Tutta la musica è sporca per i Gaznevada

Una doppia ristampa ci riporta nella Bologna di fine anni '70, quando 5 alieni pubblicavano una demotape e "Sick Soundtrack", disco ispirato da Brian Eno, New York e i polizieschi in TV. Andy Nevada e soci ci raccontano il punk, l'amicizia con Freak Antoni e perché una reunion è (quasi) impossibile

Robert Squibb (Ciro Pagano) e Nico Gamma (Gianluca Galliani) dei Gaznevada - tutte le foto per gentile concessione di Ciro Pagano
Robert Squibb (Ciro Pagano) e Nico Gamma (Gianluca Galliani) dei Gaznevada - tutte le foto per gentile concessione di Ciro Pagano

La doppietta è micidiale: un uno-due firmato dalla Expanded Music, che ha tirato fuori dagli archivi Gaznevada, in uscita il 31 gennaio per la prima volta su vinile, e Sick Soundtrack, arrivato nei negozi di dischi qualche giorno fa. Si tratta, rispettivamente del primo demotape e del disco di esordio dei Gaznevada, storica band bolognese che, dopo inizio punk, deviò verso altre direzioni, finendo tra le braccia di una new wave – o no wave? – dedita allo sperimentalismo più obliquo.

Accadde tutto tra il 1979 e il 1980, in una Bologna incredibilmente creativa e stimolante, della quale i Gaznevada furono protagonisti di primo piano. Abbiamo contattato tre dei membri originali del gruppo per farci raccontare quei folli anni: Robert Squibb, Andrew Droid/Andy Nevada e Sandy Banana/Billy Blade, le cui vere identità sono rispettivamente quelle di Ciro Pagano, Giorgio Lavagna e Alessandro Raffini.

Foto di Red Ronnie
Foto di Red Ronnie

Più che altro siete conosciuti per “Sick Soundtrack” e per i dischi successivi, però a inizio carriera il suono dei Gaznevada era diverso, il vostro primo demo è lì a dimostrarlo…

C.: La "cassettina", come la chiamavamo noi, venne pubblicata nel 1979 e fu l’ultimo episodio punk della band. Il suono nasce dall’ascolto dei dischi che giravano in Traumfabrik (un appartamento occupato e trasformato in laboratorio creativo, si trovava a Bologna, in via Clavature, in pieno centro, nda) e più precisamente dal genere che ci piaceva in quel periodo: il punk, in particolare quello dei Ramones.

G.: Frequentavo un negozio di dischi, il Disco d’Oro, e il commesso riusciva a procurarsi dischi in edizione originale USA e UK. Il primo disco dei Ramones lo acquistai appena uscito, nel 1976, ma conoscevo già i New York Dolls e gli Stooges. Da ragazzo ascoltavo Velvet Underground, T. Rex, David Bowie, Sparks, tutto quello che, in qualche modo, era punk prima del punk rock. Pochi a Bologna, all’epoca, erano in sintonia con i miei gusti musicali. Quando conobbi quelli che sarebbero diventati i Gaznevada, ci fu tra noi una specie di "scambio culturale". Era la prima volta che incontravo persone che, pur avendo un retroterra molto diverso, si accostavano alla musica senza pregiudizi di tipo ideologico. Mi accorsi che nella musica stavamo cercando la stessa cosa: eccitazione, non relax. Nessuno di noi aveva un impianto stereo decente. Per noi tutta la musica era sporca.

A.: Anche allora eravamo una band di eclettici, ognuno con gusti musicali che spaziavano da Philip Glass ai Roxy Music, ma era questa la nostra forza. Etichettare i Gaznevada come un gruppo punk con riferimenti solo a quel mondo è un errore. Dal punto di vista tecnico ti lascio immaginare: registrammo in un piccolo studio che non era dotato di tutto il moderno software che consente di pulire i suoni, comprimerli, cambiare tonalità. Molte registrazioni vennero fatte quasi fossero in live act in una atmosfera molto informale, isolamento acustico praticamente inesistente. Scegliemmo inoltre di tenere la chitarra di Ciro, una Gibson Diavoletto con un Marshall 100 watt con volume a manetta e distorsore in primo piano, una cosa che nell’Italia dei cantautori non si usava fare. Era, a parte qualche rara eccezione, un sacrilegio nei confronti del cantante, per cui il suono non poteva che essere sporco. E gli anni in cui vivevamo erano sporchi, cupi e duri. Sentivamo l'urgenza di fotografare musicalmente quel periodo.

