistero. Già, perché pare che i ragazzi non incontrarono mai personalmente Peel e la cosa apparve fin da subito abbastanza strana, avendo dato tutte le loro date in anteprima al suo microfono, non risparmiando sinceri complimenti per la band.

"Fu una sensazione strana", ammisero poi i ragazzi in un'intervista. "Lo abbiamo visto in foto e abbiamo sentito la voce, ma non lo abbiamo mai incontrato. Per un po' pensammo di informarci, se fosse la prassi, ma alla fine abbiamo pensato che indagare fosse abbastanza stupido". Qualunque sia stata la ragione, gli Uzeda arrivano al centro di Londra, a Maida Vale, davanti un enorme plesso che conteneva al suo interno sette studi di registrazione. Pur portando il proprio fonico, lo stesso che aveva curato Planet Rock, trasmissione-concerto di Radio2 che trovate facile in streaming ancora oggi, venne lasciato fuori dalla regia, mentre alla BBC fu bene accolto per le sue dritte sia al tecnico del suono che al produttore.

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Questo senza nulla togliere sia alla professionalità che alla sensibilità dei tecnici inglesi. "Ci hanno messo tutti a nostro agio, raccontavano all'epoca "ci hanno offerto un caffè e si sono assicurati che fossimo sereni, perché ovviamente eravamo tesissimi. Quando si tratta di registrare non crediamo sia solo una ricerca della perfezione, badiamo anche al feeling che viene impresso su nastro. Ma là dentro tutto trasudava eccellenza, aumentando le nostre nevrosi".

Di sicuro più modesti che vanagloriosi, gli Uzeda trovano pace in ciò che gli riesce meglio: suonare. Sistemano gli strumenti, batteria compresa, e dopo avere mangiato e controllato la microfonazione per la ripresa cominciano a registrare. Dice la media delle testimonianze che i gruppi abbiano a loro disposizione sette o massimo otto ore comprensive di missaggio per registrare quattro brani. La realtà dei fatti, invece, ci dice che gli Uzeda registrarono quatto canzoni in venti minuti. "Iniziando a suonare, abbiamo raggiunto la nostra tranquillità", dissero rientrando in Italia. "C'era il nostro fonico, Mike Egles, il produttore, e Adam Askew, il tecnico, siamo stati tutti bravi e coesi. Così, quando il nostro fonico, timidamente, gli ha chiesto se potevamo far altri tre pezzi, loro hanno detto subito di si, fermo restando che anche gli altri brani sarebbero rimasti alla BBC".

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Tutte le canzoni finirono nelle mani di Peel praticamente subito e lui iniziò a passarli con una certa solerzia alla radio. Tanto che, neanche venti giorni dopo, non solo tutti i brani erano di dominio pubblico (sintomatico di un reale apprezzamento di Peel, come Undertones e Napalm Death ci hanno insegnato), con relativo secondo invito a novembre per registrare altri quattro brani, ma un'etichetta come la Cherry Red (Dead Kennedys, The Fall, etc.) fece capolino per proporgli un disco. E poco importa se poi, per altri motivi, non se ne poté fare nulla.

Il gatto in copertina del EP The Peel Sessions per l'inglese Strage Fruit (che da tempo si occupava della distribuzione delle registrazioni per la BBC) del 1994 fa il paio con il simbolismo astratto di 4, uscito l'anno dopo per Touch & Go, con Steve Albini in regia. Fu proprio un rito di passaggio, più che una zampata felina, quello del live at BBC per gli Uzeda. Non solo per l'abbandono di Giovanni poco dopo, che, inevitabilmente, ne farà cambiare approccio compositivo e suono complessivo, da lì in avanti per qualcuno più crudo e scuro, ma proprio in quanto tale.

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Il noto fa realmente saltare sulla sedia, It Happened There, Well Paid e Save My Snakes sono un concentrato sferzante al servizio della melodia, come di rado vi capiterà di sentire dal vivo. Nulla da invidiare a qualsiasi Gioventù Sonica. L'ignoto, se possibile, è anche meglio. Higher Than Me, messa per terza e poi ripresa su 4, assieme a Spread e Slow messe in chiusura allora erano ben tre inediti. Un EP coraggioso e inusuale per sua natura.

Che non si arrocca sul piano del già noto come quasi tutte le uscite in questo formato un po' ovunque nel mondo. Che quindi spiazza tutti. Un disco, di neanche venti minuti di durata, con ogni probabilità figlio delle contingenze e di una buona dose d'azzardo da parte degli Uzeda. Dimostrava l'esistenza di una realtà altra che faceva all'improvviso apparire mezza scena di casa nostra vecchia e finta. Studiata a tavolino e caricaturale. Soprattutto pavida verso qual si voglia slancio per potere funzionare all'estero.

Devo dire che questa idea mi ha accompagnato per diverso tempo. E oggi, quando mi capita di leggere un collega che usa a cazzo di cane l'espressione “tellurico”, appioppata a qualche tamarrata pensata male e suonata peggio, mi ritorna alla menta la voce di John Peel che nel 1994 presenta gli Uzeda come “il rock vulcanico dell'Etna”. La famosa classe che non è acqua.

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L'articolo Uzeda e John Peel: storia di un amore senza mai incontrarsi di giorgiomoltisanti è apparso su Rockit.it il 2020-05-20 15:11:00

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