Speranza: "Con la musica cerco il riscatto, non la gloria"

Caserta, il Texas e Milano. La rabbia verso ingiustizie e discriminazioni. I soldi e i valori. Il dialetto e l'italiano. Ma soprattutto lo yodel. Dal barbiere assieme al rapper campano, che ha pubblicato il suo primo disco "L'ultimo a morire"

Tutte le foto di Speranza nel servizio: Giulia Cortinovis per Rockit
Tutte le foto di Speranza nel servizio: Giulia Cortinovis per Rockit

"La riga qua sopra è tipica del Sud, mi ricorda casa. Quella laterale, invece, è per rappresentare il mio rione in Francia, che lì ce l'avevano tutti. Vuoi dargli un nome? Chiamalo taglio Speranza". Ugo Scicolone chiude la porta salutando con calore il suo barbiere di fiducia di origini marocchine, che non fa una piega quando lo vede tirarsi sopra il naso una stilosissima mascherina con la bandiera dell'Algeria. 

Siamo in viale Monza, all'altezza della fermata Pasteur, zona Nord-Est di Milano. Qui – come alla Barona, in Bovisa e in tutte le altre aree periferiche o semi-periferiche della città – il capello curato è una specie di culto. I barbieri, gestiti spesso da nordafricani, hanno le sale d'attesa sempre piene e vanno avanti a lavorare fino a tardi la sera per smaltire le prenotazioni. Razor Fade, Ivy League, Crew Cut e mille altri: basta alzare la sfumatura di pochi centimetri, o mettere l'immancabile riga da una parte o dall'altra della capoccia, che cambia il tipo di taglio. "Farebbe ridere se uno andasse dal barbiere e dicesse che vuole i capelli come Speranza", dice, "speriamo che non succeda".

Abbiamo attraversato la strada e siamo nel dehor di un bar gestito da una famiglia cinese. "Quando vengo a Milano sto sempre in viale Monza", dice Speranza, ordinando una 0.33. "Mi piace perché è una zona del popolo, mi ci trovo bene".

Viene da Caserta, la terra di suo padre, dove è tornato anni fa dopo essere cresciuto in Francia a Behren-lès-Forbach, non distante da Strasburgo e dal confine con la Germania. Milano sta diventando la sua terza casa, perché la nuova vita da rapper e il successo gli impongono di passare sempre più tempo da queste parti. Per ora si sposta da un appartamento di Airbnb a un altro, e a Caserta c'è sempre il suo lavoro da manovale ad aspettarlo. "Fare il pendolare non mi pesa: per una vita ho fatto per cinque volte all'anno Behren-Caserta in pullman, lì erano 22 ore altro che cinque di Frecciarossa", spiega.

Certo, da oggi le cose potrebbero cambiare. Perché dopo tanti singoli caricati su YouTube e divenuti virali grazie al passaparola – da Sparalo!, pubblicato nel giugno del 2017 e successivamente remixato da Crookers, alle hit Chiavt a Mammt Spall a Sott, passando per Givova o Manfredi –, oggi Speranza esce con L'ultimo a morire, debut album pubblicato per Sugar.

Un disco di 14 tracce, su cui Ugo rappa in italiano, dialetto casertano e francese, parlando di vita di strada ed emarginazione, denuncia sociale e multiculturalità. Le produzioni sono varie, a dare corenza è la voce urlata – ma decisamente più modulata e meno uniformemente rabbiosa che in passato – di Speranza. Le collaborazioni con Skinny, Crookers, Don Joe, Simoo, Maiole e tanti altri dà vita a basi '90 e altre che occhieggiano al funk, suoni più latini e altri che richiamano alla cultura rom e sinti, da sempre una delle stelle polari del musicista, come ha dimostrato nel side project Ugo de la Napoli e come ora conferma la presenza nel nuovo disco di Rocco Gitano, nome storico della musica "gipsy-napoletana".

Il suo feat. in L'ultimo a morire è uno dei più inaspettati e quindi più goduriosi, al resto pensano le barre dell'amico Massimo Pericolo, di Tedua e Gué e del francese Kofs. Tutte acquistano un senso dopo un paio di ascolti, non c'è indulgenza da parte di Speranza alla logica della moltiplicazione degli stream con le collaborazioni di peso. Ed è un conforto. Al tavolo arriva un'altra Peroni, accendiamo il registratore. 

Quindi, ti toccherà prendera la residenza in viale Monza? 

Lo deciderà la gente. Se spingeranno il disco, che avrà successo, io sono pronto a iniziare una nuova vita, a mettere ancora più impegno nella musica. In tal caso dovrò decidere che fare con l'altro lavoro, sono pronto a tutto. 

Come stai vivendo la pandemia?

La paura addosso ce l'abbiamo tutti, ma penso che i rapporti umani siano troppo importanti. Indosso la mascherina – questa dell'Algeria l'ho ordinata online durante il lockdown, in un momento di noia – e mi disinfetto sempre, ma le mani devo stringerle, non si può rinunciare del tutto al contatto. 

Come ti pare la Milano del virus? E come sta reagendo Caserta?