Insomma, era punk o no?

G.: Il termine punk è piuttosto vago. Secondo me l’essenza del punk, dal punto di vista musicale, è elaborare un linguaggio che permetta di saltare quei dieci-quindici anni necessari per impossessarsi della tecnica di uno strumento e diventare una rockstar. Personalmente, se dovessi per forza definirmi in una parola, be’, anche oggi quella parola sarebbe senza dubbio punk.

A.: Ci sono anche elementi di rock demenziale, ma presto li abbandonammo: non ci interessava fare satira, ci avrebbe confinato in un genere. Nevada Gaz è l'esempio più eclatante del cambiamento di direzione artistica già in atto nella band.

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Nel 1979 il punk stava morendo. Voi come vivevate quel periodo?

C.: Eravamo allineati con quanto succedeva fuori dai nostri confini: Mamma dammi la benza è del 1977 e i primi concerti di Gaznevada sing Ramones del 1978. Mancavano etichette attente al fenomeno, anzi, non erano ancora nate le etichette indipendenti e quando arrivarono noi eravamo già pronti.

G.: L’idea della band era nata molto prima, addirittura nel 1976. Metterla su era molto complicato: servivano molti soldi e non ne avevamo. E non esistevano sale prove. Il Centro d’Urlo Metropolitano (il nostro nome precedente) visse in gran parte solo in teoria, ma nacque persino prima dei Sex Pistols. A Bologna non era prassi normale formare un gruppo e fare concerti. Noi eravamo pronti, ma tutto il resto non esisteva.

A.: Nel 1979 ero a Londra, nonostante nuove tendenze stessero già emergendo c’era ancora una solida e numerosa base di band punk di una certa importanza. Negli USA nascevano gruppi della West Coast come i Germs e i Dead Kennedys. Noi eravamo considerati una stranezza nel panorama italiano: all’epoca con attitudine punk c'eravamo solo noi e le band del Great Complotto di Pordenone, come Tampax e Death SS. Il mercato musicale era dominato dai cantautori che facevano esattamente la musica che noi non volevamo fare. I Sex Pistols erano e sono morti, tutta la paraphernalia di spillette, capelli, scarpe e chiodi con borchie era passata di moda e quella attitudine, duramente repressa in questi tempi orribili, nei quali è quasi impossibile ascoltare qualcosa che non sia cantato con l’autotune, nei quali vengono costantemente utilizzati in modo banale suoni anni ’80, si è nascosta, ma non è morta e ritornerà sotto altre forme.

Quali furono le reazioni dopo l’uscita del demo?

A.: La "cassettina" ebbe una notevole eco sostanzialmente nel circuito underground di fanzine rock, ricevendo buone critiche. Non abbiamo mai conosciuto l’ammontare delle vendite, molto probabilmente esiguo. Il mercato ci interessava relativamente. In quel periodo eravamo molto più impegnati nella preparazione di concerti. Li bramavamo, senza incertezze e timori, era troppo eccitante suonare quella musica aggressiva e sexy! La "cassettina" era un supporto povero e distribuito da una piccolissima etichetta, la Harpo’s Bazar, poi Italian Records, che comunque ci aveva offerto una possibilità facendoci produrre da Oderso Rubini. Non consultavamo certo TV Sorrisi e Canzoni per controllare la nostra posizione in classifica!

 

Com’era il vostro rapporto con il movimento punk bolognese?

C.: Non esisteva alcun movimento punk all’epoca a Bologna: arrivò dopo le nostre prime esibizioni, e noi, nel 1980, avevamo già cambiato direzione. C’era un gruppo di ragazzi punk che ci adorava, questo sì, e ci seguivano nei nostri concerti.

