Melampus Ode Road 2012 - Lo-Fi, Rock, Noise

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Le ombre, il passato, precari equilibri: un sound che dimostra come il bianco e il nero producano straordinari effetti di luce.

Nel 1977 qualcuno scattò una foto a me e a mio padre, ero in braccio a lui, avevo un anno. E’ una foto in bianco e nero, coi contorni ondulati che pare un cimelio del dopoguerra e invece no: una foto in bianco e nero originale, non di quelle che ora si fanno perché va così. In quei ritratti lontani, non so bene il motivo, la luce è più forte che nelle immagini a colori, come se fosse necessario un contrasto netto per far risaltare l’essenza, una sorta di uno contro uno dove nessuno vince, se non le sensazioni che il duello produce, l’emozione che porta, e l’eterno, precario equilibrio tra forze opposte. Così, quando si parla di musica cupa, oscura, come non considerare la purezza e il chiarore che la tengono viva, l’indispensabile magia interiore che porta a mille sfumature senza usare alcun colore, la poesia che non è altro che privazione della felicità e insieme corsa sfrenata per raggiungerla.

Le infinite suggestioni di “Ode Road” mescolano bellezza malinconica, cieli immobili dove l’azzurro scompare perché non è nei nostri occhi, una voce che gioca sull’intensità e mai sulla potenza: l’immaginario visivo è dirompente, quasi che un percorso fatto di fotogrammi si stendesse comodamente su un tappeto sonoro, l’impressione è proprio questa, e sondare nuove profondità, con quel che comporta, è inevitabile. Il retaggio dei Melampus è fatto di cattedrali deserte, processioni interminabili, decadenza minimale e suoni ossuti: pensiamo ai Cranes di “Wings Of Joy”, alla dolcezza tragica di Lisa Gerrard, a certi sussurri espressivi di PJ Harvey, alle stagioni che finiscono sempre con un anno in più e più desideri e meno certezze e all’amore che da ispirazione e piacere diventa soltanto soffocare.

“Fall” è una potenziale hit giocata sul ritmo e la voce evocativa, pezzo riuscito e dalle movenze asciutte e nervose à la postpunk, “Thirst” fa sua la pioggia autunnale, quella pioggia che non fa sperare nel sole perché uguale e incessante nel suo lento cadere, e senza sfogare mai in sinfonie di tempesta nel cielo e nel cuore, ti lascia sospeso in una condizione di insostenibile attesa: l’estate non è mai sembrata così lontana, ma questo non è detto che sia un male. “Double Room” si muove sulle tracce di “New Dawn Fades” dei Joy Division e “Dots” è una marcia trionfale verso la notte che incombe ma non fa paura, la paura era piuttosto di quelle notti in cui eravamo in due eppure morivo di solitudine e mi dicevo domani sarà diverso. “Walk With Me” chiude il cerchio incantato con atmosfere gotiche e la consapevolezza di una fine eterea, di un tramonto che è solo quell’attimo eppure ha un suo peso, della luce e del buio, di quell’eterno, instabile equilibrio che muove i nostri passi: ciò che conta, restano le sfumature.

Lavoro che cammina con piglio sicuro sull’alternarsi di vuoti e pieni, tra sogni ricorrenti e reali tristezze mai sopite, un meraviglioso, intimo viaggio emozionale nella parte più nascosta dei nostri giorni velati di grigio, dove i colori sono al tempo stesso ricordi lontani, contrasto netto, e incertezze future: l’istantanea di ciò che siamo ora, rigorosamente in bianco e nero.

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La recensione Ode Road di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2012-10-30 00:00:00

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