Baby K e Ferragni: se fate spot e non musica, è bene dirlo

"Non mi basta più" segna un nuovo capitolo nel rapporto tra pubblicità e canzoni, e ormai è chiaro chi tra i due comandi. Quasi quasi ci facciamo uno shampoo

Come sanno anche i sassi millenari, dopo queste giornate di bombardamento, uno dei tormentoni dell'estate 2020 è Non mi basta più, la canzone di Baby K col featuring di Chiara Ferragni, che per la prima volta prova se stessa nel ruolo di cantante. Abbiamo già parlato nel pezzo dedicato a tutti gli obbrobri latini che ha partorito l'estate del Covid e questo, musicalmente, non fa eccezione. 

Come da programma, l'inizio è affidato alle parole "Baby K", sia mai che la cantante dimenticasse come si chiama. Poi via con la base reggaeton e un autotune che farebbe suonare intonato anche il raglio del ciuco: ci sono le parole in spagnolo buttate lì un tanto al chilo, c'è l'esibizione della ricchezza alla faccia dei cassintegrati affamati di lotta di classe, c'è la poetica "questa notte dobbiamo fare tutto perché potrebbe essere l'ultima", c'è la parola mare, c'è un contributo infinitesimale della Ferragni, che si invola in un flow tanto elementare quanto guastante l'umore. Ci sono i capelli splendidi delle due, e ci mancherebbe.

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Piccolo disclaimer, prima della pioggia di Ok boomer: anch'io che sono un cavernicolo ho guardato il documentario Unposted di Chiara Ferragni, ritenendolo istruttivo e gradevole. Mi è piaciuta la prima parte molto rivoluzionaria, in cui Chiara afferma che  la moda è stata sempre elitaria, mentre lei è riuscita a entrare e a valere quanto e a volte più dei brand che la cercano, creando un impero dal nulla. Chapeau.

Qui, però, parliamo di musica e, a meno che non siamo tutti vittima di un fraintendimento generale, quella che stanno proponendo è una canzone. Dunque, dal momento che entrambe sono testimonial Pantene, il piano è tanto elementare quanto fallace: creare una canzoncina a pronta presa, che parli delle cazzate dell'estate, infilandoci il nome del brand in una rima e mettendo un corbello di prodotti per capelli in piena vista nei primi 30 secondi del video. Un jingle pubblicitario, più che una canzone. Operazione che si basa su un assunto un po' gratuito: gli italiani devono essere dei coglioni. Che poi, a pensarci bene, qualcun altro che a sua volta si era occupato (con altri esiti) di cura dei cappelli in fondo lo aveva sempre dubitato. 

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Coglioni di due tipi: quelli che non si accorgono – o non si interessano – della palese marchetta vestita da canzone e quelli, pericolosissimi, che ti fanno sentire sbagliato perché cerchi dalla musica un po' di musica, dicendoti che oggi va così, che questo è il business del futuro, che vince chi ce la fa da solo e altri insopportabili slogan. Ma qui la sensazione è che si sia andati un po' oltre. D'altronde, dopo il centesimo riferimento alla marca di shampoo, come Fantozzi di fronte agli scaffali pieni di pane, alla lavatrice piena di pane, agli armadi pieni di pane, uno qualche domanda se la fa.

Da queste parti non ci scandalizziamo certo per le commistioni tra arte e pubblicità, sono soldi che girano. Abbiamo già visto in tempi recenti Cara Italia di Ghali diventare il tormentone di Vodafone e la canzone per il figlio di Fedez e Ferragni diventare immediatamente lo spot Samsung. Ci sta, ci fai due battute e vai avanti. E invece è tempo di farci su una pensata, forse.