G.: Da parte mia ero in buoni rapporti. Non so loro. Feci amicizia con Helena Velena dei RAF Punk. I punk bolognesi erano molto politicizzati a quei tempi, noi meno. Credo che non ci considerassero punk ma che avessimo contribuito in qualche modo alla nascita del loro movimento.

Ci sono dei versi piuttosto dure nei testi di Criminale: "Voglio fare il bocchinaro, mi farò pagare caro", "Spacco i tubi e le latrine, sodomizzo le bambine". A proporre testi simili oggi, riuscite a immaginare cosa succederebbe?

C.: Quello che succede: "Parental advisory: explicit content".

G.: Il nostro intento era non piacere a nessuno. Volevamo essere disturbanti, scioccare il pubblico, dividerlo. Anzi, sezionarlo. Non ci interessavano la festa e l’armonia, volevamo creare situazioni di conflitto. Oggi un testo così sarebbe impensabile.

Com’era Bologna in quegli anni?

G.: Una città ferita. L’assassinio da parte della polizia di uno studente (Francesco Lorusso, nda) durante una manifestazione nel marzo del 1977 provocò una rivolta che fu sedata con i carri armati.  Bologna, vetrina della "buona amministrazione di sinistra", diventò Budapest, Praga. Una frattura anche generazionale che non fu mai ricomposta. È singolare che il famoso Movimento del ’77 abbia preso il nome dalla data della sua morte.

A.: Nonostante l’introduzione di misure repressive e la percezione di vivere in uno stato di polizia, esisteva ancora una scena artistica, musicale e non, varia e creativa e più occasioni di fare performance live. Esisteva ancora un circuito di piccoli club e locali, o spazi come la sede della F.A.I., Federazione Anarchica Italiana, ridenominata "Punkreas", dove si poteva suonare e dove facemmo i nostri primissimi concerti. Devo riconoscere agli anarchici che furono i primi a capire le potenzialità delle nuove tendenze musicali, a individuare i bisogni di una nuova generazione: offrirono la possibilità a tantissime band emergenti, Skiantos compresi, di suonare dal vivo. Oggi tutto ciò non esiste più, neppure lontanamente, indipendentemente dalla pandemia.

 

2 aprile 1979, palasport di Bologna, va in scena Bologna Rock, il leggendario festival organizzato dalla Harpo’s Bazar. C’eravate anche voi. Quali ricordi ne avete?

C.: Ricordo che noi salimmo per ultimi, dopo l’esibizione degli Skiantos, che cucinarono pastasciutta durante la loro esibizione e il palco era molto sporco. Avevamo preparato la proiezione del film “Non aprite quella porta”, ma c’era troppa luce all’interno del palasport e si perse un po’ l’effetto. Comunque fu la prima volta che ci esibimmo in un palasport, per giunta pieno di gente. Suonammo anche Blue TV Set, il nostro inedito che da lì a breve uscì come lato B del singolo Nevada Gaz. Fu tutto davvero un gran casino, ma molto bello.

G.: Ricordo che era il giorno del mio compleanno. Non ho visto nulla di quel concerto. Arrivai al palasport poco prima della nostra esibizione e i Gaznevada suonarono per ultimi, chiudendo la serata. Per noi fu una specie di test. Venivamo da un altro pianeta. Probabilmente la gente pensava che si sarebbe fatta altre quattro risate come con gli Skiantos.

L’aria del ’77 si respirava ancora o si era voltata pagina?

A.: Si era voltata completamente pagina. Avevo la sensazione, come tanti altri, di andare alla deriva. Non dimentichiamo che il 1980 fu l’anno della strage alla stazione di Bologna, che lasciò un segno indelebile sulla città, noi compresi. Sick Soundtrack è, in parte, la colonna sonora di quel cambiamento.

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Com’erano i rapporti con le altre band bolognesi?

