Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema

Il collettivo veronese C+C=Maxigross non ha pubblicato il suo ultimo disco "Sale" su Spotify, perché "quando non hai nulla, non hai nulla da perdere". Da qui partiamo per una riflessione sulla musica oggi e quella di domani, di ieri e disempre

Una è un'istituzione della musica e della cultura dell'Italia e di Verona, l'altra è l'Arena
Una è un'istituzione della musica e della cultura dell'Italia e di Verona, l'altra è l'Arena

"When you ain't got nothing, you got nothing to lose". Tra le tante cose che ho capito di me ascoltando Bob Dylan, questa è una delle più preziose: tutte le volte in cui non riesco a essere ciò che vorrei essere è perché nel tentativo di diventare ciò che mi aspetto da me stesso rischierei di perdere qualcosa, e questo mi frena. Succede praticamente sempre, ogni giorno. 

Per questo ho sempre stimato, e invidiato, chi ha il coraggio di fare scelte, o anche solo avere idee radicali. Non i furbi con il paracadute sempre aperto sotto e la exit strategy a disposizione. Quelli che rischiano quello che hanno, perché sentono di non avere nulla che valga la pena conservare a tutti i costi. Quando le cose poi cambiano, di solito il loro contributo è stato determinante

Per questo ho provato stima, e pure invidia, quando ho letto il comunicato che accompagnava l'uscita del disco dei C+C=Maxigross, collettivo musicale veronese attivo dal 2008. A meno di un anno dal loro precedente album, Deserto, la band annunciava il nuovo lavoro, Sale. L'album è bellissimo, 9 tracce di pop primitivo e psichedelico il giusto, che ci ci ricorda che è bene godersi ogni momento mentre fuori c'è la tempesta.

Il disco è disponibile solo per l'acquisto su Bandcamp, senza caricamenti su Spotify o altre piattaforme streaming. "Come funzionava fino a dieci anni fa", si legge sul portale del gruppo, "quando compravi un cd nel tuo negozio di dischi preferito, perché crediamo fermamente che senza fiducia non si possa stabilire nessun rapporto e nessuna relazione sana e duratura. Noi facciamo Musica, per noi e per voi. Se vi va di sostenere il progetto e vi piace quello che facciamo o che esprimiamo, non abbiamo bisogno di views, likes o condivisioni di post. Abbiamo evidentemente bisogno che COMPRIATE la rappresentazione della nostra Arte".

Non c'è nulla di retrogrado, antistorico, né tanto meno egoista o liberticida in questa scelta. Forse c'è una tendenza suicida latente, ma questo è un altro discorso. Al contrario, in questo encomiabile tentativo se non "di fermare il vento, per lo meno di fargli perdere tempo" (semicit. Fabrizio De André, così copriamo anche la quota tricolore) c'è tutto il coraggio di chi dice che le cose così non hanno più alcun senso, per cui tanto vale chiamarsi fuori. "Questa non è una rivoluzione. È semplicemente una Realtà tra le tante", scrivono i C+C sul loro sito. 

Qualche tempo fa, quando il terrore dell'ignoto ci faceva disinfettare le buste dei cetrioli del Dì per Dì e tutti provavamo a raccontarci quanto la scena musicale si fosse finalmente stretta attorno a se stessa, Tobia Poltronieri, membro del collettivo C+C Maxigross, ci aveva inviato un suo ragionamento. Era davvero molto interessante, e davvero molto lungo. Feci la cazzata di seguire il manuale, e gli chiesi di ridurlo per poterlo pubblicare. Ne uscì un articolo davvero bello e prezioso, intitolato "La musica vivrà per sempre, è il sistema che muore". Sul sito della band c'è la versione completa della riflessione, il mio consiglio è leggere quella.