Quando guardiamo una pubblicità, sappiamo che è una pubblicità. Insomma, ne è passato di tempo dal Carosello, no? Quando guardiamo un video su YouTube o su un altra piattaforma ed è preceduto dalla pubblicità, questa viene segnalata e addirittura viene data la possibilità di skipparla dopo qualche secondo. Su Instagram, gli influencer devono dichiarare sponsorizzato il contenuto che parla dei brand, i programmi televisivi o i film che mostrano prodotti di consumo hanno in sovraimpressione un avvertimento, che chiarisce al pubblico la natura commerciale dello show. Forse a volte non è abbastanza, ma per lo meno le regole del gioco sono queste e dentro quei confini si sta.

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Ora, senza voler fare l'associazione consumatore, analizziamo la questione Non mi basta più. La canzone di Baby K ha un disclaimer nella descrizione su YouTube. Va trovato con una lente parecchio grande, ma ce l'ha, quindi onore almeno alla forma. Ma quando passa per radio? Quando viene mandato il video in tv? Di fatto è una pubblicità e andrebbe trattata come tale, sempre.

Se prendiamo Cara Italia di Ghali e si analizzano un po' le tempistiche di release e quelle in cui diventa uno spot tormentone per una compagnia telefonica, si può dedurre anche senza troppa malizia che probabilmente il pezzo era nato con un accordo già in tasca con l'operatore. Ma quella è una canzone vera, e se ci sono product placement, per lo meno, sono molto ben nascosti. Qua si passa allo step successivo, all'ingerenza che diventa fondamento stesso della musica

Siamo abituati al postmoderno nelle canzoni, e questo paradossalmente favorisce e dà spazio a operazioni come questa. Dal rap all'itpop, i prodotti commerciali vengono citati in continuazione e non è neanche una novità, se si pensa a quante volte Vasco Rossi canti "Coca Cola" in Bollicine, datata 1983. Qui però, presumiamo, le ragazze sono pagate per fare il loro mestiere di influencer, all'interno di una canzone. Nessuno, vi giuro nessuno – nemmeno il destino – è pronto per una decina di canzoni pubblicitarie in heavy rotation, quando il mondo è allo sfascio. "Un Paese di musichette mentre fuori c'è la morte".

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Ancora più importante: se è una clip pubblicitaria, e lo è, che venga segnalata più chiaramente. Non è un gran momento per la musica e siamo convinti che solo ripartendo dall'arte potremmo salvarci, ma il tempo dei readymade ricontestualizzati di Duchamp e delle opere riproducibili di Andy Warhol è stato tanto rivoluzionario quanto passato. Il giro è stato completato, abbiamo mostrato che si può vendere qualsiasi cosa usando qualsiasi mezzo.

Ora, il modello del denaro facile e della bellezza esteriore come valore assoluto non funziona più, e funzionerà ancora meno col brusco "risveglio economico" che ci attende a settembre. Non per fare il menagramo dei film dell'orrore, quello che intima ai campeggiatori di non andare a Crystal Lake perché c'è un mostro col machete, ma giusto per voler vedere più avanti del prossimo aperitivo, vi lascio con qualche domanda: è questo il destino della musica? Che s'imparenti con la pubblicità o che muoia male? 

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L'articolo Baby K e Ferragni: se fate spot e non musica, è bene dirlo di Simone Stefanini è apparso su Rockit.it il 2020-07-15 10:24:00

COMMENTI (2)

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  • nookiem 4 anni fa Rispondi

    Sembra quasi assurdo, eppure...vi ricordate il film "Demolition Man" con Stallone, Snipes e la Bullock? il film era ambientato in un futuro dove non esisteva più la criminalità, dove venivi multato anche solo per una parolaccia, ma soprattutto dove l'unica musica che era possibile ascoltare erano i JINGLE PUBBLICITARI...a pensarci dopo aver letto l'articolo, in effetti, mi vengono i brividi...

  • manmatteo 4 anni fa Rispondi

    Io, che penso di avere la stessa età dell'autore, da ragazzino a inizio 2000 aspettavo la canzone del Maxibon e la canzone della Vodafone per sapere quali sarebbero stati i tormentoni. Insomma, non vedo cosa ci sia di tanto nuovo qui.