Se il robot vuole diventare un musicista e il musicista un robot

La differenza fondamentale è tra riproduzione e interpretazione. I problemi arrivano quando le macchine cercano di emulare l'uomo, e viceversa

21/05/2020 - 10:01 Scritto da Vittorio Comand

Quando lo scorso 21 aprile è scomparso Florian Schneider, fondatore dei Kraftwerk, tutta la comunità musicale si è trovata orfana di un pioniere dell’elettronica, di un artista che ha gettato le basi per molti dei generi che hanno poi prosperato negli anni successivi. Ma per molti la band tedesca è stata qualcosa di più, l'inizio di una rivoluzione.

L’elemento innovativo dei Kraftwerk all’interno della musica pop, in quell’amalgama di frizzante creatività che era la scena musicale teutonica di fine anni ’60, nota in tutto il mondo come krautrock, è stato quello di enfatizzare il lato sintetico e digitale della musica, in un certo senso disumanizzandola per lasciare spazio alla tecnologia e alla potenza di calcolo del computer. Come loro stessi cantavano all’interno del disco The Man Machine: "Noi siamo i robot".

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Da quando i Kraftwerk hanno portato la loro rivoluzione nella musica, seguiti da nomi altrettanto grandiosi per spirito d'innovazione e sapienza nell'uso dei nuovi mezzi, la tecnologia si è evoluta in maniera che non sembrava neanche pensabile. Le prospettive che si moltiplicano nei settori tecnologici più avanzati, come AI e Internet of Things, sono a dir poco sorprendenti, piaccia o no a chi in questi giorni sbarra la strada alle reti 5G perché convinto di chissà quale complotto mondiale.

In musica vale lo stesso discorso, sia da un punto di vista compositivo/creativo, sia da quello esecutivo: le macchine offrono molti più strumenti di quanto Schneider e soci potessero disporre agli inizi, tanto che esistono ora effettivamente dei robot in grado di suonare. Ma possiamo davvero chiamare un robot "musicista"? La risposta è più complicata di quello che si può pensare, ed è centrale per il futuro della musica.

Tra le persone che si occupano di questo argomento c’è il maestro Roberto Prosseda, pianista legato al nome di Mendelssohn, del quale ha inciso l’integrale pianistica, comprendente 59 prime assolute. Dal 2012 Prosseda si trova spesso affiancato da un bizzarro collega: il suo nome è TeoTronico ed è un robot ideato da Matteo Suzzi e realizzato dalla TeoTronica di Imola, un piccolo laboratorio nella provincia di Bologna.

Roberto Prosseda al piano
Roberto Prosseda al piano

"Dovevo fare una conferenza sulla riproduzione rispetto all’interpretazione", racconta Prosseda, "e stavo pensando che sarebbe stato interessante avere un automa che suonasse sul palco, quindi, cercando su YouTube, mi sono imbattuto in TeoTronico". La funzione del robot sul palco assieme a Prosseda è quella di dimostrare la differenza fondamentale che c’è tra la riproduzione di un brano, quindi la funzione della macchina, e l’interpretazione, che invece è propria della sensibilità del singolo individuo che si trova a eseguirla.

TeoTronico è eccezionale nel senso che è in grado di "suonare" qualsiasi composizione che si trovi all’interno del suo database. E lo fa in maniera terribile. Ascoltare, per esempio, i Notturni di Chopin nella versione di TeoTronico è sgradevole perché si percepiscono la rigidità e la meccanicità che sono proprie dell’automa, quindi di una macchina che agisce senza la consapevolezza di quello che sta facendo. Da un certo punto di vista è impeccabile, nel senso che non c’è una nota fuori posto e l’errore non è proprio contemplato, ma è una perfezione puramente esteriore, senza una logica dietro.

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"Abbiamo sviluppato questa idea come una sorta di duello, riprendendo la tradizione dei duelli dei grandi pianisti, come per esempio tra Mozart e Clementi o tra Liszt e Thalberg, trasportandolo in quella che è la sfida più grande della nostra epoca, ossia quella tra uomo e macchina", continua Posseda.

Ma in cosa l’uomo è migliore rispetto alla macchina e cosa può invece imparare da essa? "Il rischio oggi è che l’uomo veda le macchine come un modello e che quindi finisca per emularle. Ci sono musicisti che puntano talmente tanto sulla precisione e sulla perfezione come se fossero di per sé dei valori, quando in realtà vanno sempre riferiti a un ideale espressivo, non a un task letterale. La partitura stessa non è un modello, è un canovaccio, è un modo per arrivare a un’idea artistica e poetica".

Concetto che, per definizione, manca a un robot. Ed è grazie a questa differenza sostanziale che l’uomo rimane al centro della musica. "La differenza non la facciamo più nella precisione, ma nelle intenzioni: la macchina non sa sbagliare volutamente, cercare alternative, andare oltre gli schemi precostituiti. Anche le macchine stanno imparando a cambiare. Con le intelligenze artificiali che si evolvono sempre più velocemente, stanno imparando a imparare. E noi, a nostra volta, ci adeguiamo".

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L'articolo Se il robot vuole diventare un musicista e il musicista un robot di Vittorio Comand è apparso su Rockit.it il 2020-05-21 10:01:00

COMMENTI (1)

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  • pons 4 anni fa Rispondi

    un automa che suona il piano è in fin dei conti come ascoltare una base midi.