Art promozionale di 'SALE', a cura di Noemi Trazzi
Art promozionale di 'SALE', a cura di Noemi Trazzi

Nelle settimane successive, almeno nella mia bolla di onanismo, il pezzo girò parecchio. Tantissimi si dissero d'accordo con Tobia e il suo punto di vista, sulla necessità di fare qualcosa per rivoltare un sistema musicale sempre più decadente e ingiusto. Parole, ovviamente, ma nessuno pretendeva qualcosa di più. Credo che alcuni quelli che mi hanno contattato per congratularsi o chiedere informazioni sul pezzo, soprattutto in ambito giornalistico, fossero attratti soprattutto dal profilo di Tobia, che nell'articolo raccontava di aver abdicato dopo anni all'ambizione di fare il musicista a tempo pieno e ora fa il rider in bici per le strade della sua città. "Questa sembra proprio una storia", devono aver pensato. E io con loro. 

Tobia non è un nuovo lumpen della musica e non è nemmeno un'artista irriducibile, un radicale che non sa vivere in altri modi. È una persona che vive la complessità e che rifiuta di fare aprioristicamente ciò che fa la maggioranza delle altre persone. Ci scambiamo messaggi per tutto il giorno, come due innamorati in Erasmus o due fantallenatori alla vigilia del campionato. E io che ero convinto avesse uno di quei cellulari da spacciatori su cui non puoi scaricare WhatsApp. 

L'intervista – Tobia è d'accordo nella pubblicazione delle nostre chat WhatsApp, abbiamo scelto questa modalità nella speranza che vi arrechi fastidio – è avvenuta una settimana fa, nel frattempo la cifra è sicuramente aumentata. "Con Spotify ci avremmo messo una decina di anni ad arrivare a quella cifra: sembra assurdo ma è così", spiega. "Le piattaforme di streaming a pagamento 'classiche' hanno una retribuzione a nostro avviso scriteriata, per questo abbiamo scelto di percorrere altri sentieri. La nostra esperienza, al momento, dice che se chiedi alle persone di darti fiducia in maniera sincera e diretta qualcosa succede. Un centinaio di persone che ciecamente ti danno dieci euro per noi sono un miracolo: un bellissimo gesto e un forte segnale che ci spinge sempre di più a credere che in questo momento sia importante trovare nuove rotte".

Le rispostw alle successive domande mi interessano parecchio, potrebbero essere decisive per misurare il tasso di naïveté dell'interlocutore, la sua eventuale spocchia e il valore di pura testimonianza dell'operazione. Quanta gente in meno pensate abbia avuto accesso alla vostra musica per via della vostra scelta? Non siete dispiaciuti di aver tagliato fuori qualcuno? "Secondo noi abbiamo semplicemente consolidato pubblico e ascoltatori", dice Tobia.

"A noi", prosegue, "non interessano la quantità, ma la qualità: meglio 100 ascoltatori attenti e convinti della bontà del tuo prodotto, che 1000 distratti e sparpagliati in mezzo alla giornata. L'illusione che affacciarsi su un portale come Spotify o YouTube dia uguali possibilità a tutti è diffusissima, come se automaticamente il Mondo ascoltasse un pezzo solo perché è caricato. Il mercato, naturalmente, ci gioca: basta guardare le promo di Spotify, in cui citano di continuo i milioni di utenti, i miliardi di ascoltatori. Ci si ferma lì, ai numeri". 

Concerto al Labirinto della Masone 17/8/19 - di Stefano Bellamoli
Concerto al Labirinto della Masone 17/8/19 - di Stefano Bellamoli

Ricordo una vecchia campagna antidroga – vado a memoria, magari non era così – in cui si spiegava che il momento che ti frega è quello in cui dal perché fare una determinata cosa passi a chiederti perché non farla. Per liberarsi della dipendenza bisogna poi tornare al "perché lo sto facendo?". Ce lo chiediamo in pochi e spesso non ci diamo il tempo di elaborare la risposta, convinti come siamo che il nostro cervello abbia i giga limitati. 

