The Zen Circus La terza guerra mondiale 2016 - Punk rock

Disco della settimana La terza guerra mondiale precedente precedente

Pop stridente, folk malandrino e un pizzico di new wave. Continua l'invettiva di Appino contro un Paese disidratato e disastrato.

“Altri preferiscono far derivare la parola bellum da bellua, belva: perché è da belve, non da uomini, impegnarsi in uno sterminio reciproco” (Erasmo da Rotterdam)

Macerie, fiamme e desolazione. In primo piano un tavolo con tre drink. Tre aitanti giovani sorridenti si fotografano, contenti di apparire. Chi se ne frega dove, chi se ne frega come, chi se ne frega perché. La copertina del disco nove firmato Zen Circus catapulta in uno scenario apocalittico, in una guerra che non si vive in trincea ma sulla tastiera, che fa più danni della violenza e delle bombe. È “La terza guerra mondiale” quella a cui tentano di sopravvivere Appino, Karim e Ufo. Guerra non voluta però necessaria “per cominciare una nuova era”, “per vedere che faremmo ora”.

La title track (immaginatevela a inizio live) è una cantilena orecchiabile che apre un disco disincantato, disilluso e provocatore, nella più classica e radicata marca Zen. Sorprende sempre come quest’anima ai limiti del bipolarismo riesca a essere così riconoscibile eppure così diversa nell’alternanza tra intimismo solista e fracasso da band. A due anni di distanza (con “Grande raccordo animale” in mezzo) continua l’invettiva della band contro il chiasmo sociopolitico di una realtà in cui le piazze fanno rivoluzione solo quando sono vuote: non c’è più il senso romantico gramsciano della rivolta, è un panorama nebbioso in cui “Ilenia” deve barcamenarsi usando solo il naso, ma ce l’ha tappato.
Le chitarre e i suoni sono, seppur distorti, più liberi da effettistica, ed esaltano il carteggio reale tra la band e una ragazza che chiede consiglio ai suoi guru, e di tutta risposta trova spunti di riflessione sullo strano senso italico di ribellione.
“Non voglio ballare” è non solo il più bel brano del disco, ma una delle ballate migliori uscite dalla penna alcalina di Appino. Acidità, pugni allo stomaco, spintoni e insulti, una vena nostalgica alla “Eskimo” e riff altalenante a ricordare ormai che “la rivolta è un fatto personale”, che la collettività non è più molto bella, ma anzi, sembra una prigione, e che è passato il tempo in cui a parlare nudi sul balcone non ci si ammalava. 

Il lavoro su testi, scrittura e arrangiamenti è stato più profondo e funzionale a edulcorare forse un messaggio che a volte diventa trasparente e si spinge fino al telefonato, ma senza perdersi in banalità spicciole. Sorprendente, apprezzabile e condivisibile l’atto canzonatorio nei confronti del campanilismo quello bieco, che va oltre lo sfottò e diventa merda, “specchio di questa Nazione”, che se poi la pesti puoi fuggire “ma l’odore ti rimane”. “La provincia crea dipendenza, se non ci sei nato non lo puoi capire”: qualche pisano storcerà il naso, qualche livornese ghignerà, ma l’autore lo specifica, “non della mia città canta questa canzone” ma dell’uso che si fa delle grette chiusure regionalistiche, paraocchi sociale che nella provincia estrema si radica prima dell’alfabeto.

A due brani destinati a diventare inni dal vivo come “Non voglio ballare” e “Pisa merda” si contrappone il rock più facilone di “L’anima non conta”, ballatona con tanto di mani a cono e accendini a roteare sulle teste, in un bizzarro mix che vedrebbe bene Rino Gaetano a cantare “maledetto il giorno in cui mi son fidato di questo paese lurido sperduto imbarazzato freddo grigio solitario disastrato”. Tra punte brit, uno stridente pop e schizzi alt-rock si arriva anche al punk, meno punk del solito ma comunque punk: “Zingara (il cattivista)" è una sorta di sequel di “Nun te reggae più”, un sarcastico attacco alla politica e alla normalità di commenti del tipo “difendo la mia razza da tutti i compromessi, difendo il cane, il gatto, guai a chi li tocca, ma a una zingara sì, gli sparo in bocca”. Ci sono effigi adinolfiane, meloniane, berlusconiane, salviniane e poi i buonisti, il PD – guai a pronunciarlo – e i comunisti “colpevoli” di difendere gli invasori e i subumani.

Il giudizio ci indebolisce, il pre-giudizio ci porta all’involuzione. Quella dipinta dagli Zen è una società che ormai non ha più “Niente di spirituale” e produce “figli sbadati, sballati e arroganti”. Il dito di biasimo di Appino sembra puntato anche contro studenti “inesperti, giovani e saccenti”: “San Salvario” è un po’ la nuova “Vecchi senza esperienza”, dove il Pan-busker arruffato è maturato troppo (“dove vai che ormai sei vecchio”) ma a 38 anni suonati potrebbe pure prendere in considerazione l’idea di ricominciare con le droghe, ché “perseverare negli errori forse è l’unica via”. Sbagliando si impara, prima o poi, lo diceva anche Gianni Rodari: "Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa".
Rumorosa, sporca, ritmo ossessivo e testo scivoloso: “Terrorista” se la prende con un altro tipo umano, il terrorista “che scrive sul giornale”. Farà sudare parecchio dal vivo.

Dei 44 minuti di musica da combattimento ben 10 li ruba l’ultima traccia “Andrà tutto bene”: premonizione, previsione, augurio o minaccia? Una chiusa new wave per un disco che per il resto scorre agile. Cupo il timbro, cupo il tono delle strofe, più urlato il ritornello che inveisce contro chi ascolta sempre la stessa canzone nelle radio e nelle tv. Il manifesto critico Zen sta tutto qui: quello che dalla musica la gente vuole è sentirsi dire che andrà tutto bene e che l’amore vince ancora”. Il folk malandrino degli Zen centra il punto e poi se ne distacca, lasciandosi andare a una coda sussurrata di cinque minuti, in cui c’è tempo di finire il gin tonic, fare l’ultimo tiro di sigaretta e tornare a dormire nella foschia. Niente più rumore, si spenga il chiacchiericcio, “ora fate silenzio tutti”. Anzi, “state zitti”.
Ma se avessero ragione loro? Se fossero Appino e soci quelli sbagliati, i soliti criticoni che denunciano l’omologazione e vedono sempre e solo nero? No, probabilmente no. E chi dalla musica cerca proprio quel bene, probabilmente non ascolterà quest’album, che ha mordente, è ironico e meno ostico del precedente, più edulcorato delle prime opere, ma poi neanche tanto: “moriremo tutti, ma in infradito e bermuda. Dai, ci sta”.

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La recensione La terza guerra mondiale di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2016-09-26 00:00:00

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