Moka [Lazio] Hopi 2006 - Post-Rock

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Nove suites sulle quali – dentro le quali – c'è un lavoro pazzesco. Dentro le quali il tanto decantato post-rock odierno diventa – muta in - sinfonia strumentale moderna. Si fa – definitivamente, senza scampo - Paesaggio. Paesaggio Sonoro.

Il dettaglio, ecco. Il dettaglio è la vera cifra del nuovo "Hopi". Le strutture, gli arpeggi, l'esplodere delle chitarre ("False Start", mostruosa), le intro allucinogene ("Panda Strip - part one", che poi esplode in una struttura massiccia) ed i bassi sempre discreti ma presenti: tutto è curato nel profondo. E in un genere come questo, se non c'è il dettaglio non c'è niente. Solo casino.

Il rumore del quartetto romano, invece, è gentile. Non è violento. Non è fastidioso. Non è un rumore "incompetente": è un rumore dotto, rotondo, levigato. Un rumore che viene esattamente come deve venire: pesante, potentissimo – "Panda Strip" in questo senso rimane il manifesto del disco. Ma levigato, che ti dà fiato, ti dà scampo - senti la post-coito "Bahati Grace" o "Highway Driver Son_G".

Certo, come no: parte sempre da lì, quel suono. Dai Mogwai, prima di tutto. Ma anche dai Godspeed You Black Emperor. E però c'è pure il lato "raffinatissimo", ovattato e vagamente psichedelico dei Sigur Rós e dei Múm, per dire. Oppure l'amore per il crescendo che – in particolare con l'ultimo disco – hanno dimostrato i monolitici Deus. Il riferimento non è uno, per fortuna: lo sviluppo è molteplice, per il genere abbastanza variopinto nelle conclusioni. Comunque velenoso.

Si, perché lo stratagemma è sempre quello: prendi una linea - uno straccio di motivo - la iteri e la arricchisci di nuove componenti nei dieci minuti successivi fino a farne appunto una moderna sinfonietta rock. Tutto ciò - per non farla lunga - i Moka lo fanno bene. Bene. Bene.

E si fanno appunto Paesaggio. Anche cinematografico. Non a caso sono invischiati in una serie di colonne sonore: dai corti ai film.

Perché nel loro suono c'è l'esatto contraltare fonico di una ricca gamma di Emozioni che spesso trova la più alta espressione solo nella Musica. In questa musica. Senza parole. E infatti, qui, le parole lasciano spazio. Lasciano la scena al devastante dettaglio del crescendo che riempie e struttura quegli "Homeless Landscapes" con cui l'esperienza si conclude.

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La recensione Hopi di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-03-01 00:00:00

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