"Per quanto riguarda Spotify, un sistema per noi non vantaggioso né equo, ci siamo chiesti: 'è veramente l'unica possibilità?'. La risposta è stata 'no', e così abbiamo cambiato. È stata una scelta attiva, al contrario della passività di rimanere su quelle piattaforme nonostante non ci si senta a proprio agio. Se per un qualsiasi motivo tra un mese, una settimana, un anno, ci verrà voglia di caricarla, lo faremo. In maniera cosciente. Non esiste autorità al di fuori di te stesso". 

Dico a Tobia che, per caso, pochi minuti prima di avviare la chat avevo scoperto – ovviamente sui social – che in quel giorno cadevano i dieci anni dall'uscita del film The Social Network, uno dei primi casi in cui al santino del Mark Zuckerberg si sovrapponevano i suoi aspetti da avido stronzo mitomane (in un rapporto 1 a 9). "Gran film. Quando Mark dice 'Facebook non dovrà morire mai', o qualcosa del genere, pensa alla creazione di un bisogno che fino a quel momento non c'era. Per non morire la piattaforma ha sempre bisogno dell'interazione delle persone, inventandosi ogni giorno un motivo per fare sì che la gente non si stacchi da essa". 

Il ragionamento si è spostato sui social network, ma è del tutto trasferibile a quello sulle piattaforme di streaming. E, in generale, a tutti quegli strumenti digitali di cui oggi pensiamo di non poter fare a meno, soprattutto se abbiamo la velleità di condividere qualcosa per noi importante con il prossimo. "Io sono solo molto convinto che ognuno debba trovare la sua strada personale, unica e non replicabile. Ecco perché i social sono un limite, se utilizzati adattandosi a loro". 

Gli dico che mi sembra un tipo troppo intelligente per avere la presunzione di usare i social network e non esserne usato. "Certo che avviene. Ma prendo delle precauzioni: io, noi C+C, usiamo i social solo perché ci servono a trasmettere un messaggio, e solo se ci troviamo a nostro agio. Almeno provo a veicolare dei messaggi per 'uscire' da quel meccanismo. Noi con-viviamo con i social cercando di slegarci sempre di più da essi: se un giorno dovessero bruciare i server di Instagram e TikTok, noi ci saremmo ancora mentre altri sarebbero perduti". 

Il mio Fricchettone Alert inizia a vibrare, e non ha ancora sentito nulla. "Ricordiamoci che la musica 'registrata' e quindi trasportabile meccanicamente su supporti, prima fisici e ora digitali, esiste da un secolo circa. Ma la musica in sè esiste da millenni e millenni, come la Natura. Ecco io credo in questo". Mi assicuro che non sia uno di quelli che fanno le docce nel latte di yak, o ancora peggio, uno da Congresso della Famiglia, che a Verona non si sa mai.

"L'Arte per me è il mezzo di espressione che l'Uomo ha trovato per avvicinarsi alla Natura, per talvolta imitarne la Bellezza ed entrarne in comunicazione. Da questo punto di vista la musica registrata è già un compromesso, molto interessante e comunque bellissimo, da lì ad arrivare allo sfruttamento da parte di Spotify o a investire energie creative per un videino su TikTok, beh è qualcosa di molto lontano dai nostri interessi".

Ci lasciamo per qualche ora, giusto per fare sbollentare un po' le pippe mentali che ci siamo tirati. E arriviamo al concetto chiave, quello che nessuno potrà mai esprimere bene quanto Bob Dylan. Se da un punto di vista ideale ed ideologico tutte le cose che Tobia ha fin qua detto sono condivisibili al 180%, sul piano pratico c'è un'esistenza da affrontare, fatta di giorni che passano, di sopravvivenza, di obiettivi cui avvicinarsi, di piatti di pasta da mettere sul tavolo per sé e spesso altri e di soddisfazioni da togliersi in un arco di tempo che mediamente, almeno qui in Italia, è di 83,24 anni

Ci interrompiamo di nuovo un istante. Un suo conoscente è salito a casa sua, per prendere due vinili di Deserto, il precedente disco dei C+C=Maxigross, pubblicato nel 2019. "Pazzesco", dice Tobia. "E pensare che quello è l'album che ha cambiato tutto: è stato un meraviglioso disastro da ogni punto di vista".