G.: Eravamo molto diversi, noi. La famosa ironia degli Skiantos ci era totalmente estranea anche se, a onor del vero, fu la nostra primissima canzone, Mamma dammi la benza a dare origine al cosiddetto “Rock demenziale”, senza togliere agli Skiantos il merito di aver inventato quella definizione e di averci lavorato sopra. Eravamo molto seri, quasi tragici nel nostro approccio al rock e ci lasciammo subito alle spalle demenzialità e senso dell’umorismo. Ma aldilà di questo, ho avuto negli anni diversi rapporti di collaborazione con alcuni esponenti di quella scena, soprattutto con Enrico Serotti dei Confusional Quartet, e anche con Ignazio Orlando dei Luti Chroma. Sul piano personale ero in rapporti di amicizia con Freak Antoni, che ho sempre stimato molto come cantante e autore di testi.

A.: Cordiali. In moltissime occasioni ho collaborato anche io con Enrico Serotti dei Confusional Quartet e per due o tre anni con Ciccio (Marco Gualandra, nda), il batterista dei Windopen. Ero amico di Freak Antoni e ammiravo le sue grandi doti di entartainer.

Poi, all’improvviso, il vostro suono è cambiato. Cos’era successo?

C.: Ci eravamo stancati, il punk per noi era terminato ed eravamo affascinati dalle contaminazioni che iniziavano a produrre nuovi generi musicali: la no wave e la new wave.

G.: Il nostro primo disco era sperimentale in senso letterale, nessuno dei brani faceva parte del nostro repertorio dal vivo, a parte, credo, Now I Want to Kill. Furono tutti composti in studio. Ci sono addirittura pezzi dei Gaznevada successivi al demo e precedenti a Sick Sountrack che non sono mai stati registrati. Cercammo di diventare la band che avremmo voluto vedere e ascoltare. Non ci ponevamo più il problema di essere punk, new wave o quant’altro. Ci era stata data l’opportunità di esprimerci liberamente e l’abbiamo colta al volo, senza porci altro limite se non la nostra sensibilità in quel momento.

Sick Soundtrack com’è nato?

A: Eravamo cinque personalità con molta voglia di sperimentare e di trovare un sound inaudito. Poco dopo la "cassettina" uscì il nostro primo singolo su vinile: Nevada Gaz/Blue TV Set, l'inizio della svolta. Nel frattempo erano usciti alcuni album importanti, in modo particolare No New York (una compilation curata da Brian Eno, nda), che ci impressionarono molto, non si era mai sentito nulla di simile. Non pensavamo neppure che un disco così potesse essere prodotto. Rimasi colpito in particolare dai Contortions, dal loro punk funk nevrotico ma intrigante. Inoltre, in quel periodo guardavo spesso la tv di notte facendo binge watching di vecchi telefilm polizieschi o di spionaggio e cominciai a concentrarmi sulle colonne sonore. La mia serie preferita era The Avengers, in italiano Agente speciale, che miscelava ambientazioni surreali con scene d’azione, bizzarra e profondamente inglese. Tutto l’immaginario pop, fumetti, science fiction, horror, thriller di cui ci nutrivamo veniva tradotto in musica. Non ho mai più sperimentato una così totale libertà artistica. Suonavamo per il piacere di fare musica interessante, in primo luogo per noi.

 

Avete ricordi sui giorni della registrazione del disco? Andò tutto liscio?

C.: Registravamo di notte in una situazione abbastanza precaria negli “Umbi Studios” di Modena che stavano traslocando altrove. Ci furono anche incomprensioni, soprattutto in fase di mix, ma portammo a casa un buon lavoro e questo è quel che conta.

G.: Ho un’ottima memoria e potrei scrivere trattati sull’argomento, ma sono anche pigrissimo. Niente andò liscio, ma siamo ancora qui, siamo sopravvissuti. Per gli aneddoti citerò il titolo di un libro di un vecchio amico, Filippo Scozzari: "Prima pagare, poi ricordare".

A.: In un certo senso sì, tenendo conto delle nostre personalità così diverse e poco remissive, ma come in tutte le produzioni ogni tanto si litiga. A volte su particolari irrilevanti. Ma nulla che non sia stato risolto abbastanza tranquillamente. 

Come venne accolto?

G.: Male. Vendette poche copie e non vedemmo una lira. Molti complimenti e ammirazione da parte di giornalisti e critici, certo, ma quello che misura il successo di un disco è il conto in banca di quelli che lo hanno fatto: non ci furono variazioni nel mio e in quelli degli altri.