Milano la trovo molto cambiata: la gente mi pare provata da quello che è successo, ed è molto rispettosa delle regole (mentre lo dice, passa un'ambulanza a sirene spianate, ndr). A Caserta, se da un punto di vista medico la situazione è stata meno grave, la crisi economica è devastante. La città sta morendo ogni giorno un po' di più: metà dei locali sono chiusi, c'era già la gente sul lastrico prima e figuriamoci ora. 

Ora sei ufficialmente un artista? 

No, e manco un rapper. Sono solo uno a cui piace raccontare la realtà che vive, e quella della sua gente.

Perché hai fatto un disco?

Perché mi sembrava un'evoluzione necessaria rispetto al mio percorso. Volevo fare un disco vero, non mettere assieme un po' di canzoni come fanno in tanti oggi. Un disco anche fisico, che per me deve tornare a essere un po' sacro. Ci ho buttato il sangue in questo lavoro, con pochi mezzi e tanta voglia. Ora sono contento. 

Cosa volevi dire di te stesso con questo album?

Che ho varie sfaccettature, come tutti. Ce ne sono alcune che le persone non avevano ancora conosciuto, e ho voluto mostrarle. Dopo tanta rabbia, ci ho messo dentro ironia, nostalgia, anche un po' di cazzeggio.

È un disco meno incazzato o diversamente incazzato?

La seconda. Ho voluto tirare fuori altri lati di me, ma la rabbia e il disagio rimangono tutti. Solo che a un certo punto mi sono detto che stare sempre incazzato con la vita non serve a nulla, e pure dalla merda si possono tirare fuori i fiori. 

Cosa hai chiesto ai tuoi produttori?

Nulla. Il patto che ho fatto con loro era che ognuno facesse quello che voleva, in totale libertà. Volevo produzioni il più diverse possibile, per tirare fuori parti differenti di me e per dimostrare di essere in grado di rappare su ogni base. 

Il lockdown ha condizionato molto il lavoro?

A me è andata tra virgolette bene, perché ero in piena scrittura. E quel "sequestro" in casa mi ha dato più tempo per scrivere: in quei mesi non ho fatto altro che scrivere e comprare mascherine online.

Come sempre accade con i tuoi pezzi, non posso dire di aver capito tutto quello che dici. Mi perdo molto?

Va bene che non tutti capiscano, voglio che la gente non abbia più la musica servita. Io sono cresciuto che se non capivo le parole di una barra me le andavo a cercare. Magari non c'era nemmeno Internet, ma in qualche modo le trovavo.

In base a cosa scegli in che lingua rappare?

Viene da sè: me la sento in un determinato modo e canto in quella lingua. Non c'è nessun criterio tipo "questa parte la faccio in francese" o altro. Sto con la penna in mano e le parole mi vengono in un certo modo.

Rispetto al passato ci sono numerose parti in italiano: diranno che Speranza vuole fare i big money.

Qualcuno lo dirà sicuro e meno male, perché senza critica sarebbe una dittatura. Ci ho messo più italiano perché sentivo l'esigenza di parlare in maniera più chiara a persone che fino a ora mi hanno dato fiducia capendo ben poco di quello che dicevo. E poi da quando bazzico a Milano ho ricominciato a parlare in italiano, e l'ho buttato nella mia musica.

Ritengo che tu sia uno degli artisti più politici che ci siano in circolazione oggi, e so che la cosa ti crea un po' di turbamento. Però te lo dico lo stesso.

Uno può pensare delle cose senza per forza essere schierato.

Ma citare Gaza, come fai tu in Casertexas, è una cosa che non si sentiva più dai tempi dei 99 Posse. Vorrà pur dire qualcosa?

Io parlo di Gaza perché quando vedo la gente soffrire mi tocca, potevo parlare del genocidio armeno o di altre oppressioni. Di merda in giro ce n'è un sacco, e se da una mia canzone qualcuno si prende la briga di informarsi un po' e prendere coscienza di quel che accade nel mondo è solo un bene. 

Anche il tuo approccio multiculturale è di fatto politico, oggi.

No, è solo che sono nato in un contesto internazionale. Ho amici fraterni polacchi con cui ho vissuto cose indimenticabili, quindi parlo di loro e magari uso pure parole nella loro lingua. Se decidessi di farlo dopo uno studio a tavolino sarebbe una forma di razzismo positivo, come quando i politici mettono uno di colore al senato per dire che includono tutti. In Francia succede sempre. 

Che mi dici dei riferimenti alla cultura rom? Di loro non parla bene mai nessuno o quasi, neanche a sinistra. 

Ed è un atteggiamento che fa schifo: abbiamo persone nate in Italia da altre persone nate in Italia e che vengono dimenticate pure da Cristo. I rom sono il nemico in comune che fa comodo a tutti, sembrano gli ebrei del passato. 

Che cos'è "Casertexas"?

È la nostra terra, che è molto diversa dalle altre della Campania. Abbiamo una provincia immensa, come il Texas, la gente armata in casa, l'omertà, il folklore, e capitano sempre cose assurde. Per questo l'ho sempre vista un po' come il Texas.