Era costato oltre 10mila euro per realizzarlo, tra noleggio di studi, professionisti e attrezzatura, e aveva generato ricavi per meno di 2mila ("abbiamo venduto 80 vinili: sì, esatto, solamente OTTANTA vinili a 20 euro l’uno"). A questo si aggiunga l'emergenza Covid, che ha interrotto il tour della band dopo appena sette live. "Se qualcuno si sta ancora chiedendo del perché non stampiamo un nuovo costosissimo vinile e non mettiamo la nostra musica comodamente ascoltabile attraverso una piattaforma di streaming con un abbonamento mensile da 8 euro che vanno in tasca solamente ai Coldplay e a chi totalizza migliaia di milioni di ascolti, speriamo di aver spiegato al meglio in che momento della nostra vita ci troviamo", si legge sul sito dei C+C.

Tutti hanno paura di cambiare, ma quando non ci sono più nemmeno le briciole il salto fa meno paura. "Nel 2019 avevamo già perso tutto, poi la pandemia ha raso al suolo ogni cosa rimasta. Ogni certezza. Dunque ora ci stiamo costruendo la nostra strada. È un'occasione preziosissima, inestimabile, che un anno fa non avrei neanche potuto lontanamente sperare. Proprio perché non ero la persona che sono ora", racconta ora Tobia Poltronieri. 

Studio Tega, la casa-studio dei C+C=Maxigross - di Stefano Bellamoli
Studio Tega, la casa-studio dei C+C=Maxigross - di Stefano Bellamoli

Mi passa un link, che prometto di leggere a breve (poi l'ho fatto e ve lo consiglio: è la un'analisi delle differenze tra gli ecosistemi di Spotify e Bancamp, l'ha realizzata Damon Krukowski, musicista di culto e autore di Ascoltare il rumore, libro grandioso pubblicato in Italia qualche tempo fa da Sur). A quel punto deraglio un po': cito Mark Fisher e la fase "realismo capitalista" che vive la musica, inveisco contro le tecniche da pusher con cui i colossi digitali hanno costruito i loro imperi, creando dipendenze, uccidendo la concorrenza a furia di ribassi iniziali, per poi presentare il conto una volta entrati in regime di monopolio. Tobia è molto cortese e mi lascia fare. 

Siamo quasi alla fine della conversazione, in quel punto dell'articolo in cui potrei tranquillamente poter bestemmiare oppure svelare i miei segreti più reconditi, tanto non ci sta più leggendo nessuno da un pezzo. Chiedo a Tobia di parlarmi di questi mesi da rider, il suo nuovo lavoro che ormai è diventato una metafora della modernità e al contempo una sentenza di condanna. "Io in realtà faccio il corriere in bici per una mini ditta privata di mio cugino e del suo migliore amico, dal fantascientifico nome "Corrieri in Bici Verona": siamo in quattro in tutto e portiamo in giro per la città qualsiasi cosa, dall'ottico alla farmacia passando per le lettere degli innamorati. Ho un contratto part time, in una situazione lavorativa umanamente perfetta. Mi ritengo molto fortunato rispetto alle condizioni dei rider, che sono terribili e vergognose, motivo per cui a loro va tutta la mia solidarietà".

Per lui è il primo lavoro completamente extra musicale dai tempi dell'università – "l'ultimo fu il cameriere di catering ai tempi dell'università" –, un lavoro fisico, a contatto con le persone e all'aria aperta. Un'occasione per uscire di casa in un momento in cui a molti è proibito e per mettere un po' di cose in ordine nella mente, dopo anni in cui quasi tutti i pensieri andavano dalla stessa parte, verso lo stesso obiettivo totalizzante e un po' annebbiante. A volte dovremmo ricordarci di farlo anche noi. 

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L'articolo Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema di Dario Falcini è apparso su Rockit.it il 2020-11-18 11:44:00

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