A.: Fu accolto molto bene da quasi tutta la critica musicale, da alcuni giornalisti addirittura entusiasticamente. Predominava l’incredulità, la sorpresa, la sensazione di trovarsi tra le mani qualcosa di alieno. Nessuno aveva mai sentito un disco così prodotto in Italia. Come vendite fu un flop, ma nello stesso tempo dimostrò che c’era un pubblico, seppure non molto vasto, ansioso di ascoltare cose nuove.

Come suonavano i pezzi di Sick Soundtrack dal vivo?

C.: Più veloci nel bpm, più compatti nel suono e più lunghi nelle stesure.

G.: Quando eravamo in forma anche meglio che su disco. Eravamo molto duri e decisi, nelle serate buone.

Com’è stato il lavoro di rimasterizzazione?

C.: È stato fatto negli studi Eccentric Records di Davide Rizzati. Credo sia stato fatto un ottimo lavoro migliorando il suono del disco senza snaturare l’originale, ed è quello che volevamo. Io e Marco Bongiovanni (aka Chainsaw Sally/Marco Nevada) abbiamo seguito l’intera operazione.

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A riascoltarlo adesso, come trovate Sick Soundtrack?

C.: Lo trovo un disco pieno di grandi intuizioni per l’epoca in cui uscì e con qualche ingenuità: eravamo giovani. Resta a mio parere un’ottima testimonianza dell’avanguardia musicale dell’epoca, probabilmente la più definita. E riascoltando la ristampa ne ho la conferma.

G.: Un tempo ero più severo, più attento agli errori (di cui il disco è pieno). Oggi credo sia un disco stracarico di idee non del tutto sviscerate. In molti pezzi centrammo il bersaglio in pieno ma, in generale, Sick Soundtrack contiene una grossa domanda: "E poi?".

A.: Bizzarro, inaudito e ancora fresco anche se con qualche ingenuità e problemi con l’inglese in qualche brano, con testi che sono volutamente criptici e surreali.

Cosa fate adesso?

C.: Faccio i Datura (duo techno dance creato in combutta con Stefano Mazzavillani, nda).

G.: Io mi occupo di fumetti, sono l’editor dell’edizione italiana di Superman, al momento. Nessuno di noi ha abbandonato la musica ma non tutti sono riusciti a trasformare la passione in professione. In ogni caso sulla mia carta d’identità alla voce “professione” c’è ancora scritto “musicista”. Cosa che, in un contesto punk, è un nonsense assoluto.

A.: Io faccio il fotografo da una decina di anni e ho un photostream su Flickr. Ho organizzato una mostra tempo fa, ora mi devo dedicare a tempo pieno alla assistenza di mia madre che ha la veneranda età di quasi 97 anni. Insomma, sono un “caregiver” che sta accumulando materiale, migliaia di foto, sperando tra breve, pandemia permettendo, di organizzare una esposizione più completa. Dopo quindici anni di disgusto per la musica ho anche ricominciato timidamente a comporre.

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Una reunion dei Gaznevada è proprio impossibile?

C.: Noi ci siamo già ritrovati grazie a queste ristampe ed è stato decisamente piacevole farsi coinvolgere da questo progetto comune. Oggi però siamo tutti presi da altro e lasciare le cose come stanno è la cosa più naturale.

G.: I Gaznevada per la gloria hanno suonato anche troppo. È la terza o quarta volta in questa intervista che torno sull’argomento e potrei apparire venale, cosa che non sono, però io credo fermamente a quanto segue: è il denaro che guida le reunion delle band. Niente è impossibile, se ci sono abbastanza soldi in ballo.

A.: Dopo alcune esperienze di vita ho cominciato a usare sempre meno la parola impossibile, però una reunion operativa della vecchia formazione, tenendo conto che Ciro Pagano è uno dei due Datura e Marco Bongiovanni (Chainsaw Sally) è un dj affermato con lo pseudonimo di Dj Markino, la vedo veramente improbabile.

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L'articolo Tutta la musica è sporca per i Gaznevada di Giuseppe Catani è apparso su Rockit.it il 2021-01-29 16:29:00

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