C'è pure il rodeo?

Ci sono le corse abusive dei cavalli. Va bene uguale?

Detesto la logica dei feat. nel rap, ma non ho nulla da contestare ai tuoi. Come hai scelto?

Ogni feat. del disco ha un senso, non c'è scopo di lucro. Guè mi ha spinto dall'inizio, quando non ero nessuno, e ho voluto suggellare questa cosa. Pure Tedua è sempre stato un signore, e ci tenevo. Con Massimo Pericolo c'è un'amicizia che va al di là del rap. 

Kofs, invece, lo conosciamo meno. Chi è?

Un rapper molto forte di Marsiglia, una città che ha molti punti in comune con la Campania. Sono multietnici come noi, mediterranei, parlano dialetto e anche a loro bolle facilmente il sangue.

La hit per me è Takeo Ischi, il pezzo con Massimo Pericolo. Se non altro perché mi ha aperto un mondo: quello dello yodel. 

Takeo Ischi è il mio mito, un giapponese tra i migliori interpreti al mondo dello yodel. In Francia vivevo a pochi passi dal confine con la Germania e questi suoni, anche se può sembrare strano, li ho sempre ascoltati, e mi piacciono . A casa non sento rap: metto musica rumena, tirolese o cose così, perché mi rilassa. A un certo punto scopro questo personaggio incredibile: un giapponese che suona lo yodel, e ci perdo la testa. Con Vane (Massimo Pericolo, ndr) abbiamo delle chat su WhatsApp in cui ci scambiano un sacco di deliri notturni e a un certo punto siamo andati in fissa con Takeo. Così quando si è trattato di fare il pezzo, abbiamo voluto dedicarglielo. Anche perché io mi riconosco parecchio in lui: sono uno che si adatta, se vivessi in Germania probabilmente anche io inizierei a suonare il corno. Anzi non si sa mai che un giorno, a 50 anni, mi sveglio, mi domando "ma che cazzo devo fare con sto rap" e mi ritrovo a cambiare vita e a suonare qualcosa di completamente diverso. 

Dopo Ugo de la Napoli potresti provare con il metal cambogiano.

Mi pare una grande idea, per altro Takeo Ischi suona anche con gruppi metal e fanno paura. 

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Tornado alle rime, nel disco c'è molta vita di strada. E qualche reminescenza di "coca rap".

È la gente con cui vivo che mi ispira, e purtroppo ce n'è tanta che parla così: "uè, ci andiamo a drogare", "o' crack è buono". La situazione è triste, io la racconto e cerco di renderla un po' ironica nei miei pezzi. 

Nel disco è come se ogni tanto ricordassi a te chi sei e da dove vieni, con le autocitazioni da Chiavt a mammt e Spall' a sott.

Lo faccio sempre nelle mie canzoni: inserisco piccole parole che ritornano, come per incatenare il passato. Sono dei memento. Per Chiavt a mammt è la prima volta: non lo avevo mai fatto perché volevo allontanare il fenomeno trash che volevano ricamare su di me a partire da quella canzone. Rifiutavo lo stereotipo che volevano farmi diventare e così l'avevo un po' messa da parte, ma quello è un brano importante per me. Ha un significato e una storia precisi. 

Qualche tempo fa c'è stato un dibattito sul modo in cui rap maschile rappresenta la donna, le parole che usa nei confronti dell'altro sesso. Massimo Pericolo nel suo pezzo canta "metto il cazzo come metto i like". Perchè parlate così?

Io non lo faccio, non è arte mia. Ma penso che Vane debba poter essere libero di farlo, e che non voglia offendere nessuno. Anche le donne che fanno rap dicono le peggio cose contro gli uomini.

Permetterai che non è la stessa cosa, contano sempre i pesi e le proporzioni. E nel rap, e non solo lì, il dominio dei maschi è indiscutibile

Per me oggi c'è abbastanza uguaglianza, non c'è più il dominio maschile.

Il rap parla a milioni di persone e a tanti giovani, con cui le altre categorie fanno fatica a comunicare: deve limitarsi a ricalcare la realtà che viviamo oppure può avere la pretesa di mandare dei messaggi?

Noi mettiamo a disposizione del materiale, ma la gente si deve educare da sola. A me arrivano mille informazioni al giorno, che devo filtrare e tirare fuori il meglio. Se tutti iniziassero a pensare con la propria testa, sarebbe un grande passo in avanti. 

Qual è la prossima bandiera che porterai sul palco, quando si potrà tornare a farlo?

Magari quella curda, un popolo che soffre ed è tempo che abbia la sua indipendenza.

Speri di fare i soldi con il rap?

Io punto al riscatto, non al possesso e nemmeno alla gloria. Spero che questo disco sia un passo avanti, ma fare un passo indietro non mi farebbe alcuna paura. Ci sono già passato dal non aver nulla. 

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L'articolo Speranza: "Con la musica cerco il riscatto, non la gloria" di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-10-16 13:23:00

Tag: rap album

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